Se l’alternativa è il trio Salvini-Berlusconi-Meloni o …

SE L’ALTERNATIVA È IL TRIO  SALVINI-BERLUSCONI-MELONI 
O LA SINISTRA DI FASSINA RENZI PUÒ STARE TRANQUILLO

SE L’ALTERNATIVA È IL TRIO SALVINI-BERLUSCONI-MELONI

O LA SINISTRA DI FASSINA RENZI PUÒ STARE TRANQUILLO

Una somma di debolezze. Da destra a sinistra appare così – sempre più così – il teatro della politica italiana, un palcoscenico su cui si affannano protagonisti non più in grado di intercettare il sentimento del Paese e di dare una qualche risposta alla complessità delle problematiche che abbiamo di fronte. Partiamo dalla destra, improvvisamente scossasi, con la manifestazione di Bologna, dal letargo in cui era caduta da tempo. In molti si sono affannati ad interpretare l’esito della mobilitazione “unitaria”: ha vinto Salvini non solo perché era il padrone di casa e ha imposto la sua leadership, ma anche perché Berlusconi non è riuscito a relegarlo al ruolo di comprimario; no, è il Cavaliere ad essersi imposto, dimostrando di essere ancora vivo, e di avere la golden share sulla coalizione; beh, ma anche la Meloni è stata consacrata nell’olimpo. Niente di tutto questo. La verità è che quella andata in scena a Bologna è la certificazione dell’inesistenza del centro-destra, o meglio di questo centro-destra, come alternativa di governo. Altro che uniti si vince. La Lega di Salvini non è un soggetto in grado di puntare alla guida del Paese. Non lo è il partito, che vede solo in Maroni e Zaia gli uomini con i cromosomi e l’esperienza adatti a stare in una colazione di governo, e non lo è Salvini – della qual cosa ci sembra cosciente – che risulta essere un personaggio tutto e solo mediatico. A cui mancano le condizioni per intercettare il consenso moderato, quello che consente davvero di vincere le elezioni. E non sarà l’abbandono della deriva secessionista e la trasformazione della Lega in forza politica nazionale che permetterà a Salvini – ammesso e non concesso che ne abbia l’intenzione – di acchiappare il voto popolare e liberale che era di Forza Italia e che è oggetto di concupiscenza da parte di Renzi. Si dirà: ma se Salvini e Berlusconi cementano un loro patto, ci penserà il Cavaliere a portare quell’acqua al comune mulino. Ma le cose non stanno così. Primo perché quegli elettori non accetteranno mai un destra-centro a trazione salviniana, non proprio ora che il Pd è riformista e legato al PSE, e non più comunista, tanto che perde pezzi alla sua sinistra. E secondo perché Berlusconi non è più in grado, da solo com’è (e come ha voluto rimanere), di intercettare elettori che o sono stanchi e dunque si rifugiano nell’astensione e nel voto grillino, oppure votano il moderato e anti-comunista Renzi.

Una volta tanto ha ragione Giuliano Ferrara: la parabola di Berlusconi finisce nell’incontro con Salvini. Ma non perché stia nascendo quella del Matteo aspirante lepenista. Quanto alla Meloni, è evidente che non può fare la differenza, tanto più perché si porta dietro le vecchie facce impresentabili dell’ex Alleanza Nazionale. Insomma, l’unica possibilità di rimettere in discussione gli equilibri politici coagulati intorno a Renzi sarebbe la nascita di un grande partito repubblicano italiano (in senso americano) legato al PPE e tendente al centro, aperto ad incrociare i propri destini con quelli del riformismo moderato di sinistra qualora ce ne fossero le condizioni e la necessità. Ed è esattamente quello che non è successo e, ragionevolmente, non succederà.

Tutto bene per Renzi, dunque? Beh, anche qui assistiamo a semplificazioni forzate, specie dopo l’uscita di Fassina e compagni dal Pd. Si passa da un estremo – “Renzi perderà perché l’emorragia a sinistra è troppo forte” – all’altro, e cioè che “il presidente del Consiglio vincerà a mani basse perché il suo sarà finalmente un partito di sinistra votabile anche dai milioni di italiani del centro moderato”. In realtà, in una certa misura sono vere entrambe le cose. È vero che una “sinistra-sinistra” in Italia conserva un seguito misurabile tra il 4% e l’8% a seconda del grado di coesione che esprime, e che mettere insieme Fassina, Landini e Vendola può finire con l’attrarre tutto o quasi il pulviscolo di realtà in cui si era frantumato il fronte massimalista. E che gran parte di questi voti sono portati via al Pd. Ma è altrettanto vero che essi possono essere più che compensati dal voto moderato. A patto, però, che si crei un equilibrio tra le varie anime dell’elettorato, e che Renzi sia capace di tenerle insieme tutte senza per questo dare la sensazione di cerchiobottismo. Altrimenti o un eccessivo sbilanciamento o un troppo dar ragione a tutti, potrebbe rivelarsi fatale.

Inoltre, il tema ancora tutto da svolgere riguarda la sorte dello stesso Pd: anche alla luce dei casi Marino e De Luca – che ci hanno consegnato l’immagine di un partito squassato e fuori dal controllo della segreteria nazionale, preda di becere oligarchie locali – Renzi accelererà verso il “Partito della Nazione”? E se sì, di cosa si tratta veramente? Finora, infatti, è come il “sarchiapone” della gag di Walter Chiari, tutti ne parlano ma nessuno ha mai visto nulla che ne possa far immaginare le sembianze. La cosa non è di secondaria importanza, perché le dinamiche interne al Pd rischiano di trasformarsi a danno di Renzi. Il quale finora è uscito vincitore dalla contrapposizione dura ma senza strappo finale sia con la Ditta di Bersani – specie quando l’ex segretario ha condannato la scelta secessionista dei vari Fassina e D’Ettorre – sia con alcuni grandi leader, da D’Alema alla Bindi. Ora, invece, la dialettica felpata ma ben più incisiva di una serie di esponenti della maggioranza interna che non sono “renziani senza se e senza ma” (i ministri Delrio e Orlando, il governatore del Piemonte Chiamparino, parlamentari come Matteo Richetti e Lorenzo Guerini), che rinfacciano all’inquilino di palazzo Chigi una gestione del potere a dir poco assolutista, rischia di creare fratture molto più pericolose.

Detto questo, il vero terreno su cui alla fine si giocherà la partita tra la politica e gli italiani sarà quello dell’economia. Gli ultimi dati dell’Istat, che ridimensionano le attese sull’andamento del terzo trimestre e fanno immaginare che la crescita non vada a fine anno oltre quel +0,7% di pil che tutti, a cominciare da Renzi, fino a ieri dichiaravano risultato migliorabile di qualche decimo di punto, non aiutano il governo. Ma c’è da dire – anche da parte di chi, come noi, ha sfidato il rischio di sentirsi etichettati come gufi pur di segnalare le insufficienze e gli errori della politica economica fin qui praticata – che il governo si mostra un gigante nel confronto con quello che il sistema politico offre, da destra a sinistra. Ahinoi.

Enrico Cisnetto da Terza Repubblica

 


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