SCUOLA E DEMOCRAZIA. QUALE FUTURO?

SCUOLA E DEMOCRAZIA.
QUALE FUTURO?

SCUOLA E DEMOCRAZIA.
QUALE FUTURO?

“La scuola è stata uno dei banchi di prova della lunga stagione della fallimentare transizione italiana. Ogni volta che cambia governo ci si accinge a cambiare l’istruzione e le sue regole: un cantiere in perpetua ristrutturazione e una sperimentazione su cavie umane che ha accentuato la demotivazione degli studenti e delle loro famiglie.

Chi opera nella scuola o nell’università non fa in tempo ad assimilare il contenuto di una direttiva ministeriale, che già viene investito da una novità che contraddice o supera la precedente” (Graziella Priulla, su Italianieuropei del 3/2012). Ora, siccome questa lunga transizione dalla cosiddetta prima Repubblica, attraverso la fallimentare seconda (anch’essa cosiddetta), a una non meglio definita terza Repubblica è tuttora in divenire, anche la scuola rimane “un cantiere in perpetua ristrutturazione” con le nefaste conseguenze su ricordate, nefaste non solo per tutto il sistema dell’istruzione pubblica, ma per l’intera societas del nostro Paese. E’ (o dovrebbe essere) infatti evidente che il mal funzionamento della scuola pubblica significa un aumento progressivo del differenziale culturale medio della popolazione italiana nei confronti degli altri paesi europei, e un progressivo, anzi, regressivo aumento del tasso di neoanalfabetismo giovanile (e non solo giovanile) che graverebbe  soprattutto su chi non può permettersi di studiare all’estero o in costosi istituti privati. Ecco quindi come il depauperamento della scuola pubblica è direttamente proporzionale alla mancata attuazione del dettato costituzionale della Repubblica democratica italiana, fondata sul lavoro e sulla sovranità popolare, che afferma l’uguaglianza di tutti i cittadini e si impegna a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. A chi spetta “rimuovere” questi ostacoli se non a un’istruzione pubblica che miri all’uguaglianza dei diritti (e dei doveri) di tutti i cittadini e le cittadine della Repubblica? Purtroppo il degrado della classe dirigente politica a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni della nostra storia ha contribuito all’impoverimento culturale e allo smarrimento valoriale così evidente nel mondo giovanile, tanto che da tempo si parla di “emergenza educativa”, e, possiamo senz’altro aggiungere, anche “democratica”. E tuttavia avrebbe poco senso affrontare il tema del nesso, certo fondamentale, tra scuola e democrazia, senza tener nel debito conto il contesto globale di crisi del modello tradizionale di democrazia, se non della democrazia stessa. Vediamo quindi anzitutto di delineare i tratti salienti di questo modello tradizionale:

 

– La democrazia è il procedimento con il quale il demos partecipa, nelle forme stabilite dalla vigente Costituzione, alla formazione degli organismi che esercitano il potere legislativo, e, tramite questi, agli indirizzi generali del potere esecutivo.

– La suddetta partecipazione avviene tramite l’esercizio del diritto di voto nelle periodiche tornate elettorali.

– Nelle periodiche tornate elettorali si confrontano i diversi partiti politici, che sono, secondo il dettato costituzionale, libere associazioni di cittadini che concorrono con metodo democratico a determinare la politica nazionale (Art. 49 Cost).

– Educare alla democrazia significa dunque mettere in grado i cittadini e le cittadine della Repubblica di partecipare effettivamente “all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (Art. 3 Cost).

– Le “agenzie educative” coinvolte in questa attività formativa sono molteplici: scuole pubbliche e private, mass media, partiti politici, associazioni laiche o religiose, parrocchie, sindacati, associazioni professionali.

 

 

Le evidenti difficoltà applicative di questo modello dipendono da diversi fattori:

 

le istituzioni transnazionali che hanno tolto  alcune delle  prerogative statali ai singoli Paesi non sono luoghi in cui è rappresentata la sovranità popolare (si pensi alla Unione Europea, alla Banca Centrale Europea, al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale o al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite).

La crisi  della forma-partito. I partiti tradizionali sono ormai percepiti come costosi apparati burocratici autoconservantisi e come semplici  agenzie o comitati elettorali piuttosto che come strumenti democratici di partecipazione alla vita pubblica.

Perdita di credibilità  di una classe politica rivelatasi complessivamente inadeguata e deficitaria così sul piano etico come su quello tecnico, e conseguente aumento della disaffezione dei cittadini nei confronti delle stesse istituzioni democratiche.

 

In questo quadro globale, il “caso italiano”  presenta aspetti  peculiari dovuti a diversi fattori storici e socioculturali. Ad esempio:  l’estrema varietà delle tradizioni e delle culture locali e municipali – come attesta la sopravvivenza, malgrado il livellamento linguistico ad opera dei media, delle varietà dialettali che caratterizzano la Penisola dalle Alpi al Lilibeo -; il dislivello nello sviluppo economico tra regioni del Nord, del Centro, del Sud e delle isole (la non ancora risolta “questione meridionale”); il debole sentimento di identità nazionale e conseguente  tendenza al particolarismo e al familismo; la presenza diffusa ormai su tutto il territorio nazionale di organizzazioni malavitose che gestiscono enormi e lucrosi traffici illegali e un’intera economia sommersa, in grado di infiltrarsi negli organismi elettivi locali e nazionali; la presenza di uno Stato piccolo ma quanto mai “potente” e di importanza mondiale come il Vaticano (la non ancora completamente risolta “questione vaticana”); la distanza via via aumentata negli ultimi decenni tra una costosissima  e pletorica classe politica di dubbia legittimità democratica (per via del voto di scambio) e la popolazione che si è sentita sempre meno o per niente rappresentata in Parlamento e dai ministri che si sono succeduti nei vari governi della cosiddetta Seconda Repubblica; la corruzione sistemica che ha prodotto un conflitto permanente tra una certa parte politica e la magistratura…

In questo contesto, come sta la scuola?  Riprendo dallo studio della sociologa Graziella Priulla l’analisi e i dati seguenti: “Dalle indagini comparative emerge un dato d’insieme di cui nessuno parla volentieri: solo una parte minoritaria degli italiani ha strumenti sufficienti per orientarsi nella complessità della società moderna. In Italia c’è ancora (constata Tullio De Mauro) un 65% di persone non sufficientemente alfabetizzate, mentre in Svezia sono al di sotto del 30%, in cifre assolute si tratta di più di 32 milioni di persone. E’ la dimostrazione evidente che la nostra classe dirigente ha scelto di non investire  sull’istruzione e sulla cultura, e ha fatto capire che la cultura non è più un valore. Al paleoanalfabetismo del passato, figlio della povertà, si è aggiunto il neoanalfabetismo, figlio della società consumistica e della crescita materiale senza sviluppo culturale”. L’effettiva situazione complessiva della scuola italiana è quindi ben diversa da come potrebbe apparire dai bollettini ministeriali e dai documenti programmatici ufficiali, dove si insiste burocraticamente sugli obiettivi didattici ed educativi e sulla qualità dell’istruzione; la triste realtà è che la scuola italiana da un lato non riesce a coltivare e a valorizzare i “capaci e meritevoli” e dall’altro non riesce a evitare lo slittamento verso il basso del livello culturale medio dei nostri studenti. E’ evidente a tutti che la scuola, oggi, ha perso la sua “aura” simbolica di luogo autorevole in cui la gioventù si forma e cresce culturalmente, umanamente e civicamente. Come rileva ancora la sociologa Priulla, “i ragazzi passano gran parte della loro giornata a scuola, è vero, ma non è lì il centro d’interesse della loro vita; la frequentano, per lo più, in vista del ‘pezzo di carta’ indispensabile per accedere ai vari concorsi e per ottenere il famoso ‘posto’ che garantisca loro tranquillità economica e ruolo sociale. Ora questo non significa che tutti i giovani hanno perso la volontà di apprendere e il gusto di studiare, in tanti sono disposti a dedicarsi allo studio, ma lo fanno più volentieri fuori dal contesto scolastico. Il quale, evidentemente, risulta poco attrattivo non solo, come è ovvio, per gli studenti disagiati e in difficoltà destinati all’insuccesso, ma anche per i primi della classe che non trovano nella scuola stimoli e motivazioni adeguate. Risulta difficile, infatti, applicarsi a un’attività di cui non si intravvede lo scopo. Sia chiaro, anche la scuola di una volta era spesso noiosa, la si criticava perché obsoleta, ma non era percepita come priva di senso. Oggi prevale l’apatia e l’indifferenza: il mondo degli adulti appare confuso e contraddittorio, le istituzioni sorde e opache. Si va per lo più a scuola perché si è obbligati o perché vi si incontrano gli amici, ma le sue istanze e i suoi obiettivi rimangono spesso lettera morta; l’istituzione scuola non è amata e non è più temuta ma solo tollerata”. Ora il problema più serio della scuola è la sua distanza dal mondo vitale e reale dei singoli studenti e dai problemi dell’attuale società; per questo rischia di fallire venendo meno alla sua specifica funzione educativa. E questo può accadere perché – ci ricorda opportunamente sempre la prof. Priulla – “senza interesse e passione per il sapere non si può imparare niente. L’avventura della conoscenza si gioca non tanto nel saper fare, quanto nel dare senso alle cose che si fanno: senza motivazione non si dà apprendimento, né acquisizione ovvero elaborazione profonda, duratura e dinamica delle nozioni ricevute. Di tutto quello che si apprende a scuola rimane poco  se è legato soltanto a un rinforzo (l’interrogazione, l’esame), se non è motivato dall’interesse personale e sostenuto dal consenso sociale. Le radici delle mutazioni in atto nel mondo giovanile sono ben più profonde e ramificate di quanto definizioni superficiali e sbrigative come ‘bamboccioni’ o ‘sfigati’ sembrano sottintendere. La mancanza di motivazioni non è dovuta solo alla personalità del singolo alunno: quando l’immagine della scuola era collegata all’idea di progresso poteva usufruire del rinforzo sociale, ma oggi, retorica a parte, qual è il valore reale che la nostra comunità attribuisce alla scuola?

La Prof. Graziella Priulla

Fu credibile e rispettata finché godeva di una fiducia diffusa, di un elevato consenso, di ideali condivisi. Questa trama si è sfilacciata: è saltato e non è stato sostituito il patto su cui si regge la trasmissione dei valori e delle regole da una generazione all’altra. Manca una volontà progettuale di ampio respiro e sono lontani i tempi in cui il tema dell’istruzione era considerato fondamentale: nel 1946, tra le macerie dell’Italia distrutta dalla guerra, il primo impegnativo scontro politico-culturale riguardò proprio la scuola; protagonisti Concetto Marchesi ed Elio Vittorini. Oggi il mito della produttività è stato maldestramente travasato nel campo dell’ educazione, dove si dovrebbe investire per il futuro; invece la concezione produttivistica e aziendalistica è stata contabbandata come grande riforma per l’ammodernamento del sistema scolastico, ma in realtà gli stanziamenti per l’istruzione sono costantemente diminuiti”. Ricordiamo tutti l’improvvida ma sintomatica battuta dell’ex ministro Tremonti sulla cultura che non dà da mangiare! Purtroppo i “risparmi”  sulla scuola pubblica e sugli istituti di ricerca, l’ostentato  disprezzo per i “beni culturali”, che la Repubblica avrebbe tra l’altro l’obbligo di tutelare (Art. 9 Cost.), non sono fenomeni passeggeri come una ventata di scirocco; quanto alle cosiddette riforme di questi ultimi anni dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che, non fondandosi su un solido terreno culturale condiviso, condizionate come sono state dalla contingenza politica del momento anziché parte di un progetto sociale e culturale che guardi al futuro e non solo all’ immediato, non possono che risultare inefficaci. Ma finché prevarrà la logica dell’utiltarismo e del produttivismo la formazione generale umana, prima ancora che “umanistica”, al pensiero critico, e al gusto per piaceri immateriali come quelli estetici, apparirà come una perdita di tempo, anti-economica e superata dai tempi nuovi; e sarà un’impresa difficilissima persuadere i ragazzi disincantati d’oggi che un altro mondo è possibile, un mondo in cui le competenze non siano unicamente funzionali al loro impiego economico immediato, ma strumenti per migliorare l’umanità in tutti e in ciascuno. E’ chiaro che non è sufficiente parlare di nuove tecnologie e introdurre i computer nelle aule per affrontare la sfida dei tempi nuovi, ma non è nemmeno più possibile ignorare la rivoluzione tecnologica in atto che trasformerà completamente (e già sta trasformando) le prassi didattiche e il modo complessivo di “fare scuola”. Già oggi, abbiamo visto, il concetto di alfabetizzazione non è più quello di un tempo; si pensi alla concreta possibilità di eliminare i lbri di testo, i quaderni e i fogli “di protocollo” e al numero incredibile di documenti e di testi che possono essere contenuti e consultati nella memoria di un computer; si considerino le  possibilità applicative offerte dai nuovi media digitali: ipertesti, comunicazione virtuale, ricerca di dati e informazioni su internet, i social network, i blog…”La scuola come è oggi è avviata al tramonto e anche la figura  professionale dei docenti non sarà più la  stessa. Gli istituti scolastici saranno sempre meno il polo quotidiano di riunione e di lavoro di centinaia di migliaia di studenti che convergono in un luogo appositamente disegnato per loro allo scopo di imparare l’uso degli strumenti necessari per accedere e capire le informazioni depositate nei libri o nelle banche dati, per appropriarsi dei codici che disciplinano gli universi di discorso  e per sviluppare le competenze necessarie per valorizzare socialmente le proprie qualità e il proprio sapere”(da Educazione e Scuola in “Enciclopedia del Novecento III Supplemento” – Treccani). Lo scenario che però si prospetta non appare molto rassicurante per il futuro della democrazia: “Nelle società postmoderne, il progetto di istruzione di massa è stato nutrito dall’illusione che il destino e il progresso siano nelle nostre mani. Le società si sono però rivelate meno malleabili di quanto non si fosse teorizzato e lo sviluppo meno prevedibile di quanto immaginato. In un contesto come questo ci si può seriamente chiedere a che cosa servano le scuole: non servono più a costruire un avvenire migliore diventato impossibile; non servono per governare la società perché questo scopo può ormai essere conseguito con altri strumenti meno costosi e più efficaci” (Idem). Tra gli effetti della cosiddetta rivoluzione numerica nel trattamento dell’informazione resa possibile dai nuovi media ci potrà quindi essere anche la rapida rottamazione dell’attuale  sistema scolastico ( che in parte sembra già sopravvivere a se stesso). E, come se questo quadro non fosse già abbastanza fosco: “Da ultimo, la scuola non può nemmeno creare condizioni favorevoli a ridurre la frammentazione della coesistenza sociale; come ha per esempio dimostrato  l’analisi di Robert Putnam (Bowling alone. The collapse and revival of  American community, New York, Simon & Schuster, 2000) sul collasso del capitale sociale e della vita comunitaria negli Stati Uniti. Come afferma il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, uno dei più acuti e disincantati osservatori della società contemporanea, ‘l’era dell’umanesimo moderno come modello scolastoco ed educativo si è spenta, così come si è spenta l’illusione che riteneva fosse possibile organizzare strutture di massa , sia politiche che economiche, sul modello amichevole di una società letteraria’ (Regeln fur den Menschenpark, Frankfuurt a. M. , Suhrkamp Verlag, 1999)”. Ma se si spegnesse anche la speranza e l’impegno di fare della scuola pubblica un laboratorio quotidiano e aperto dove docenti e allievi, vecchi e giovani, esperti e inesperti, dotati e meno dotati, condividono tempi, spazi, progetti, linguaggi, fatiche e speranze, che significato potrebbero ancora avere espressioni come “integrazione delle diversità”, “educazione ai valori”, “formazione dell’uomo e del cittadino” e, quindi, “democrazia sostanziale e non solo formale”?

 

 

FULVIO SGUERSO

 

IL MIO NUOVO LIBRO

In vendita presso la libreria Ub!K di Corso Italia
La Locomotiva di via Torino
Libreria economica di Via Pia

 

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.