Ripartiamo dalla scuola ma…

Ripartiamo dalla scuola

Ma col piede giusto

Ripartiamo dalla scuola

Ma col piede giusto

 Dopo due mesi di paralisi giustificata solo dal desiderio di tradire il voto popolare, ha finalmente preso forma la maggioranza univocamente uscita dalle urne. Un responso chiaro come mai si era visto dal dopoguerra ad oggi, soprattutto negativamente: fuori gli uomini, i partiti, le idee, i programmi che ci sono stati imposti negli ultimi sette anni, fuori la sinistra e tutto ciò che essa rappresenta. Se lo Stato, come dovrebbe, appartenesse davvero ai cittadini, la persona che lo incarna, preso atto di quel risultato e nel pieno rispetto del dettato costituzionale, senza tanti minuetti – che senso ha avuto consultare la parte politica uscita stracciata dalle elezioni? – poteva invitare i vincitori a stendere un programma condiviso e a mettersi subito al lavoro. Così non è stato e sul filo del golpe si è arrivati a escogitare un governo del presidente per tirarla in lungo fino alla primavera prossima, con la fondata speranza che si ripetesse la transumanza del 2011 e il provvisorio diventasse definitivo.


Fallita, almeno in parte, la missione del Cavaliere Resuscitato, e finito nel ridicolo, con chi ci aveva creduto, il piano surreale di far riportare a galla i compagni proprio da quelli che li avevano affondati, il percorso è diventato obbligato e non sarebbe bastata una forzatura costituzionale per deviarlo. Ma la lunga attesa qualche effetto lo ha prodotto. Intanto ha rischiato di mettere definitivamente l’Italia fuori dalla scena internazionale in un momento particolarmente delicato, coronando  così il progetto della sinistra europeista – vale a dire asservita al IV Reich  –  di relegare il Paese al ruolo di periferia  dell’Europa e di ponte culturale e antropologico con l’Africa. Non a caso proprio quando il Paese era politicamente paralizzato, ci ha pensato lo stesso Capo dello Stato a ribadire che, ovviamente solo per l’Italia, la sovranità nazionale è un residuo ottocentesco del quale ci si deve sbarazzare una volta per tutte: in nome della comune patria europea dobbiamo accomodarci ad assistere allegramente allo smantellamento delle nostre attività produttive a vantaggio di Francia e Germania. A tanto siamo ridotti. In secondo luogo ha rischiato di spengere l’entusiasmo seguito al voto del 4 marzo e di far ripiombare il Paese in un clima di sfiduciata rassegnazione. 


Per fortuna, nonostante il Fatto e qualche fico di troppo cresciuto nell’orto pentastellato, i due interlocutori non hanno fornito pretesti all’arbitro per condizionare l’esito di una partita che in troppi volevano manomettere. Lo spettacolo poco edificante della stampa di centrodestra che invece di incoraggiare l’operato di Salvini si è allineata per l’occasione col Fatto di Travaglio e con i fogli di regime ci ha ricordato quanti tentacoli ha la piovra di Bruxelles e della finanza globale. Abbiamo temuto che l’arbitro, quello che ci troviamo grazie alla costituzione più brutta del mondo, non sostenuto da alcun voto popolare ma scelto da un parlamento non solo decaduto ma illegittimo perché frutto di una legge elettorale dichiarata incostituzionale, portasse via il pallone senza far concludere la partita e impedisse la nascita di un governo in grado di ridare all’Italia la sua  sovranità  e il suo posto nella comunità internazionale.  Un timore, per fortuna infondato, visto com’è finita. Il governo si è fatto, i primi tentativi di boicottarlo hanno fatto male solo a Forza Italia e al Pd, il consenso popolare iniziale è andato via via crescendo, la sua prima uscita internazionale ha disarticolato i rapporti di forza nell’Unione europea, ha fatto perdere la testa a Macron e ha messo a nudo la debolezza della Merkel. Ottimo avvio, nonostante le menzogne di tutta la stampa, di tutte le televisioni, del fronte unito berlusconiano e comunista. Ma ora, accantonata l’idea folle della flat taxsui redditi delle persone fisiche e sostituita con una rimodulazione delle aliquote (a meno che se non se ne voglia fare il grimaldello per far saltare l’alleanza), impostato su basi realistiche e subordinato alla rifondazione dei centri per l’impiego il tema del reddito di cittadinanza per non replicare su scala nazionale la costosa buffonata labronica e varato un programma di provvedimenti attesi e importanti, come lo stop all’invasione e il progressivo rimpatrio dei clandestini, provvedimenti sacrosanti ma congiunturali, bisognerà che si affrontino le questioni strategiche, quelle che determinano un vero cambiamento. E fra queste c’è in primo luogo la scuola.

Ha dimostrato di esserne consapevole Giovanni Floris, autore di un buon libro, Ultimo banco, rara avis nel panorama osceno della paccottiglia pubblicata da giornalisti, politici e reduci della politica. Ricostruire la scuola per ricostruire l’Italia: con questa tesi, sviluppata con serietà e attenta documentazione, Floris, che come conduttore televisivo mi stava e mi sta cordialmente antipatico, ha dimostrato di essere una spanna sopra i suoi colleghi e i politici con cui ha a che fare. Ho soprattutto apprezzato il riconoscimento che, con tutti i suoi limiti, nonostante i colpi ricevuti dal regime democristiano e la mazzata finale della “buona scuola” renziana,  un’aula scolastica  rimane un’oasi nel deserto morale e culturale in cui è ridotta l’Italia. L’unico posto in cui si dà spazio alle cose che contano per davvero, in cui si può ritrovare una dimensione umana e una scala di valori autentici, anche se spesso chi è incaricarlo di curarlo non è all’altezza del compito.

Se il numero dei buoni insegnanti non supera quello degli insegnanti mediocri o pessimi la scuola fallisce il suo scopo e l’oasi rischia di essere semplicemente il luogo della ricreazione o un parcheggio. Non si tratta però solo di stipendi, come pensa Floris: buoni stipendi da soli non creano buoni docenti. Sicuramente non si può continuare a pagare un insegnante come un operaio. Si potrebbe se tutti fossero pagati come operai ma questa è un’utopia che non ha funzionato nemmeno nella Cambogia di Pol Pot. In una società in cui lo status dipende anche dal reddito l’insegnante deve godere di una retribuzione ai massimi livelli, sicuramente non inferiore a quella di un magistrato o di un alto ufficiale dell’esercito. Questo è banale e se in Italia suona strano è perché l’Italia è precipitata al livello del terzo mondo e il comune modo di considerare la gerarchia delle funzioni sociali ne risente. Ma, ripeto, non si tratta solo di stipendi: quella è una condizione necessaria ma né sufficiente né prioritaria. La prima e ineludibile questione da affrontare  è la preparazione del docente e la sua selezione, di cui lo Stato deve farsi garante. Il rigore del percorso universitario dovrebbe costituire il primo filtro. Soltanto i migliori laureati dovrebbero poter accedere a concorsi organizzati su base nazionale e con graduatorie limitate ai soli idonei. La situazione attuale ha dei risvolti grotteschi: le facoltà universitarie non hanno alcuna funzione selettiva; in certi corsi di laurea i voti vanno dal 27 al 30, con un profluvio di lodi.  Anche in quelli per natura più rigidi, come le facoltà scientifiche, ci vuole del bello e del buono per essere respinti, un 18 non si nega a nessuno. E una volta laureato, senza passione, senza alcun contributo personale, con uno straccio di tesi copiato o comprato,  chi ha intrapreso la strada dei concorsi  (a quando risale l’ultimo?) e si è trovato nella palude dei non-vincitori, con le graduatorie a esaurimento dopo aver  pazientato qualche anno è comunque entrato e se la sua preparazione era scadente appena laureato, figuriamoci come si è ridotta durante la lunga attesa! 

Ma non rimprovero a Floris solo l’aver sottovalutato l’importanza della selezione dei docenti (del resto in ogni campo la selezione ha sempre un ruolo cruciale: si pensi ai guasti che ha prodotto e produce la cattiva selezione dei politici); Floris è incorso nell’errore ancora più grave, più grave perché può trovare una sponda dalle parti del nuovo governo, quello di credere praticabile l’idea dell’assunzione diretta dei docenti da parte delle singole istituzioni scolastiche. Già l’autonomia è stata un’idiozia che non ha portato niente di buono al sistema formativo e ha contribuito solo a burocratizzarlo. Ogni Paese ha la sua storia e le sue tradizioni. Non si può impunemente prendere qualche aspetto dell’organizzazione scolastica americana e trasferirlo nel nostro ordinamento come se anche da noi potessero attecchire scuole finanziate da qualche ricco mecenate che le controlla attraverso un consiglio di amministrazione da lui nominato e con un dirigente che risponde a quel consiglio. Un sistema aberrante sotto diversi aspetti ma che in termini di efficacia ed efficienza funziona, perché per garantirsi un ritorno economico o di immagine chi ci mette i soldi vuole che la scuola acquisti prestigio e divenga appetibile  e ha tutto l’interesse a procurarsi i  migliori docenti sul mercato. Questa logica aziendalista da noi può ritenere solo il guscio esteriore, non la sostanza, col risultato inevitabile  di assunzioni clientelari e interferenze dei potentati politici, sindacali e massonici. Le nostre scuole private, pessime sotto ogni aspetto, ne sono un assaggio. Che dio ce ne scampi. 


Mi duole dover constatare che l’esordio non è esaltante. Tolta la dichiarazione d’intenti sulla cancellazione (ma con troppi distinguo) della buona, anzi pessima, scuola renziana, non si capisce quale strada il governo gialloverde (o verdeblu) intenda prendere. Con tutto il rispetto delle buone intenzioni, delle quali per altro è lastricato l’inferno, non ho capito bene il criterio col quale è stato scelto il nuovo ministro. È vero che grazie al voto del 4 marzo ci si è liberati di una fedeli e si è evitato di cadere in una malpezzi ma non c’era altro di meglio che un laureato in scienze motorie che con un curriculum di insegnante di sostegno (senza specializzazione) come un surfista fortunato ha trovato l’onda perfetta per arrivare dritto  alla dirigenza regionale? Con quali autorevolezza e competenza può guidare, se questo è il governo del cambiamento, la scuola e l’università del cambiamento?  La prima scadenza importante che si è trovato ad affrontare è il concorso per dirigenti, tradizionalmente uno strumento di selezione a rovescio nelle mani di sinistra e sindacati per mantenere saldamente in pugno la scuola. Bene, il ministro ha preso pari pari il pacco (in tutti i sensi) dalla ministra dem e l’ha fatto suo senza curarsi di vedere cosa ci fosse dentro.

L’imbonimento passa anche e soprattutto attraverso i quiz, che forniscono un’immagine interessata, fuorviante e distorta non solo della cultura pedagogica ma anche e soprattutto del ruolo del dirigente scolastico e della funzione della scuola, definitivamente privata della sua connotazione umanistica.  

Una prova preselettiva dovrebbe attuare una prima scrematura sotto il profilo intellettivo e della cultura generale, e sa dio se ce ne sarebbe bisogno considerata la qualità media dei dirigenti scolastici (non solo quelli). Invece no. La maggior parte dei quesiti si riferiscono ad aspetti specialistici, marginali, di sospetta attualità in ambito psicopedagogico e sociologico, come l’alfabetizzazione mediatica, alla quale viene attribuita una sconsiderata importanza. Accade così che tal V. Buckingham venga trattato come un classico, nemmeno si trattasse di Mc Luhan, e che si dia spazio alla filosofa dal nome impronunciabile, la Diotima del ventunesimo secolo nota a quattro gatti. Tutto ciò non è solo frutto di incompetenza (c’è anche quella) o della volontà di far comprare testi curati da amici e amici degli amici (c’è anche quella) ma risponde sicuramente al disegno della sinistra di subornare concorrenti insicuri sia emotivamente che culturalmente e disponibili ad inquadrarsi nei ranghi del pensiero unico, che è prima di tutto un non-pensiero.


Il caso della media education (non infierisco sull’abuso dell’inglese, deplorevole in un contesto istituzionale) è paradigmatico. Ai compagni della capacità degli studenti di muoversi fra i media non gliene importa niente. Quello che sta loro a cuore è mettere il bavaglio ad un’informazione senza controllo (il loro), in grado di neutralizzare l’influenza di carta stampata e televisione, che sono nelle mani del grande docapitale, e di favorire il formarsi di gruppi di opinione e di centri di aggregazione a costo zero. Cercano di farlo intervenendo sulla sorgente ma vogliono cautelarsi orientando i fruitori. È un attacco concentrico che periodicamente si ripropone, col pretesto ora delle fake news ora dei diritti d’autore.  

Poi l’aziendalismo, con un’enfasi parossistica sul preside-manager e, anche in questo caso, l’irruzione acritica e ingiustificata sui questioni di squisito interesse accademico  e l’assoluta incapacità di cogliere una visione d’insieme. Una caratteristica, questa, propria dell’incultura di sinistra, asfittica e sussiegosa, fatta di slide, di sintesi drenate di significato, di definizioni apodittiche e di pagine sfogliate senza essere lette. Un’incultura che si manifesta anche negli errori di ortografia sparsi qua e là. Incredibile come i compagni innamorati delle tecnologie dell’insegnamento e della media educationsiano incapaci di usare il correttore automatico. 

Insomma il ministro, evidentemente all’oscuro del verminaio che si muove da decenni intorno ai concorsi, non solo viziati da pesanti irregolarità che puntualmente alimentano interminabili contenziosi ma politicamente e ideologicamente condizionati, non ha ritenuto di mettere le mani sulla macchina già avviata dal precedente governo. Pare evidente che non ha neppure fatto pulizia all’interno del ministero. Se queste sono le premesse la controriforma di cui la scuola italiana ha un disperato bisogno per tornare al suo antico splendore può attendere e l’oasi alla quale il buon Floris accenna è destinata a diventare una fortunata eccezione.

  Pier Franco Lisorini

   Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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