Rifugiarsi nella filosofia

 Questo titolo echeggia il De philosophiae consolatione, scritto da Severino Boezio, filosofo del VI secolo, per astrarsi dalla condizione di carcerato in cui versava per un’ingiusta condanna. Da oltre un anno non siamo nella sua stessa situazione, ma subiamo passivamente una limitazione estrema della libertà e, per giunta, siamo sommersi da pluri-quotidiani resoconti di contagi, ricoveri, decessi. Tutto quanto c’era da dire contro questa protratta sopraffazione l’ho già detto e non è qui il caso di ripeterlo, tanto più che sembra finalmente di essere alla vigilia di un sia pur condizionato, ritorno ad una quasi normalità. 

Provo allora ad accostarmi, come accennato in chiusura di un mio recente commento al libro di Lisorini, [VEDI] al connubio tra scienza e filosofia che contraddistinse il ‘900 fino ai giorni nostri, quasi una tarda eco dei presocratici, quando tra filosofi e scienziati non c’era differenza.

Pitagora di Samo (VI sec. a. C.). La sua scuola fu forse la prima a scontrarsi con le aporie di continuo vs discreto, geometria vs aritmetica. E ciò proprio come conseguenza del suo famoso teorema quando si passa dai quadrati ai suoi lati e si tenta di numerarne il rapporto, cozzando contro l’incalcolabile √ 2

Il parametro che forse più di ogni altro si è discostato maggiormente dalla sua ordinaria connotazione è stato il tempo. E di questo “numero del movimento”, come lo definiva Aristotele, il “maestro di color che sanno”, tenterò di indagare le insospettate proprietà, utilizzando gli strumenti concettuali di cui dispongo.

Intanto, notiamo quanto il presente tenda ad eludere qualsiasi tentativo di definizione, che non sia quella vaga, anche se colorita, di “attimo fuggente”. In effetti, esso si trova in costante movimento nel suo separare il passato dal futuro, di nessuno dei quali fa parte. D’altro canto, ha un’esistenza a sé, sia pure evanescente? 

Il tentativo mentale di fissare il presente ha potuto espletarsi con l’avvento della macchina fotografica. Essa sembra riuscire a fare quanto a noi viventi non riesce: isolare lo sfuggente attimo, a dispetto del suo movimento. In precedenza, solo il pittore riusciva a tanto, ma solo fittiziamente, considerati i lunghi tempi impiegati nelle pose, prima di giungere al ritratto finito. La fotografia, invece, è riuscita a “fermare il tempo”? 

Questa domanda è quanto mai stimolante, perché ne sottintende molte altre, tra cui: nel mondo reale il tempo è continuo o precede “a scatti”? Una prima risposta ce la fornisce il filmato di una telecamera. Per dare il senso del movimento si deve scattare una successione di fotogrammi affinché l’occhio umano non si accorga degli intervalli tra un fotogramma e l’altro. A tal fine, l’esperienza ci dice che il numero di fotogrammi al secondo necessari è intorno a 24-25, che infatti è il numero in uso per le riprese video o cinematografiche. Ai tempi del cinema muto la tecnica disponibile non riusciva a comprimere in un secondo più di una quindicina di scatti, per cui l’occhio percepiva nettamente l’intervallo tra essi, e il filmato procedeva, appunto, a scatti (film “alla Ridolini”). Ma, a prescindere dalla visione umana, nella realtà esiste effettivamente un intervallo di tempo che, pur a noi impercettibile, separa in immagini discrete il procedere fisico di un corpo in movimento? Diversamente detto, il presente, Giano bifronte tra passato e futuro, è contemporaneamente parte di entrambi, e quindi è una grandezza continua, risultato senza sosta della sovrapposizione inscindibile di due stati in cui l’uno (appena passato) si confonde nell’altro (appena accaduto), o ha un’esistenza a sé, e quindi è una grandezza discreta?

 

Il paradosso enunciato da Zenone di Elea (V sec. a. C.), con Achille che parte con 1 metro i svantaggio rispetto alla tartaruga, secondo cui tale svantaggio dovrebbe ridursi, prima di ½ metro, poi di ¼, ecc. senza però mai annullarsi. La matematica dice che la somma di numeri che, partendo da 1, si dimezzano, raggiunge il valore 2 prolungando la serie sino all’infinito. Ma poiché l’infinito non è raggiungibile. Achille non raggiungerà mai la tartaruga. Conferma del fatto che continuo e discreto sono divisi da un salto logico: un percorso continuo e finito non è divisibile in un numero infinito di segmenti discreti

Questa ulteriore domanda ha un’età davvero veneranda, se pensiamo che è da ascrivere tra quelle fondamentali dell’età classica, che distingueva la geometria dall’aritmetica, proprio in quanto la prima era il regno delle grandezze continue, la seconda quello delle grandezze discrete. Sappiamo peraltro che gli antichi pitagorici dovettero ammettere di aver sbagliato nel considerare commensurabili tutte le grandezze geometriche, constatando che, pur essendo un segmento divisibile –almeno mentalmente- all’infinito, non ne esisteva una frazione atta a misurare sia il lato che la diagonale di un quadrato, o i cateti e l’ipotenusa di un triangolo rettangolo. A scombinare le auliche distinzioni tra continuo e discreto era stata proprio la scoperta di queste incommensurabilità reciproche, ossia dei numeri irrazionali, come la radice quadrata di 2 e, nel rapporto tra figure rette e curve, la fastidiosa presenza del pi greco (π). E il tempo, allora, a quale regno appartiene? 

Bella domanda. Ci sovvengono gli antichi paradossi di Zenone, con Achille che gareggia con una tartaruga o la freccia come successione di distinti momenti di fermo, per cui, se ogni istante è separato dagli altri, perché la freccia non cade come un sasso?

Albert Einstein e Max Planck nel 1931. A entrambi si deve l’avvio della meccanica quantistica, nei primi anni del ‘900, che tuttavia sfociò nella sua forma più matura negli anni ’20 attraverso la Scuola di Copenhagen, di cui Niels Bohr e Werner Heisenberg furono i più autorevoli esponenti. Caso emblematico di una teoria che va a parare ben oltre le previsioni dei suoi fondatori

Abbiamo dovuto attendere più di duemila anni, grazie ai moderni scienziati filosofi, per avere una risposta, forse provvisoria, come la storia della scienza ci ha ormai insegnato a giudicare ogni nuova scoperta. Si tratta delle conseguenze della meccanica quantistica, che hanno portato alla scoperta di una grandezza spaziale minima, cioè discreta, per le dimensioni delle particelle elementari, sino allora considerate puntiformi, adimensionali: la lunghezza di Planck*, pari ad un numero incredibilmente piccolo, ma non nullo: 1,616 x 10 elevato alla -33 centimetri. Correlato a questa grandezza è il tempo di Planck, anch’esso di dimensioni infinitesimali, ma non nulle: basti pensare che è il tempo che la luce impiega per percorrere la lunghezza di Planck, cioè 10 alla -43 secondi! Esso è l’unità minima di tempo. Sia la lunghezza che il tempo di Planck sono insomma delle barriere numeriche che non possono essere travalicate, e al di sotto delle quali nulla sappiamo. 

 

*Nell’universo ci sono 3 costanti, valide in ogni suo angolo:

c = velocità della luce

G = costante gravitazionale

Ћ = costante di Planck

Le prime due caratterizzano la relatività generale,

la terza la meccanica quantistica. 

Da una combinazione delle 3 si calcolano la lunghezza 

e il tempo di Planck, che quindi hanno valore universale

 

La barriera dell’ignoranza rispetto alla natura ultima della realtà, alla “cosa in sé”, è un assillo che disturba i sonni di scienziati e filosofi, che non vogliono arrendersi di fronte a nessuna porta chiusa. L’esempio più noto è quello di Einstein, che non accettò mai l’indeterminatezza proclamata dalla meccanica quantistica, che pur aveva contribuito a fondare, arrivando a supporre “variabili nascoste” pur di convalidare la determinatezza della realtà soggiacente alle nostre indagini strumentali, raggiungibile grazie a future tecniche di indagine sempre più affinate. In effetti, l’asserzione scolastica che “natura non facit saltus” è connaturata alla nostra esperienza quotidiana, e pensare che il mondo macroscopico “galleggi” su un substrato indefinibile, in quanto di natura probabilistica, è ben poco tranquillizzante. Tanto più che il passaggio da micro a macro ci è oscuro. Un po’ come quando, nella teoria evoluzionista, si parla di “anelli mancanti” quando si incontrano zone vuote nel variare delle singole specie nell’adattarsi a mutazioni ambientali e/o climatiche. 

 

All’interno dell’obiettivo di ogni macchina fotografica sta il diaframma, qui visto nelle sue varie aperture, da massima a minima. Quanto più è aperto, tanta più luce passa, e tanto più veloce può essere lo scatto. 

Facciamo adesso un salto nel mondo che ci è più familiare, riprendendo il discorso foto-video. Nella fotografia ci sono 3 fattori che ne determinano la qualità: apertura del diaframma, sensibilità ISO della pellicola (sensore per quella digitale), tempo di esposizione. Più (o meno) si apre il diaframma e più (o meno) luce entra ad impressionare la lastra (o il sensore); minori sono le condizioni di luce e più sensibile dev’essere la lastra, con l’inconveniente però di una minor definizione (sgranatura); il tempo di apertura sarà inversamente proporzionale sia all’intensità della luce che al movimento del soggetto. Passando dalla macchina fotografica alla telecamera, abbiamo già detto che 24-25 fotogrammi/secondo sono ottimali per l’occhio umano: al di sotto si ha l’effetto Ridolini, mentre numeri superiori sono ridondanti. Essi sono invece necessari, assieme a tempi di esposizione sempre più brevi, nel caso di soggetti che si muovono a velocità notevoli, come durante eventi sportivi, onde avere filmati nitidi, senza trascinamento delle parti in movimento. A complemento, il flusso di luce deve essere molto intenso, onde non produrre sequenze troppo scure a causa dei tempi di apertura troppo brevi, in parallelo al crescente numero di fotogrammi al secondo. Qualora la luce sia insufficiente, come durante riprese notturne o crepuscolari, si aprirà il diaframma al massimo e per tempi prolungati; mentre, se si devono riprendere movimenti lenti, come ad es. lo sbocciare di un fiore o il movimento della lancetta delle ore, si faranno scatti a distanza di tempo (time lapse) per sopperire all’incapacità dell’occhio umano di percepire movimenti troppo lenti. E, visto che stiamo parlando di tempo, è interessante fare un esperimento mentale, per immaginare cosa succederebbe se volessimo aumentare a piacere il movimento del soggetto e tuttavia scattargli una foto o fargli un video di risoluzione almeno accettabile. 

 

Un attuale esempio di disparità tra continuo (orologio analogico) e discreto (orologio digitale). Entrambi esistono in versioni complete di contasecondi, che rendono visivamente l’idea della divisibilità del tempo che scorre. Scendendo verso le frazioni di secondo, pemane comunque il dubbio di fondo: il tempo procede in forma continua e indivisibile o a scatti, divisibili a piacere? 

Nel caso della foto, tenendo fermo un certo valore di ISO, ridurremo, al crescere della velocità del soggetto, il tempo di scatto, mentre dovremo accrescere l’apertura del diaframma per catturare la maggior quantità possibile di luce. Al limite, per velocità molto elevate, tempo di scatto e apertura del diaframma dovranno essere al minimo e al massimo, rispettivamente, tenendo presente che il diaframma ha un’apertura massima ben definita. Oltre questa soglia bisognerebbe aumentare allo spasimo il flusso di luce e minimizzare altrettanto il tempo di scatto. Non soltanto limitazioni pratiche, in ispecie di ordine meccanico, ma anche di principio, impediscono di procedere oltre un certo limite. (Considerazioni simili possono farsi ripetendo l’esperimento con una telecamera.)

Cosa ci insegna questo esperimento ideale? Ci fornisce uno spaccato, a livello macroscopico, del comportamento vigente a livello submicroscopico. Infatti, negli anni ’20 del Novecento, Niels Bohr e il miglior allievo della sua Scuola di Copenaghen, W. Heisenberg, enunciarono i principi fondanti della meccanica quantistica, di complementarietà e di indeterminazione, che limitano, a livello della fisica atomica, la quantità di informazione disponibile in contemporanea per alcune coppie di grandezze. 

 

W. Heisenberg, fondatore, con N. Bohr, della meccanica quantistica (qui sopra il suo stemma), che scosse dalle fondamenta il mondo della fisica (e della filosofia). Come disse uno dei più geniali fisici del ‘900, Richard Feynman, nessuno realmente la “capisce”, per cui ha attirato su di sé un’infinità di strali. Il suo successo è dovuto al fatto che, nonostante la sua lontananza dalle logiche su cui basiamo la nostra esistenza, funziona! E il mondo odierno sarebbe ben diverso da quello che è diventato, se le sue applicazioni non ne facessero ormai parte integrante, nel bene e nel male

Ad es. non è possibile definire insieme posizione e quantità di moto (velocità) di una particella, perché per informarcene dobbiamo disturbarla, colpendola con altre particelle, tra cui i fotoni di luce. Il punto di urto è tanto più definito quanto più corta la lunghezza d’onda della particella proiettile, ossia la sua energia; ma al crescere dell’energia diminuisce l’informazione circa la velocità della particella bersaglio. Se vogliamo saperne di più sulla sua velocità dovremo usare particelle di minor energia, ossia di maggior lunghezza d’onda, quindi con più spiccate proprietà ondulatorie che corpuscolari. Sotto questo aspetto, è centrale ћ, la costante di Planck, che lega onda e particella, con validità anche nel mondo macroscopico, dove non ne constatiamo la presenza a causa della sua fantastica piccolezza. Essa esprime una relazione molto semplice tra la versione ondulatoria, con λ, che denota la frequenza dell’onda, e p, quantità di moto corpuscolare (mv), attraverso ћ:

λ = ћ/p

Da questa scarna formula si capisce perché le proprietà ondulatorie dei corpi macroscopici siano irrilevanti: la loro massa è talmente grande rispetto ad ћ che il valore di λ è praticamente nullo. 

Tutto il discorso sin qui fatto l’ho maturato in tanti anni in cui non ho saputo sottrarmi, pur da non addetto alle relative discipline, al fascino che emana da questi approfondimenti, basati su un mix di teoria e di conferme sperimentali. Ciò che più stimola la mia ricerca è la constatazione di quanto la natura sia restia a farsi interrogare e trovi sempre il modo di rendere provvisorie e lacunose le scoperte di cui pur andiamo fieri.  

  Marco Giacinto Pellifroni         18 aprile 2021 

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