Requiem per il M5S e per quel che resta…

Requiem per il movimento Cinquestelle
e per quel che resta della democrazia
Il voltafaccia dei Cinquestelle che consegna l’Italia agli eurocrati

Requiem per il movimento Cinquestelle
e per quel che resta della democrazia
Il voltafaccia dei Cinquestelle che consegna l’Italia agli eurocrati

 Avrei scommesso che il governo gialloverde durasse fino al termine naturale della legislatura. Ne ero convinto, com’ero e rimango convinto che le due forze politiche che lo componevano non solo fossero compatibili ma in buona parte sovrapponibili e, per quello in cui differivano, complementari. Semmai pensavo che, archiviata la stagione troppo a lungo protrattasi della sinistra, del pensiero unico, delle nomenclature, emergessero le due anime di una rinnovata democrazia per dar luogo a un nuovo e più sano clima politico e a un autentico, costruttivo, bipolarismo. 

Sono consapevole che guardavo più alla necessità storica, all’astuzia hegeliana della ragione e soprattutto all’interesse della Patria e alle speranze di quanti avevano creduto nella Lega e nei Cinquestelle.


Non mi sfuggiva il pericolo rappresentato dalla pessima qualità umana, culturale, morale e politica degli eletti, in particolare pentastellati, che coi voti di familiari e di qualche decina di amici erano volati in parlamento ma mi illudevo che avessero quanto meno coscienza della loro inadeguatezza e sapessero ascoltare la voce che viene dalla parte sana e maggioritaria del Paese.  Da decenni a rendersi interpreti di lobby minoritarie provvedono infatti con solerzia gli eredi del Pci.

Con tutto ciò condivido pienamente la delusione del filosofetto – absit iniuria a verbo – che ha fatto di un eloquio finto antico la sua cifra personale. Il ragazzo è tutt’altro che stupido e aveva capito che la Lega e i Cinquestelle uniti rappresentavano la nuova Italia, la fine del simulacro di democrazia che troppo a lungo ha consegnato il Paese a gruppi di notabili, al Vaticano, alle logge massoniche, all’apparato burocratico, ai partiti e alle organizzazioni sindacali, alla parte più bieca, disumana, parassitaria del capitalismo mondiale che si è materializzata a Bruxelles. L’Italia è caduta nelle mani di un’oligarchia del tutto avulsa dal corpo della Nazione, impegnata nei propri giochi di potere, convinta che i cittadini siano spettatori passivi, spesso indifferenti e distratti, comunque pronti a rispondere come negli studi televisivi  all’ordine di applaudire o di scoppiare a ridere. 


L’entusiasmo iniziale, suggellato dall’amicizia personale fra i due leader, non ha retto alla guerra di logoramento condotta all’interno della Lega e dei Cinquestelle. I risultati delle elezioni europee avrebbero dovuto rafforzare l’alleanza, solo che avesse prevalso un atteggiamento assertivo e non l’invidia e il rancore: bisognava badare alla solidità del consenso per la compagine governativa e confidare nel fatto che il rovesciamento dei rapporti non incideva sui numeri acquisiti in parlamento. Numeri che consentivano di smussare gli angoli dell’eredità nordista e berlusconiana, dalle autonomie alla flat tax, che per Salvini sarebbero diventate senza problemi una rimodulazione delle aliquote a favore dei redditi medio bassi e una revisione delle competenze delle regioni con l’obbiettivo di renderle non tanto più autonome quanto più responsabili. 

Che all’interno della Lega ci fossero malumori, insofferenza e diffidenza nei confronti dell’alleato di governo è fuori discussione, che qualche esponente di spicco stesse più a suo agio nel bozzolo della padania o sotto l’ala di Berlusconi lo do per scontato ma l’autorità indiscussa di Salvini, senza il quale la Lega bossiana sarebbe evaporata, rendeva (e rende) il partito compatto e le sirene della corte di Arcore e della signora che tenta con scarso successo di dare credibilità politica all’erede del vecchio Msi avrebbero continuato invano col loro canto stucchevole. Salvini sapeva bene che per lui, e per il Paese, era più conveniente mantenere un fronte popolare, o, se si vuole, populista, affrancato dalla soggezione a Bruxelles, all’asse franco-tedesco  e alla finanza globale.


Ma Salvini ha staccato la spina o ha sventato un complotto?

Per mesi Salvini è stato stretto in una morsa micidiale: da un lato i vecchi alleati che lo blandivano e per bocca di Taiani e della Bernini ripetevano ossessivamente ad ogni telegiornale il ritornello “stacca la spina, torna con noi, poni fine a questa innaturale alleanza e a un governo che porta l’Italia alla rovina. Torniamo alle urne e insieme vinciamo!”; dall’altro tutta la macchina da guerra del vecchio sistema cercava di stritolarlo, dai più composti opinionisti ai travasi di bile di Saviano e Travaglio agli agguati dei magistrati, con Zingaretti e i suoi accoliti che ogni giorno tuonavano contro un governo incapace di prendere qualsiasi decisione, al cui interno non si era d’accordo su nulla e che stava portando il Paese nel baratro se non si fosse immediatamente tornati alle urne.

 Ma Salvini  refrattario alle lusinghe e alle minacce vanificava gli sforzi degli uni e degli altri ribadendo ad ogni occasione che l’accordo con i Cinquestelle stava funzionando e che il governo sarebbe durato per tutta la legislatura. Poi l’insight, l’illuminazione. Ha capito che gli amici di Forza Italia e i nemici del Pd non a caso parlavano la stessa lingua, che non avevano alcuna intenzione di andare al voto e che avrebbero usato come alibi l’assoluta indisponibilità dei trecento grillini miracolati  che mai e poi mai avrebbero rinunciato all’occasione della loro vita. E se aveva avuto qualche sospetto che forzisti e compagni volessero farlo fuori, la sgangherata trappola moscovita prima e il voto al parlamento europeo dopo ha trasformato il sospetto in certezza. E prima che la morsa si chiudesse – costringendolo a rassegnare le dimissioni con la complicità di qualche pentastellato – ha giocato di anticipo. Ma una cosa è sicura: lui non aveva alcuna intenzione o alcun interesse a far cadere il governo: erano dentro il governo, anzi, al vertice del governo, i complici dei forzisti e dei piddini.

Annunciando la sfiducia al governo Salvini si è esposto a due rischi:  da un lato la reiterazione del golpe del 2011, resa possibile dalla fragilità delle nostre istituzioni democratiche, che avrebbero consentito di eludere la volontà popolare con la formazione di un fronte antilega per mettere in quarantena il partito che, non per i sondaggi ma in forza del risultato delle elezioni europee, è ampiamente maggioritario nel Paese; dall’altro il ritorno alla infausta coalizione di centrodestra, buona per le amministrazioni locali ma che a livello nazionale servirebbe solo a riportare  il Paese nelle mani dei moderati e del sistema di cui la grande maggioranza degli italiani che hanno votato per la Lega e per il movimento Cinquestelle intendono liberarsi.


Lo spauracchio della deriva autoritaria. I barbari (fascisti?) alle porte 

Già; i moderati. Liberali, democratici, lontani dagli schiamazzi delle piazze e, sottinteso ma non troppo, baluardo contro la demagogia e il demagogo, Salvini, che ci porta all’isolamento in Europa. E il controcanto a sinistra: il ducetto che ha chiesto pieni poteri, sobilla il popolo, ci isola in Europa (ancora!) va fermato. 

Ma la deriva autoritaria alla quale l’Italia è esposta non è quella ipocritamente paventata dai giornaloni e dai fogli filogrillini (il Fatto e la Notizia)  e sotto sotto dai berluscones ma quella conseguente l’aver liberato le pulsioni squadristiche presenti in una frangia dei militanti e simpatizzanti pentastellati, quelli, per intenderci di un ambientalismo becero stupido e aggressivo, che si salda automaticamente con gli squadristi rossi dei centri sociali. All’indomani  dell’annuncio di Salvini  sono spuntati come funghi al canto di Bella Ciao con lanci di bottiglie, d’acqua, per ora. È il vizio ricorrente di non far parlare l’avversario, un vizio contro il quale Di Maio e Grillo non hanno nulla da dire. Se la Lega e i suoi elettori avessero la stessa anima violenta, squadrista e teppista potrei concludere cinicamente: poco male, se le daranno e che vinca il più forte. Ma l’elettore della Lega, il militante della Lega e, per usare le vecchie categorie, l’uomo di destra credono nel voto, nella cabina elettorale, nelle regole della democrazia, non sono attrezzati, almeno finora, per ricorrere ai passamontagna, all’intifada, ai bastoni e alle bottiglie molotov e non frequentano i comizi degli avversari per contestarli. 


Quelli che l’avevano invocata parlano della “crisi più pazza del mondo”

Comunque vada rimane il rammarico per un’esperienza politica che aveva avvicinato gli italiani alla politica, aveva restituito fiducia nella democrazia e nel futuro. Se ne sono sentire tante in queste settimane. Mi sento di dire che i meno avveduti commentatori sono quelli della cosiddetta destra che ora spargono lacrime di coccodrillo e quanti hanno cercato di buttarla in burletta, parlando di una farsa. Ci mancava solo che aggiungessero “all’italiana”, per completare la loro identificazione con gli europei che contano, quelli seri, composti, che parlano francese o tedesco. In realtà sono proprio loro i guitti, come e più dell’ex comico che ha dissipato il patrimonio, quello morale e politico s’intende, conquistato con la sua formidabile intuizione, e che ora recita un copione osceno e irritante su una scena che per fortuna non ha niente a che fare col Paese.  Ma il sospetto è che Qualcuno abbia messo una bomba a orologeria nel governo gialloverde nel momento stesso della sua nascita. Il senso delle cose si può valutare solo a cose fatte, e a cose fatte si può tranquillamente riconoscere che il governo gialloverde era stato battezzato da un officiante che prima aveva provato a strangolare in culla la creatura, poi si era assicurato i mezzi per sopprimerla prima che raggiungesse la maggiore età.  Fuor di metafora solo un ipocrita o un ingenuo può credere che non ci sia un fil rouge fra i no a Savona, le accuse a Siri, le allusioni a Giorgetti, le incredibili accuse del magistrato agrigentino, la goffa trappola moscovita fino alla moto d’acqua, con i compagni (da soli?) impegnati a preparare una sfiducia al ministro che avrebbe consentito di avere un governo monocolore, se vogliamo un governo pongo, retto dall’appoggio esterno rossoazzurro. Salvini, con la sua aria da bravo ragazzo, forse si è fidato troppo del rapporto personale con Di Maio e qualche altro grillino ma era ben consapevole della spada di damocle quirinalizia, resa più pesante dopo il voto grillino per Ursula, e prima che gli cadesse sulla testa  ha creduto bene di scansarsi. 


Un vero leader è scelto dal popolo

Estrarre dallo stupidario alimentato in queste settimane dai giornaloni, nei  talk show televisivi, nelle dichiarazioni ufficiali dei rappresentanti della politica e delle istituzioni le affermazioni più avventate è impresa non facile, tante ne sono state sparate una più grossa dell’altra. Mi limito a considerare quelle che nella loro stupidità sono almeno concettualmente più pregnanti, dopo aver scartato a priori gli “opinionisti” del Fatto la cui capacità argomentativa è pari a quella dei writers dei centri sociali. Sallusti, il pensoso direttore del foglio berlusconiano, invocava papale papale Draghi alla presidenza di un governo di salute pubblica, rischiando, dice lui, di perdere dieci lettori  (ma quanti gliene rimarrebbero?). Draghi, secondo lui, è l’unico uomo forte di cui dispone l’Italia, uno che Trump stesso (ma il presidente Usa non era un cialtrone inaffidabile?) vorrebbe alla sua corte, uno che, perbacco, sa farsi rispettare in Europa e nel mondo  e ridarebbe prestigio al Paese. A parte il fatto che Draghi intanto dovrebbe fare lo sforzo di cimentarsi nella lingua italiana, dismessa da quando si è seduto sulla poltrona dalla banca europea, a parte lo spettro del bocconiano che con tutte le sue entrature a Bruxelles ha rischiato di mandarci a picco, quello che sfugge a Sallusti è gravissimo ed è segno di quanto sia diffusa l’incultura politica. Non esistono uomini forti o grandi uomini in abstracto, per virtù propria o per grazia ricevuta. Gli uomini forti, i grandi uomini, i condottieri sono tali per investitura popolare, perché le loro personali qualità sono esaltate dal riconoscimento collettivo, perché la loro forza promana dalla identificazione, dall’ammirazione, o, più prosaicamente dal consenso. Se queste cose vengono meno loro si afflosciano, rovinano, salvo poi ricevere una postuma elevazione agli empirei della storia condivisa. Così è stato per Alessandro, per Giulio Cesare, per Napoleone, per il Duce. Ma è così anche per i più modesti artigiani della politica: solo i tiranni si impongono per virtù propria, ma devono mantenere il loro potere con la paura e con la forza.  E Draghi,come qualunque altra personalità “autorevole” che l’auctoritas non l’ha ricevuta dal popolo, sarebbe solo un tiranno imposto con la forza del sistema finanziario. Un Conte qualsiasi.


Questo i mandarini che pretendono di tenere in pugno l’Italia lo sanno benissimo ed è per questo che odiano Salvini, Salvini che sa parlare alla gente comune, non tanto fisicamente, con i selfie, gli abbracci e le strette di mano ma facendo proprio il comune sentire, perché il processo di identificazione non è quello teorizzato dalla sociologia e dalla psicologia sociale: non è tanto la massa che si identifica nel leader quanto il leader che si identifica con la massa. Un’aberrazione per i radical chic, per i notabili, per i nuovi ricchi, per i politicanti che guardano con ribrezzo al popolo bue. 

Poi  un ex giovane firma del corrierone, di cui non vale la pena ricordare il nome, uno di quelli che fanno perdonare tutto alle vecchie volpi del giornalismo di regime, dopo aver scoperto che Salvini è stato abbattuto nel Palazzo ma è ben saldo nelle piazze considera normale che i giochi politici si facciano proprio nel Palazzo perché le piazze, in questo caso le urne, sono solo un pericolo da cui guardarsi.

Poi a dritta e manca, il mantra di un Salvini che si è suicidato, che ha sbagliato i tempi, che ha fatto una mossa avventata e sconsiderata (detto da quelli che ossessivamente da mesi gli chiedevano di staccare la spina), che ha provocato una crisi pericolosa (detto da quelli che dicevano che il governo gialloverde spingeva il Paese nel baratro), che ormai è comunque fuori gioco, lui e tutti quelli che alle europee hanno votato per la Lega e relegato il Pd in un cantino. Quel Pd che Mattarella vorrebbe perno della democrazia, insostituibile pilastro dell’Italia incastonata in Europa, incatenata ai valori della resistenza e dell’antifascismo e al guinzaglio di Macron che si crede un leader mondiale.


Il disastro umano morale e politico di Conte

Fra la vulgata secondo la quale Salvini sarebbe passato all’incasso, un po’ ingenuamente perché sciogliere le camere non dipende da lui  e non poteva essersi dimenticato i due forni  accesi da Di Maio prima che si decidesse per il contratto con la Lega, e  il sospetto che il Gran Ciambelliere in veste di fornaio avesse mantenuto acceso il forno che doveva essere spento imponendo i suoi garzoni all’interno del governo gialloverde, corro volentieri il rischio di passare per paranoico e scelgo il sospetto. E non escludo affatto che Salvini sia stato fin dall’inizio consapevole di essere il battistrada per un governo di sinistra, l’agnello sacrificale o, meglio, il topo di un esperimento che lo avrebbe condannato a morte. Non per niente a ogni piè sospinto ripeteva che il governo sarebbe durato per tutta la legislatura, con la stessa convinzione con cui dichiarava di fidarsi di Mattarella (!). Quando uscì il video che mostrava Conte tramare con la Merkel   Salvini si guardò bene da prendere la palla al balzò e di rivelare la trappola che gli si stava preparando; semplicemente, si preoccupò di neutralizzarla e per il bene dell’alleanza si adoperò per minimizzare una cosa che era in sé di una gravità inaudita (un capo di governo che straparla di beghe interne al suo governo con il capo di un governo straniero, altro che quattro chiacchiere  al ristorante moscovita organizzate da un provocatore).

Ma Conte in Europa ha comunque fatto un buon lavoro, per sé, s’intende, e ha confermato le doti di grimpeur collaudate nell’impervio mondo accademico. Magari non sarà stato l’avvocato del popolo, forse ha confuso gli interessi del Paese con quelli suoi personali, ma si è procacciato ottime entrature e si è meritato l’abbraccio dei Signori di Bruxelles e di Strasburgo.  

Terrorizzati dal voto, sommersi dai social, costretti a tagliare una rete che li soffoca e a fuggire da una piattaforma che li butta a mare, diventati teorici dei trucchi parlamentari dopo essere stati i corifei della democrazia diretta, iconoclasti inginocchiati davanti all’immagine del Gran Ciambelliere che avrebbero voluto defenestrare, partiti lancia in resta contro la partitocrazia e aggrappati al salvagente del partito per antonomasia, i trecento miracolati forse salveranno le loro prebende  fino all’ultimo euro ma hanno distrutto il Movimento e si sono fatti divorare dal mostro che hanno fabbricato. 


La bufala di una Lega nostalgica e il coro stonato dell’antifascismo originano in Europa

La Lega nasce da una costola della sinistra. Questo è un fatto. La Lega, culturalmente e politicamente, affondava le sue radici nella cosiddetta resistenza. Anche questo è un fatto. La Lega non origina da un’ideologia ma dalla volontà di tutelare gli interessi del norditalia. L’unico abbozzo di ideologia leghista è stata la mistica druidica di una mai esistita Padania. E anche questo è un fatto, tant’è vero che da parte dei compagni, della sinistra violenta e contigua col terrorismo, dei giornali di regime e del Fatto quotidiano l’accusa che veniva rivolta alla Lega, non solo quella di Bossi ma anche a quella di Salvini, per scongiurare il patto di governo era quella di essere il cavallo di Troia di Berlusconi, il Delinquente, come ama definirlo Travaglio. Mai sentito accusare la Lega di fascismo, di estremismo di destra, di contiguità con la vecchia Alleanza nazionale o con Fratelli d’Italia. 

Non era così oltr’Alpe. Per la stampa francese, spagnola, tedesca la Lega è sempre stata l’estrema destra, con una connotazione che da noi non è  più attribuita nemmeno al partito della Meloni  ma era  riservata – almeno finora – a formazioni minori come Forza Nuova o Casa Pound. Il perché è chiaro: se l’Italia alza la testa è il fascismo che torna.  Poi improvvisamente anche da noi si adotta il punto di vista europeo: la Lega diventa fascista, nazionalista, razzista. È su questo che è caduto – ammesso e non concesso che sia caduto – Salvini. Salvini è il nemico pubblico numero uno dell’Europa, di Bruxelles, della finanza globale ed è da lì, dall’Europa di Macron e della Merkel,che è partito l’ordine di farlo fuori. Un ordine che trova il giuda di turno pronto ad accoglierlo ma che in realtà aveva all’interno delle nostre istituzioni e fra i mandarini i complici e i sodali dei mandanti europei.

L’impudenza franco tedesca è tale che a Bruxelles, a Parigi e a Berlino non si fa niente per nascondere il tentativo di manovrare la politica italiana e di scardinare la democrazia nel nostro Paese; un’operazione che non sarebbe possibile senza la complicità della Chiesa, dei mandarini,  del Pd che mantiene intatta la tradizione antinazionale del vecchio partito comunista. E gli opinionisti di regime che hanno inscenato la miserabile vicenda dei rubli non hanno fiatato sulle telefonate della Merkel:” fate presto, togliete di mezzo Salvini!”


Fra il marzo 2018 e l’agosto 2019 ci sono le elezioni europee, non i sondaggi

Le solenni e perentorie sentenze del Colle, le elucubrazioni dei politologi e le insalate di parole che escono dalla bocca di tronfi e sconosciuti accademici si fermano davanti ai numeri: dopo le elezioni del 4 marzo il partito di maggioranza relativa aveva tutto il diritto di governare alleandosi con un’altra forza politica. Lo poteva fare col Pd, e ci ha provato, lo poteva fare con la Lega, e ne è scaturito il contratto. Due scelte politiche opposte, (curioso il fatto che per i Cinquestelle andassero bene entrambe ma questo era un problema loro e non intaccava la democrazia parlamentare) ma in entrambi i casi ci sarebbe stata una maggioranza in parlamento che rispecchiava la maggioranza degli elettori. Un governo giallorosso avrebbe goduto di una rassicurante maggioranza nelle due Camere e nessuna avrebbe potuto eccepire alcunché, nessuno salvo forse gli elettori grillini ma, si sa, è il rischio che si corre quando si vota un partito. Un anno dopo gli italiani sono chiamati di nuovo al voto per eleggere il parlamento europeo. Il governo gialloverde gode di ottima salute ed è accreditato di un consenso popolare superiore a quello che ne aveva segnato la nascita. I risultati elettorali rovesciano i rapporti di forza fra i due partiti ma la somma del loro consenso elettorale è un ottimo viatico per continuare. Il Pd, già bastonato dagli elettori, subisce un’altra mazzata e si avvia ad essere stracciato alle elezioni regionali.  Si è detto da più parti che allora Salvini avrebbe dovuto passare all’incasso e aprire la crisi di governo. Difficile immaginare una tesi più strampalata. A parte la circostanza che costituzione alla mano si sarebbe semplicemente anticipato lo spettacolo sconcio al quale abbiamo assistito in queste settimane, se anche per un sussulto di dignità si fossero indette nuove elezioni si sarebbe sicuramente imposta a livello nazionale la stessa maggioranza che ha strappato le regioni e i comuni alla sinistra e Salvini  sarebbe stato risospinto nel centrodestra,  a fare i conti con Forza Italia, la casa berlusconiana dei moderati, e avrebbe dovuto rinunciare alla svolta populista e sovranista che l’alleanza con Cinquestelle gli stava garantendo. Molto meglio  il patto con Di Maio – con Conte fermo al ruolo di notaio, non dico di burattino – per percorrere la via del cambiamento.  


Insomma, dopo le elezioni europee risultava evidente che il governo gialloverde manteneva, anzi, rafforzava, la sua legittimazione popolare, poggiante però sulla componente minoritaria in parlamento diventata maggioritaria nel Paese.  Privo di quella componente il governo non è più espressione della volontà popolare e lo è tanto meno  se unisce i suoi numeri parlamentari a quelli di un Pd massacrato dagli elettori. Quello che era legittimo dopo le elezioni del 4 marzo in questa torrida fine estate diventa un schiaffo alla democrazia, che in nessun Paese occidentale sarebbe tollerato. Non sarebbe stato tollerato in una democrazia non solo formale ma sostanziale, e spesso i costituzionalisti sono i peggiori nemici della democrazia, cioè della volontà popolare. Come sono nemici della democrazia quanti eccepiscono che  ormai il voto è stato dato e vale per cinque anni: altrimenti, dicono, ad ogni fluttuazione del consenso dovrebbe corrispondere un ricorso al voto. È una considerazione ipocrita che si sottrae all’evidenza che un partito, il movimento Cinquestelle, uscito malconcio da una consultazione elettorale, pretende di sostituire l’alleato che gli garantisce il consenso del Paese con un partito e un’area politica in crisi irreversibile: ha unito il suo 17% delle europee col 23% dei compagni; insieme raggiungono a stento il 40% a fronte del 53% della coalizione di governo. Ma che idea hanno i grillini della democrazia, della volontà popolare, del consenso?

Saggezza, imparzialità, coerenza nel Colle

 Nell’ammucchiata sinistra che dovrebbe scongiurare le elezioni  forze trascurabili come Leu o  più-Europa sono determinanti. E, a differenza dei piddini, l’erede di Pannella ha detto chiaro e tondo a Mattarella che il nuovo governo avrà il suo appoggio come governo del “disfare”, come governo di rottura nei confronti  delle politiche del governo gialloverde, sui temi economici e soprattutto sul tema dell’immigrazione. E, senza mezzi termini, si riferiva ai decreti sicurezza, che andrebbero cancellati. Poi Mattarella ha ascoltato i grillini che rivendicano la bontà del lavoro svolto e, come pegno di continuità, impongono Conte come premier (salvo poi accorgersi di essere caduti in trappola). Poi ha ascoltato i piddini, che chiedono una discontinuità nella continuità garantita dalla premiership di Conte  (che si finge accettata solo dopo un lungo tira e molla) ma fino al giorno prima rimproveravano al governo gialloverde la stessa cosa che aveva spinto il leader leghista a minacciare la sfiducia (colta al volo da Conte): l’immobilismo causato dai no dei grillini. Allora: il nuovo governo nasce in contrapposizione con quello precedente che ha fatto solo disastri o ne rappresenta una versione riveduta e corretta?  E Mattarella ha chiesto a Conte se si presterà a stracciare provvedimenti da lui firmati, avallati e difesi? E ha chiesto ai grillini per quali motivi politici e di programma hanno consentito a Conte di aprire la crisi nonostante la Lega non avesse presentato alcuna mozione di sfiducia? Se il governo stava lavorando bene, come dicono, cos’è che l’ha inceppato? Perché si sentivano offesi dalle parole di Salvini, che aveva detto “o ci si dà una mossa o si va a votare”? Ma via…Questa sarebbe una maggioranza politica con un programma politico. Sulla base di questa maggioranza “politica” è eticamente decoroso affidare l’incarico di formare un governo? È una domanda retorica, ovviamente.


Ciliegina sulla torta: grillini e compagni si aggrappano a Trump

E, per concludere, l’endorsementdi Trump per Conte. Non ha sfiorato opinionisti e politici nostrani l’idea che oltre Atlantico è inconcepibile che la stessa persona  sia prima il presidente repubblicano e dopo il presidente democratico. Per Trump Conte era a capo di un governo gradito e tale si augura che rimanga. L’endorsement è per la continuità di quel governo, cari compagni e caro Di Maio. Che poi Conte abbia una naturale inclinazione alla doppiezza, questo è un altro discorso.

Salvini ha stanato i grillini e sparigliato i giochi dei congiurati

Minacciando la crisi senza presentare la mozione di sfiducia e soprattutto senza ritirare i suoi ministri Salvini ha parato il colpo che veniva dal nemico Renzi e dal falso amico Berlusconi. Il piano, ovviamente sempre concordato con Bruxelles, prevedeva una soluzione ben diversa da quella alla quale Mattarella e soci sono stati costretti: mettere insieme grillini e Pd screditandoli entrambi e decretando la morte politica di Zingaretti e di Di Maio. Volevano un governo di unità nazionale e se ne trovano uno di sinistra che gli italiani non vogliono. Salvini si doveva dimettere, la Lega doveva lasciare il posto a qualche responsabile e il governo monocolore sarebbe rimasto in piedi col solito Conte, parte del complotto (tant’è che la crisi ha dovuto provocarla lui, non Salvini, cosa che nessuno dice), e l’appoggio di forzisti e piddini, senza la sinistra di Leu e più-Europa, costrette all’opposizione. Berlusconi risorto, Pd ricompattato e sulla via del riscatto. È andata male, compagni, e anche al Giornale se ne facciano una ragione.

  Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione

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