Referendum e dintorni

Il referendum è l’espressione più diretta della volontà popolare. Bisogna però che vi si ricorra per un’effettiva esigenza della società civile che il parlamento non è in grado di soddisfare. E in questo momento la riforma dell’ordine giudiziario è sia in sé sia nella percezione comune l’ultimo dei problemi del nostro Paese. L’ultimo dei problemi anche dal punto di vista strettamente giuridico costituzionale considerato come vanno le cose nei palazzi del potere dopo l’ultimo governo Berlusconi. Il capo dello Stato, al quale i costituenti avevano assegnato una funzione notarile, si è convinto che la nostra sia una repubblica presidenziale e governa in tandem con un primo ministro impostoci dall’asse euroatlantico; entrambi non hanno nulla a che fare con la rappresentatività e al massimo possono contare su sondaggi taroccati. Qui non siamo al Messico, tuonava Matteotti; ora potremmo rispondergli: infatti siamo molto peggio. Da quando a palazzo Chigi è stato insediato Draghi il parlamento ha partorito solo una stitica riforma della giustizia; per il resto ha legiferato il governo, cioè il tandem, a forza di decreti. Affinità elettive, per dirla con Goethe, che spiegano  l’amore del bancario per l’Ucraina e il suo modello di democrazia.

Ma il fallimento del referendum, si dice, va imputato alla freddezza del Pd, il partito delle lobby e in particolare della lobby dei magistrati, alla sua latitanza nei media e soprattutto alla circostanza che i cittadini non sono stati adeguatamente informati. Fa di nuovo capolino la pretesa di educare il popolo, che purtroppo si affaccia in molte delle cosiddette democrazie ed è peggiore di qualunque regime imposto con la forza.  E questa pretesa è presente in tutte le forze politiche italiane, tutte più o meno gravemente affette da una sindrome pedagogica e vittime di un fraintendimento semantico del loro essere “elette”. Sicuramente se il popolo italiano fosse stato chiamato a esprimersi sull’accoglienza, sui destinatari dello stato sociale, sui decreti che di fatto hanno fatto dell’Italia un Paese in guerra contro la Russia la partecipazione sarebbe stata plebiscitaria senza bisogno di sollecitazioni.

In più la sollecitudine del centrodestra ispirata da Berlusconi per il problema della giustizia – che, intendiamoci, non è un falso problema – è però sospetta e interessata e ha convinto molti a starsene a casa, in un momento in cui i partiti che lo compongono, quali che siano i risultati elettorali falsati dall’astensionismo, hanno ormai perso credibilità e sbandano da una parte all’altra. La  coprolalia contagiosa di Sallusti, che improvvidamente imputa a Putin, esagerandole, le malefatte bolsceviche (trenta milioni di morti)  basterebbe da sola a screditare tutto il cosiddetto centrodestra. Lo stesso Sallusti che evidentemente non è più tanto compos sui ha liquidato Cacciari come uno che pretende di pontificare perché “ha letto due libri”. Aveva ragione il Rimbaud di Une saison à l’enfer: il mondo gira, non va avanti e siamo tornati all’isteria maccartista del secondo dopoguerra: i reazionari di ieri e di oggi, il direttore di Libero come il senatore del Wisconsin, temono e odiano le teste pensanti, le “teste d’uovo” come le chiamava McCarthy. Il professore, e mi riferisco a Cacciari, può illudersi di esser di casa nei salotti buoni nei quali si intrecciano politica, affari e informazione ma al momento opportuno smette di essere un fiore all’occhiello e torna ad essere un pezzente da rimettere a cuccia.  Se questo è il giornalismo, quel che produce, per dirla con Catullo e rimanere sul medesimo registro, è solo cacata carta. E la fuga in massa dei lettori non va imputata tutta ai nuovi media; piuttosto c’è da chiedersi quale servizio questi maggiordomi strapagati possano ormai rendere ai loro padroni.

Il re è nudo. Il potere ha perso per strada i suoi orpelli, i leader politici caduta la foglia di fico delle “ideologie”mostrano la loro imbarazzante oscenità mentre gli elettori meno smaliziati continuano a dare fiducia non a quel che sono ma a quel che dovrebbero essere. Ma forse è ingiusto prendersela con la loro ingenuità: se non fosse per loro anche quel poco che rimane di simulacro di democrazia, la cabina elettorale, verrebbe meno. Perché se tutti ci rintaniamo nel nostro privato, se lasciamo che la anoetocrazia, come la chiamai in un mio pamphlet diversi anni fa, conduca il Paese in un regime autoritario squinternato, se ci adattiamo all’idea che le elezioni non servono a nulla, che la funzione dei partiti è quella di creare un ceto di parassiti, che i sindacati sono uno strumento per smorzare sul nascere il conflitto sociale, finirà che le migliori energie sopravvissute a un sistema formativo disastroso ripareranno all’estero o si spengeranno per mancanza di un humus che le alimenti e l’Italia verrà risucchiata dall’Africa, non solo antropologicamente ma anche sotto l’aspetto culturale.

Magari fosse vero che i social sono un antidoto alla deriva autoritaria e all’istupidimento di massa! È quello che temono Draghi e le lobby rappresentate dal Pd, che si guardano intorno preoccupati se da qualche parte si leva qualche vocina stonata. Qualcuno dovrebbe rassicurarli, loro e i loro lacchè della carta stampata e della Tv; da quella parte non corrono alcun pericolo. Si possono risparmiare le liste di proscrizione  e lascino carabinieri e poliziotti a dare la caccia ai ladri invece di costringerli a frugare sulla rete e a indiscrete origliate. Sulla rete, sui social, dai nick namedei commentatori compulsivi scorrono solo banalità, sfoghi onanistici, falsa rabbia risolta sulla tastiera, livore e frustrazioni. Col loro analfabetismo sono un ottimo strumento per registrare il fallimento della nostra scuola – ma basta e avanza la prova che ne danno politici, giornalisti, opinion maker e, ahimè, anche qualche professore – ma non sono loro il termometro che misura la febbre  che sale nel Paese.

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Nei negozi, dal barbiere, nelle palestre, negli incontri occasionali, ogni volta  che si presenta l’occasione per uno scambio di idee al disincanto rassegnato della lunga stagione del Covid  e allo stupore per l’essersi trovati in guerra da un giorno all’altro senza un dibattito nel parlamento e nel Paese ora subentra una rabbia sorda e impotente; è questo il vero pericolo dal quale Draghi e tutta la politica italiana si debbono guardare: perché a mano a mano che le conseguenze  di questa assurda cobelligeranza si fanno più gravi quella rabbia cresce e da impotente può diventare esplosiva, tanto più che non c’è alcun partito che possa incanalarla. E non è una bella prospettiva. Per quanto, infatti, consideri esiziale l’uomo delle banche asservito oltre che al padrone americano ai propri personali interessi vorrei che a spedirlo da dove è venuto – e con lui l’improbabile ministro degli esteri – fossero partiti che hanno recuperato lucidità non capipopolo improvvisati. Di quello (quella) degli interni che, se c’è, assiste all’invasione dall’Africa come se la cosa non la riguardasse è perfino difficile chiedere che venga rimossa dal posto che occupa: non si sa se è ancora lì, se sia nascosta da qualche parte o sia partita per le  vacanze alle Haway.


Pierfranco Lisorini

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2 thoughts on “Referendum e dintorni”

  1. Attenzione professore: il titolo esatto dell’opera di Rimbaud è: “Une saison en enfer”, non “Une saison à l’enfer”. Mi spiace, ma una volta di più: ex ungue leonem!

  2. Leggo sempre volentieri i suoi articoli e le sue analisi politiche e anche questa volta non posso che essere d’accordo con Lei. Ora che succederà con l’uscita di Di Maio dal m5s? Nascerà un nuovo centro con un guazzabuglio di personaggi poco credibili, si rinvieranno di mese in mese le lezioni in modo che questo centro si organizzi e salga nei sondaggi e magari al governo ci ritroveremo Draghi. Sempre più dura andare a votare

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