RACCONTI DI AVVENTURE

 RACCONTI DI AVVENTURE di Franco Ivaldo  
 
RICORDI DI GIOVENTU’: LA SPEDIZIONE ALLE INDIE

Quarta parte 

 RACCONTI DI AVVENTURE di Franco Ivaldo  
RICORDI DI GIOVENTU’: LA SPEDIZIONE ALLE INDIE 
Quarta parte

 Prima parte    Seconda parte   Parte terza

 

 

 

I ricordi di  Leon da quella tetra prigionia correvano verso il passato, verso il  quartiere di Alfama a Lisbona, dove , nelle strette viuzze povere e malfamate ad un tiro d’archibugio dall’altro popoloso borgo della Mouraria, in mezzo ad una folla variopinta di venditori di ogni genere di mercanzie, lui circolava in quel mese di marzo dell’anno di grazia l505,    giovane marinaio venuto da una città ligure. Era giunto nella capitale lusitana a bordo di una goletta ed era in cerca di ingaggio da parte della potenza navale portoghese che, pur avvalendosi dei propri validissimi marinai, non disdegnava di offrire ingaggi anche ai navigatori di altre nazioni.

 Genova e Lisbona, d’altra parte, erano legati da secolari rapporti di amicizia. Lo dimostra il fatto che Cristoforo Colombo scelse, Joao II, il re portoghese per offrirgli di “buscar per l’occidente l’oriente”, subito dopo aver offerto la medesima cosa alla patria genovese. Ma è noto: nessuno è profeta in patria. Anche Joao II, tuttavia, gli rise in faccia, prendendolo per un visionario. Genova era nemica di Savona; entrambe le città, invece, andavano d’accordo con Lisbona. E con la Spagna. Al punto che se le caravelle di Colombo erano spagnole, i quattrini dei finanziamenti concessi a Ferdinando ed Isabella vennero sborsati anche da banche genovesi. Ma torniamo nella grande Lisbona  

 Sia in Liguria che in Portogallo  si cucinava in cento modi u’  bacalau. Ma quel che rendeva più saporito u’ bacalau – in tutte le città buongustaie – erano quelle meravigliose spezie d’Oriente,  i grani di pepe, che valevano quasi quanto l’argento, i chiodi di garofano, la cannella,la noce moscata, tutte droghe culinarie ricercatissime per rendere saporite le pietanze delle corti e dei principi, ma anche – talvolta – della gente comune. Malgrado i prezzi. Le spezie valevano quanto – e forse più – dell’argento. Di un ricco la gente comune non diceva “ha un sacco di soldi”. No. Diceva: “Quello ? E’ un sacco di pepe!”

Anche i grani d’incenso avevano un bel prezzo. Una manna per i mediatori, poiché le spezie passavano di mano in mano e di dogana in dogana. La differenza ? Beh, quella più o meno di tanti altri generi di consumo. Ma tra il magro contadino e il non sempre facoltoso consumatore, c’è  qualcun altro che guadagna cifre spropositate.

 Il Portogallo voleva il monopolio della via delle spezie dalle Molucche all’Europa. Se non fosse stato per Cristoforo Colombo, per Giovanni e Sebastiano Caboto, per Amerigo Vespucci e per lo stesso Ferdinando Magellano, chissà per quanto tempo ancora i portoghesi sarebbero rimasti i padroni della via marittima verso l’Asia, circumnavigando l’Africa, con grande disappunto della maggiore potenza mondiale la Spagna. Ma dopo i viaggi dei Caboto, anche un’altra grande nazione prendeva coscienza delle rotte oltre oceaniche: l’Inghilterra di Enrico VII. Eppoi, installando cantieri navali a Panama, lungo l’ ismo, anche gli spagnoli una via per giungere ad Oriente l’avevano trovata.

Da Alfama, allora, erano partiti i grandi navigatori portoghesi (Vasco da Gama non da ultimo) e il regno di Manuel I, il Fortunato, aveva assunto, praticamente il controllo dei mari d’Oriente. Nella sua corte di Montemor O Novo,   il re progettava una grande espansione portoghese verso il controllo assoluto sulle terre d’Oriente.  

 

Isabella e Ferdinando di Castiglia
L’India, le Molucche, le isole delle spezie erano saldamente in mano alla piccola nazione europea affacciata sull’Atlantico e con a disposizione marinai di prim’ordine che la vicina Castiglia le invidiava. Da quando Lisbona ( per la voce sarcastica di Joao II) si era lasciata sfuggire Cristoforo Colombo, permettendo così a Isabella e Ferdinando di Castiglia di mettere a segno la scoperta del nuovo mondo, il prestigio del Portogallo era apparso incrinato.  Manuel  commetterà un errore anche maggiore lasciando scappare Ferdinando Magellano. Un suddito portoghese, per giunta. Ma al tempo delle spedizioni verso l’India, per il controllo della via delle spezie, quello sbaglio il fiero re del Portogallo non l’aveva ancora commesso.  

 

Tutte queste considerazioni di alta politica erano, comunque, del tutto  estranee ai bisogni ed alle necessità di  Pancaldo. 

 Era un uomo di natura pratica e s’intendeva di navigazione come nessun altro, ma di politica non comprendeva granché. Piuttosto tarchiato, capelli color rame, il naso aquilino, gli occhi marroni piccoli, vivacissimi e penetranti, l’andatura un pò ballonzolante di tutti i marinai, che piegava un pò a dritta ed un pò a manca, era interessato a partire per la grande campagna che la corona portoghese stava preparando nelle Indie. Pagavano bene, questi portoghesi, in fin dei conti.

Più che altro si trattava di una spedizione militare, con l’impiego delle caracche, che sia Genova che Lisbona adoperavano quando si trattava di far fuoco sia dal castello di poppa che da quello di prua sui nemici nelle battaglie sul mare, o anche nei bombardamenti sulle città costiere nemiche.

Una flotta di millecinquecento uomini  aveva messo alla fonda sul Tago ed ingaggiava anche marittimi stranieri, purché non appartenessero alla Spagna, alla Francia o all’Inghilterra, le potenziali rivali sugli Oceani. Venezia e Genova, Repubbliche marinare orgogliose e dal passato risplendente, erano ormai tagliate fuori dalla corsa alla “via delle spezie”, quindi, niente da temere reclutando tra gli equipaggi lusitani anche qualche marinaio genovese, veneto o di altri porti mediterranei, esclusi, dunque, quelli delle cosiddette “grandi potenze”.

Pancaldo si era già fatto le ossa per così dire, navigando nel Mediterraneo per traffici commerciali,  ma la sua vera carriera doveva cominciare proprio in India.

Quella sera, girava per Alfama, in mezzo ai mercanti, ai mendicanti, agli storpi, ai dicitori della buona sorte (la suerte era sempre buena altrimenti chi consultava gli oracoli da strada poi non pagava). Le gitane ronzavano attorno ai negozi dei piccoli artigiani,  qua e là, dei banchi dei pescivendoli e delle friggitorie all’aperto. Dai forni uscivano gustosi fugassin all’ olio ed al rosmarino. I vecchi marinai guardavano con un pizzico d’invidia quei giovani emuli di Bartholomeu Dias o di Vasco da Gama, che si aggiravano nei vicolo – i “caruggi” come li chiamava Leon – a fianco di vistose ragazze, forse non proprio di difficilissimi costumi.

C’è festa ‘na Mouraria! – disse una zingara, facendo l’occhiolino a Leon. Il giovane si tenne ben stretta la sacca da viaggio che portava sulle spalle e andò subito a cercarsi una locanda, nel vecchio quartiere della Morella, appunto. Un pò tristunha y sombria la Moirella està agora! – le disse la locandiera dalle forme procaci, perché la festa deve ancora cominciare. L’indomani poi  sarebbe stata  tutta un’altra cosa, quando le venti navi, all’ancora sul  Tago sarebbero partite per la rotta d’Oriente. Venti navi, il vanto della flotta lusitana. Si mormorava che l’ammiraglio dei mari indiani,  Vasco da Gama in persona, anche se ormai vecchio, le avesse passate in rassegna, nei giorni precedenti esaminando con occhio ammirato quell’enorme armamento che avrebbe assicurato al suo paese il dominio del mondo conosciuto, almeno ad Oriente. 

 

Vi sarebbe stata la notte di festa e la mattina seguente la grande messa  nella Cattedrale . Sulla piazza, il giuramento solenne degli equipaggi. La benedizione dei vescovi, il discorso del vicere delle Indie e comandante in capo della spedizione, Francisco d’Almeida.

 

Ma Pancaldo, quella sera, stanco del viaggio, agognava solo a riposare nel bugigattolo che la locandiera gli aveva mostrato, scrutandone la reazione. Nessun commento. Era un nido di pulci e di pidocchi, né più né meno. Costava una sciocchezza ed, in ogni caso, lui di più non poteva permettersi.  

 

Pensava a quell’ingaggio, accettato dai portoghesi che erano rimasti convinti dal suo curriculum marinaresco. Eppoi, lui non partecipava alla spedizione sui mari dell’India, come sobresaliente, mezzo marinaio e mezzo combattente. No, lui era tutto e soltanto marinaio. Compito suo occuparsi delle vele, stare al timone, evitare le secche, guardarsi dalle tempeste.

 

In un certo senso, era più e meno di un sobresaliente. Era un avventuriero, un  mercenario, ma non tenuto a maneggiare la spada o a prendere ordini militareschi. Doveva fare il suo mestiere e basta. Un avventuriero del mare, ma senza alcun connotato peggiorativo. Anzi, sapeva in cuor suo, che i portoghesi i migliori marinai del mondo, riconoscevano soltanto i liguri come loro pari (se non superiori) nell’arte della navigazione, nel saper domare quelle onde spaventose, quelle tempeste minacciose, che strappavano in un baleno, centinaia di vite di marinai meno esperti.

 

 Ben diversi, invece, i compiti di un altro portoghese sobresaliente.

Anche lui – davvero strana la sorte – si trova in quella sera di marzo alla grande festa in onore degli equipaggi che stanno per partire, a Mouraria. Si chiama  Fernao Magalhaes.

Lui e Leon hanno più o meno la stessa età. Il portoghese è nato a Porto intorno al 1480 ; ha compiuto da poco i venticinque anni. Leon è più giovane di due anni, essendo nato a Savona nel 1482. Ma mancando le anagrafi, le date di nascita di entrambi oscillano in modo che definirli quasi coetanei non è poi così del tutto sbagliato.

Magalhaes, quella sera, aveva una gran voglia di divertirsi, perché era consapevole di cosa l’aspettava.

Stive maleodoranti ed insalubri, dove tutti ammucchiati gli uomini d’armi subalterni, come lui, devono dividere i poveri giacigli con mozzi ed equipaggi. Poi anche i combattenti sarebbero stati uguali a tutta la ciurma nei lavori più penosi. Insomma, un sobresaliente, tutto sommato, poteva provare invidia per un semplice mozzo.

Ma ormai, Ferdinando aveva firmato, che diamine!, lui apparteneva pur sempre alla piccola, nobiltà portoghese. Era un fidalgo de cota de armes. Col diritto di trasmettere agli eredi un onorifico stemma o  blasone, eppoi -ricordava, sorridendo – era stato paggio della regina Leonora. Lui, un paggio! Se la rideva, quando ci pensava, tra il barbone nero ed i baffi  dello stesso colore.

Ma assolutismo reale o no, era pur sempre un fedele suddito portoghese e voleva fare il proprio dovere, con fedeltà a Dio e alla Corona e alla Patria.

Sarà accontentato!

Quella sera, comunque, si divertì. Come si divertono i portoghesi, ascoltando da solo al tavolo di una taverna frequentata dai marinai,  le note malinconiche e struggenti delle cantatrici di fado. Strimpellavano su strumenti a corda, i musici quelle note che dovevano essere state trasmesse dai mauritani, colonizzatori di quel piccolo paese affacciato sull’Oceano, quasi in castigo. Con marinai che doveva essere audaci per forza per affrontare quel mare misterioso, temuto da tutti i navigatori “interni”, quelli sul Mediterraneo che si guardavano bene dal superare le Colonne d’Ercole.

Il fado, vero riflesso musicale della saudade  – con le sue nenie struggenti, uscite dalle labbra di donne brune, tutte vestite di nero, vecchie o giovani, belle o brutte, non importava  – era l’anima di Lisbona. La voce di quelle donne doveva essere un pianto prolungato nella notte e strappare lacrime al cuore di chi le ascoltava. Perché i fantasmi del passato a quelle note tristi si risvegliavano tutti e tenevano compagnia ai solitari. E chi più solo di un marinaio che parte per l’ignoto ? Quelle note così evocative della malinconia erano ancora nelle orecchie di tutti i marinai, quando la mattina dopo sulla piazza prospiciente la Cattedrale, si svolse la cerimonia solenne, il giuramento, con i comandanti inginocchiati davanti all’altare della Cattedrale, la comunione collettiva sulla piazza maggiore, la Santa Messa in latino ma con quella cadenza lenta lusitana dei preti. I dignitari di corte lessero un messaggio di re Manuel. Poi la partenza a vele spiegate della flotta portoghese sul Tago. Le caracche avevano bene in vista, a poppa e a prua. le bocche da fuoco, con le quali avrebbero – a tempo debito, un anno dopo  – sparato contro le  forze  dell’Emiro indiano Zamorino , che aveva accolto con amicizia otto anni prima Vasco da Gama ed i portoghesi, solo per doversene pentire per il resto della sua vita.

Franco Ivaldo

CONTINUA

 

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