Psicologia, politica e buonsenso ai tempi…

Psicologia, politica e buonsenso
ai tempi del coronavirus
Il coronavirus in prospettiva psicologica

Psicologia, politica e buonsenso
ai tempi del coronavirus
Il coronavirus in prospettiva psicologica

Finito l’allenamento en plani air nell’area attrezzata completamente a mia disposizione percorro il lungomare deserto per arrivare alla macchina che ho parcheggiato un paio di chilometri a nord. A una ventina di metri viene verso di me un tizio con bacchette e mascherina alla bocca. Ci guardiamo in cagnesco e io lo precedo nel deviare verso i giardinetti per aumentare il più possibile la distanza fra me e lui.


Ci viene raccomandato di tenere un metro di distanza l’uno dall’altro ma se è possibile ne mettiamo almeno dieci e lo facciamo con una naturalezza incredibile. Grazie al coronavirus abbiamo scoperto che il contatto con l’altro è un portato culturale, il superamento di una naturale ostilità che in condizioni di stress sociale si ripresenta puntualmente. L’uomo è un animale naturalmente sociopatico travestito da zoon politikòn: Aristotele su questo, come su tante altre cose, aveva torto marcio.

L’accaparramento di generi alimentari rivela la stessa ferocia individualista: per assicurare l’approvvigionamento della propria tana il mio vicino, assiduo frequentatore di funzioni religiose, farebbe morire di fame il resto del genere umano. Ricordo con raccapriccio l’assalto alle fontane pubbliche di qualche anno fa, quando ci fu un problema alla rete idrica e l’acqua non arrivava nelle case. In tanti, se avessero potuto, avrebbero impiegato autobotti impedendo agli altri di riempire una sola bottiglia: non potendolo si accontentavano di taniche da cinquanta litri. 

No. Le guerre, le carestie e, in particolare, le epidemie non sono un’opportunità e non rinsaldano un bel nulla. Mettono a nudo la natura ancestrale, solitaria, diffidente di quella che Morris chiamò la scimmia nuda. L’altro è l’infetto, un contaminatore, un pericolo da cui stare alla larga. È qualcosa di più e di peggio della rivalità, che è pur sempre un sentimento attivo che richiama il suo contrario, la pacificazione e l’alleanza. È un ritrarsi, negarsi al rapporto, è lo sguardo torvo e di sbieco del paranoico. 

Il fiume di retorica e di ipocrisia in cui stiamo annegando in questi giorni drammatici ha il solo effetto di screditare simboli e valori che hanno senso quando ci sono le condizioni perché l’empatia ci faccia riconoscere nell’altro. L’invito alla coralità sortisce il solo effetto di liberare la voglia infantile di far chiasso, con lo spettacolo indecente di vecchi che battono pentole e coperchi con la contentezza instupidita che gli accomuna ai loro nipoti. Niente a che vedere con la solidarietà, col sentire insieme, con la methexis. 

 La pietà è figlia dell’abbondanza e della sicurezza. Il barbone infreddolito che ha trovato un riparo vede nel vicino una minaccia non un compagno col quale condividerlo.

Detto questo resta il fatto che una cosa è l’ansia indotta da una situazione di emergenza che si prolunga nel tempo come quella che stiamo vivendo, che attiva strategie difensive ed egoistiche, altra cosa sono gli effetti di eventi catastrofici. Questi per la loro imprevedibilità e incontrollabilità destrutturano le componenti superiori della psiche,  determinano un contagio emozionale per il quale le persone che vivono l’evento si comportano come un sol uomo, diventano folla,  organismo collettivo incapace di raziocinio, accomunate dal panico e dal terrore, che sono emozioni ben diverse dall’ansia e dalla paura e aprono le porte agli istinti primordiali, quelli descritti da Freud come pulsioni di vita, di autoconservazione, e pulsioni di morte, di aggressione e distruttività. E mentre i primi innescano comportamenti di fuga i secondi sono all’origine di vandalismi e violenze. C’e solo da sperare che l’emergenza di oggi non evolva domani in una catastrofe. 

Il coronavirus in prospettiva politica


 Riprendo dall’inizio. Finito l’allenamento e raggiunta la macchina mi avvio verso casa. Incrocio una pattuglia di vigili urbani che mi ferma e mi chiede l’autocertificazione che mi autorizza a circolare. Esibisco la fotocopia delle disposizioni del ministero: “lo sport e le attività motorie svolte negli spazi aperti sono ammessi nel rispetto della distanza interpersonale di un metro”. Inutile, i vigili, anzi le vigilesse, vogliono una autocertificazione, che però non posso produrre perché non prevede le attività motorie e lo sport e quando faccio notare il paradosso non trovano di meglio che ribadire l’invito a rimanere a casa e mi minacciano di sanzioni penali, tirando fuori minacciosamente il libretto dei verbali, salvo poi prudentemente riporlo.  Se ci sono disposizioni che mentre garantiscono un diritto ne sanzionano l’esercizio c’è un problema e per vedere di risolverlo chiamo la prefettura. Una gentile voce femminile mi risponde che se uso la macchina per andare a fare sport anche se evito di espormi o esporre gli altri al contagio rischio però un incidente in seguito al quale dovrei essere trasferito al pronto soccorso in un momento drammatico per la tenuta degli ospedali. Sarebbe, mi dice, l’interpretazione autentica alla quale sono pervenuti i soggetti preposti ad applicare le disposizioni ministeriali, che sono il sindaco, il questore e, appunto, il prefetto. Non indugio sulla inconsistenza del ragionamento, che dovrebbe portare allo stop immediato alla circolazione di auto, scooter e biciclette, quello che mi interessa è che si minacciano sanzioni e si richiamano disposizioni senza una base testuale. Detto in soldoni, si applicano leggi o norme che non sono scritte da nessuna parte. Siamo completamente fuori dallo stato di diritto. Si parte dai provvedimenti per evitare il contagio e si conclude che si devono evitare incidenti stradali; ma che gli incidenti stradali sono parte del problema non lo devono decidere in forma orale dei funzionari locali.

 Nel merito potrei anche aggiungere che se la situazione fosse quella di Wuhan un provvedimento estremo come quello di rinchiudere tutti nelle proprie case potrebbe, forse, avere senso; ma se si dovesse giungere a tanto che ci fanno gli operai edili sulle impalcature, le signore in macchina che vanno a fare la spesa nei supermercati, le centinaia di persone che portano a spasso i loro cani, per non dire della necessità impellente che spinge a procurarsi le sigarette, ufficialmente giustificata sugli schermi televisivi dal funzionario di polizia che si dichiara tabagista e guai toglierli le sigarette. Insomma: se si deve chiudere si chiude tutto, i cani fanno i loro bisogni in casa, i militari ci portano da mangiare, fumatori e tossici si disintossicano e restano aperti solo ospedali e camere mortuarie.

Prove tecniche di stato d’assedio, di colpo di Stato, di sospensione dei diritti fondamentali? Un esperimento per vedere fino a che punto il popolo italiano, descritto come indisciplinato e anarcoide, è in realtà incline alla sottomissione? Di sicuro un’ottima occasione per liberare la protervia, la prepotenza, il sentimento di onnipotenza degli uomini in divisa, nella maggior parte dei quali lo spirito di servizio e il rispetto per il cittadino sono latitanti. 

 

 Ma non intendo spingermi troppo avanti con le congetture e mi limito a registrare i fatti. Approfittando del coronavirus stampa e telegiornali hanno scotomizzato Salvini e l’opposizione. Il leader della Lega è praticamente scomparso, sale alla ribalta solo per essere additato alla pubblica riprovazione con una fotografia che lo ritrae per le strade di Roma dove circola, lui dice per fare la spesa, invece di starsene rintanato in casa. Chissà se il papa in giro per la Città Eterna andava a cercare un tabaccaio aperto. In compenso a tutte le ore ci vengono imposti Gualtieri, qualche ministro di contorno e soprattutto, in modo ossessivo, la faccia e la voce di Giuseppi Conte. E magari non saranno prove tecniche di colpo di Stato ma è sicuramente un tentativo di manipolare l’opinione pubblica, di creare l’immagine di un salvatore della Patria, di un nocchiero dalla mano ferma che ci porterà fuori da questi flutti tempestosi.

Quando disposizioni sanitarie passano dalla comunità scientifica – che, detto per inciso, più che una comunità è un nido di serpi – al potere politico e da questo agli apparati di polizia, non solo quelle disposizioni vengono irrigidite e trasformate in provvedimenti fini a se stessi ma si corre il rischio concreto di mettere nelle mani dell’esecutivo e dei suoi organi periferici un potere discrezionale enorme, aggravato, in questo caso da una martellante campagna mediatica di sostegno al governo. Non è il momento delle critiche: questo è diventato un mantra tanto falso quanto ripetuto.

 

 È vero il contrario: questo è proprio il momento delle critiche, quello in cui l’opposizione deve essere più agguerrita. Quello in cui gli uomini liberi del nostro Paese debbono mantenere alta la guardia per contrastare il tentativo di approfittare dell’emergenza per rafforzare il regime, che nel nostro caso ha la sua espressione in un governo privo del sostegno popolare, quindi illegittimo e illiberale. E non è motivo di preoccupazione solo la stretta sulle libertà personali, scriteriata e goffa perché mentre impedisce a un anziano di passare la mattinata sulla panchina di un parco a leggere il giornale e lo costringe in casa a rincretinirsi davanti alla televisione, consente ai proprietari di cani di scorrazzare liberamente, ma soprattutto la spinta verso un regime autoritario e paternalistico. Stanno rendendo indistinto il confine fra la norma e la raccomandazione quando se la raccomandazione avesse un fondamento serio e corrispondesse ad una necessità reale  dovrebbe diventare norma, perché in uno stato di diritto la norma scritta mi può garantire offrendomi anche la possibilità di contestarla nel caso in cui fosse incoerente o in contrasto con norme di rango superiore, ma l’allusione minatoria a una norma o a un’ordinanza che non esistono mi lascia in balia dell’arbitrio del primo emulo di Alberto Sordi in divisa che mi capita davanti. E in nome dell’emergenza, in un clima di dolciastra unanimità, col sottofondo della musica dai balconi, in questo stringersi intorno al governo che si illude in questo modo di legittimarsi, ecco i provvedimenti che ci dovranno traghettare fuori dalla crisi, il decretone che si è dimostrato un decretino e mi verrebbe da dire dei cretini. Quelle di Salvini erano solo chiacchiera e propaganda: Giuseppi, il traghettatore, scuce 25 miliardi che, dice lui, ne valgono non si sa come 300, evitando accuratamente di dire che sono un debito che Bruxelles baderà che venga onorato nei prossimi anni. E furbescamente ha trovato il modo di elargire un regalo da 40 milioni alla Rai e di buttarne 60 per prolungare l’agonia di quella macchina mangiasoldi che è diventata Alitalia. Se tanto mi dà tanto vorrei vedere quanta intelligenza e visione strategica ci sia nel complesso del provvedimento magnificato da Conte. Quello stesso Conte dimentico della sufficienza con la quale liquidava Salvini, che molto più tempestivamente aveva chiesto che il governo provvedesse con un primo e immediato intervento di 30 miliardi senza passare per l’Europa per fronteggiare l’emergenza.


L’esposizione mediatica comporta però qualche inconveniente: il cittadino telespettatore ha ancora nitida nella memoria la faccia di Conte che con l’aria di chi la sa lunga rassicura gli italiani messi in allarme dalla Lega e da qualche Cassandra come Burioni, bollato come un uccellaccio del malaugurio, e alla Meloni che chiedeva la quarantena per chi veniva dall’estero replicava “Così si alimentano inutili allarmismi, la possibilità di diffusione del virus in Italia è pressoché remota”. Era il 21 febbraio; Renzi si dimise per molto meno.

Per concludere sullo stai a casa o, macronianamente, restez chez vous

 

 Fatta salva la necessità di evitare contatti ravvicinati e l’obbligo per chi ha contratto il virus o è entrato in contatto con un contagiato di rispettare la quarantena – che fatta in casa sortisce però l’immediato e sicuro effetto di contagiare i familiari – e constatato che provvedimenti indispensabili come la sanificazione delle aule scolastiche, dei posti di lavoro, degli ascensori, degli androni e delle scale dei condomini, delle strade, non vengono attuati o vengono attuati con incredibile ritardo, come non viene attuato uno screening della popolazione a rischio, l’invito a restare in casa il più possibile è senz’altro sensato ma non può diventare  un obbligo anche perché non è per nulla risolutivo e l’andamento dell’epidemia lo dimostra con tutta evidenza. Il problema, ahimè, è che non costa nulla, mentre provvedimenti seri come una vera quarantena per i contagiati e i possibili contagianti, test di massa, presídi gratuiti come disinfettanti personali, mascherine, guanti, sanificazione di ambienti costano e poiché costano non vengono presi, come non viene preso il provvedimento principe di sigillare i confini e di rispedire a casa loro gli immigrati illegali. E non solo costringere a stare in casa non costa nulla  ma è politicamente utile perché serve per saggiare fino a che punto il regime si può spingere contando sulla docilità di un popolo che ha già incassato senza fiatare il colpo di mano che rovesciò Berlusconi col pretesto dello spread, ha inghiottito tranquillamente la riforma Fornero, ha consentito e consente che si dilapidino le risorse dello Stato per mantenere gli africani che scappano dal lavoro sottraendole alla sanità e al sistema formativo, si fa governare da un governo che poggia su una maggioranza racimolata in un parlamento che non è più espressione della volontà popolare ed è stato imposto con la ridicola giustificazione del congelamento dell’Iva. 

La sicumera con la quale amministratori locali di ogni colore vedono nel chiudere in casa la gente l’arma risolutiva per sconfiggere il virus trova una giustificazione solo nel lavaggio del cervello al quale tutti siamo sottoposti e il fatto che sia rinforzata dai cosiddetti esperti, accuratamente selezionati allo scopo, dimostra solo che loro sono i primi a non sapere che strada imboccare o che pesci prendere. Intanto, lo ripeto, il tutti in casa cozza contro l’apertura di supermercati, negozi di generi alimentari, fruttivendoli, farmacie e tabaccai per non dire delle passeggiate dei cani; nel primo caso mantenere una distanza che garantisca dal contagio è problematico, nel secondo è difficile convincere i cani a non fraternizzare fra di loro coinvolgendo i loro padroni.  Ma  se è vero, com’è vero, che il contagio si trasmette attraverso le emissioni dal naso e dalla bocca, il luogo elettivo in cui il virus passa da un soggetto all’altro sono i locali chiusi. All’aria aperta  un metro di distanza forse non è sufficiente, soprattutto se si staziona davanti a qualcuno, ma se si è soli dov’è il pericolo di contagiare o essere contagiati?  Che il virus rimanga sospeso nell’aria o aderente all’asfalto è una barzelletta; i contagi, da noi come nei primi focolai dell’epidemia, si sono sviluppati all’interno di comunità e fin dall’inizio si sarebbero dovute impedire nel modo più rigoroso le occasioni di incontro, di socializzazione, di contatto, a cominciare  dalle manifestazioni di solidarietà con i cinesi e contro il presunto razzismo. E ora bisognerebbe strappare gli orecchi a quanti invitavano i cittadini a non abbandonare l’abitudine di cenare nei ristoranti cinesi, quando già si sapeva in primo luogo che il governo cinese aveva dato notizia dell’epidemia con forte ritardo; in secondo luogo che i cinesi mantengono contatti continui con la loro patria e molti di loro sono originari proprio delle zone dove tutto è cominciato. Non c’è bisogno di essere virologi, epidemiologi, statistici per constatare come il tasso di contagiati fra giocatori di calcio, gente di spettacolo, politici e cosiddetti vip nonché, purtroppo, personale sanitario, è molto più elevato rispetto alla popolazione generale. La risposta è semplice e banale: sono persone che passano più tempo in locali chiusi, che siano cene fra amici, riunioni, luoghi di lavoro o di incontri ravvicinati di altro tipo. Ed è del tutto evidente che i luoghi in cui ci si ammala di più sono gli ospedali, gli ambulatori medici, le case di riposo, le carceri.  Quindi va bene evitare assembramenti e scambi di convenevoli ma meno isteria nel volerci chiudere in casa. Leggevo poco fa della sanzione inflitta a Riccione a un signore che lavava la macchina in un autolavaggio deserto, una sanzione accompagnata da un coro di riprovazioni per il reprobo. Siamo al delirio. 

Dopo aver sentito che le mascherine non servono a nulla; che c’è un’emergenza per la carenza di mascherine; che occorre fare i tamponi; che se ne sono fatti troppi; che bisogna farli a tutti; che bisogna farli solo ai sintomatici; che  è un raffreddore un po’ più cattivo; che è un virus sconosciuto; anzi no, lo conosciamo bene; che la sanità italiana è pronta a reggere l’urto; che la sanità italiana è al collasso; dopo tutto questo le uniche cose chiare e comprensibili che sono state dette sono l’invito a lavarsi le mani e a stare alla larga da chi potrebbe sternutirci addosso. E ora vorremmo un po’ di silenzio, che le televisioni trasmettessero qualche vecchio film e ci risparmiassero esibizioni, passerelle, e soprattutto la faccia pensosa e i proclami di Giuseppi.

E concludo con una domanda che mi assilla: ma tutti quegli anziani che  sono morti e stanno morendo dove sono stati contagiati dal virus? Molti sicuramente in ospedale dov’erano ricoverati per altre patologie o nelle strutture per non autosufficienti ma non sarà che la maggioranza di loro l’hanno contratto proprio stando in casa?  Quanta  salubrità c’è nella promiscuità delle nostre coree superaffollate dove si vive in cinque in quaranta metri quadrati?

  Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione   

 

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