Professioni di fede

Aveva ragione Gibbon quando scriveva che la caduta dell’impero romano aveva segnato una svolta nella storia dell’umanità di cui si sarebbero avvertiti, e pagati, gli effetti fino ai suoi, e ai nostri, giorni. Se fosse stato più esplicito avrebbe potuto dire che la rivoluzione etica e culturale operata dal cristianesimo ha compromesso per sempre un modo d’essere e di pensare modellato attraverso i secoli di storia del mediterraneo, composto e fissato nella cultura romana e radicato sempre più profondamente nella tradizione. Un modo d’essere e di pensare con riferimenti valoriali saldamente impiantati nella storia, nella tradizione, nel mos maiorum, nel quale si conciliavano natura e cultura, umano e divino.  Le categorie di  peccato, pentimento, fede – e con essa la professione di fede,  l’odio verso i senza fede, reietti, non-umani, strumenti del male, figli del demonio – sono estranei a quel modo di essere e di pensare.  Al quale sono anche estranei il fanatismo e la convinzione che da una parte stia il bene, il giusto, la verità e dall’altra l’errore, l’ingiustizia, compresi nel bagaglio delle comunità cristiane che dopo secoli di lenta, continua, inesorabile immigrazione-invasione finirono per imporli a tutti i popoli dell’Impero minandone le basi culturali politiche e religiose.

 Medio evo? Nemmeno per sogno: quelle categorie e quegli atteggiamenti sono tuttora parte essenziale della cosiddetta civiltà occidentale – quanto meno del modo corrente di intenderla – di provenienza oltr’atlantica e impregnata di calvinismo, distante anni luce dalla cultura italiana, nella quale il fiume carsico della romanità non solo ha alimentato una lingua nella quale continua a vivere senza soluzione di continuità il latino ma ha favorito una salutare spaccatura fra clericalismo e laicismo. Un fiume carsico che periodicamente irrompe in superficie e dà luogo alla civiltà comunale, all’avvento dell’umanesimo all’esplosione  rinascimentale  e continua a esprimersi nelle voci di  Machiavelli, di Vico, di Beccaria o di Leopardi, voci stonate rispetto al pensiero unico intriso di bigottismo manicheo e portatore di valori assoluti. Quella spaccatura, presente in forme più o meno attenuate in altre realtà storiche nazionali culturali e linguistiche europee, dalla Spagna alla Francia alla Germania ma appena accennata nel mondo anglosassone è del tutto ignota in America. Impregnata, quest’ultima, di un moralismo bigotto dalla quale resta immune solo una ristretta parte del mondo accademico, che non per nulla si abbevera allo stesso fiume carsico della civiltà classica. Ma la sorgente italiana rischia continuamente di essere inquinata proprio dall’americanismo, che in larga misura coincide con la globalizzazione, portatore di una cultura massificata, acritica, moralistica sotto le mentite spoglie della trasgressione e soprattutto intollerante.

L’ultima prova di inquinamento di quel fiume carsico da parte della “civiltà occidentale” di matrice protestante e di lingua inglese mi è stata offerta dal processo mediatico al quale viene sottoposta Giorgia Meloni, ferma sulla soglia del salotto buono della politica. La porta, nonostante il lasciapassare dell’amministrazione americana, per ora rimane socchiusa in attesa del passaggio decisivo: l’abiura solenne, la professione di fede, la prostrazione davanti ai sacri testi, la recitazione delle parole scolpite nell’eterno bronzo delle norme “transitorie” della carta costituzionale. Come brutalmente ha tuonato la Gruber nel suo talk show ben venga la Meloni a installarsi nei palazzi del potere, perché donna – questo è un valore aggiunto come dimostra la finezza politica della leader finnica sospesa fra politica e passerella -,   perché guerrafondaia, europeista, atlantista, bideniana più di Biden e ammiratrice degli eroici combattenti del battaglione Azov;   ma se manca l’auto da fe, la professione di antifascismo Giorgia va fermata. Perché si può anche provare simpatia per Bandera, si può bonariamente sorridere sulle croci uncinate tatuate sul petto e sulle braccia villose dei nuovi Leonida dell’acciaieria di Mariupol ma se non si dichiara urbi et orbi l’odio per Mussolini e se ci si sottrae all’anatema per vent’anni della nostra storia si resta fuori dalla comunità dei nuovi credenti, dei giusti, dei custodi del Pensiero Unico e della democrazia, che notoriamente è di per sé antifascista e figlia della resistenza.

La Meloni è una politica di piccolo cabotaggio, nutrita di frasi fatte, priva di una visione politica, alla guida di un’accozzaglia che mi riesce difficile identificare come partito. La semplice ipotesi che possa essere a capo del nostro governo mi fa accapponare la pelle, nonostante il discredito in cui è caduto palazzo Chigi  dopo che ha ospitato il trasformismo di Conte e la furia anti italiana dell’uomo di Bruxelles  (e della Casa Bianca). Perché c’è un limite a tutto e con la Meloni al governo ci troveremmo il peggio di Conte, il peggio di Draghi e, anche se non lo abbiamo sperimentato, il peggio di Salvini.

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Ci sono, insomma, ottimi motivi per esorcizzare l’ingresso di Giorgia e dei suoi nella sala di comando di questo barcone sgangherato che è diventata l’Italia. Tanti ottimi motivi ma per carità non tiriamo in ballo il fascismo e l’antifascismo! Abbiamo bisogno di intelligenza, responsabilità, valori nazionali autentici e non di cartapesta; abbiamo bisogno di persone che abbiano a cuore la società italiana, che siano disposte a farsi carico delle sue difficoltà, dei suoi interessi, delle sue attese. La Meloni ha ampiamente dimostrato di non essere fra queste, punto. Di quello che pensa del Ventennio o dell’opinione che si è fatta di Mussolini non me ne importa nulla e sono convinto che non importa nulla agli italiani. Sono altresì convinto che la signora non abbia gli strumenti per porsi criticamente di fronte alla storia e ai suoi protagonisti.Ma anche se così non fosse, i giudizi di valore in ambito storico lasciano il tempo che trovano: chi ha un minimo di senso critico si documenta, legge, studia, impara a dipanare i fili intrecciati degli eventi, sa che le cose appaiono in modo diverso da prospettive differenti e che la realtà si svolge su più piani e cerca di soddisfare il suo bisogno di conoscere, non di giudicare.

Il libro della Meloni a testa in giù

Detto questo, ognuno di noi ha le proprie idiosincrasie, i suoi punti fermi e  una storia personale dalla quale non può prescindere. Ma una cosa è certa: la politica, come il governo di una nave, non dipende dai gusti alimentari, dalle scelte sessuali, dall’orecchio musicale o dall’opinione su Mussolini o sul fascismo. In politica si difendono gli interessi di pochi o di molti, dei più abbienti o dei poveracci, ci si adopera per cambiare o per conservare; in politica è legittimo avere idee diverse sugli stili di comando, sull’accentramento o la diffusione dei centri decisionali, purché si sia guidati dalla stella polare dell’interesse nazionale (e questo non è il caso del nostro governo dell’ammucchiata); in politica c’è chi guarda vicino e chi si arrischia a trascurare il presente per anticipare il futuro: sta agli elettori scegliere fra la tattica e la strategia perché è su di loro che pesano le conseguenze dalla scelta. Di sicuro non spetta alla politica decidere sui sistemi valoriali, cianciare in astratto di libertà o di democrazia e men che meno trastullarsi con le categorie surreali di fascismo e antifascismo.  

p.s

La richiesta di professione di fede non si limita all’antifascismo. Non si è legittimati a parlare della vicenda ucraina se non dopo la formula rituale: “la Russia (Putin) ha aggredito proditoriamente e senza motivo uno Stato sovrano”. E chi, magari per mestiere, conosce bene la storia, la geografia, il modo in cui la russissima Crimea era entrata nella “Repubblica ucraina sovietica socialista”, la composizione etnica, religiosa e linguistica di quella repubblica (nella quale, se non ricordo male, viveva qualche milione di ebrei: che fine hanno fatto?), la difficile convivenza fra piccoli russi e grandi russi e, infine, la martellante politica di pulizia etnica nel Donbass condotta subito dopo l’implosione dell’Urss dalle milizie neonaziste  e ricorda, anche perché leggeva i giornali, gli inascoltati appelli alla comunità internazionale e all’Ue per la sua cessazione è un “putiniano”. Viva l’ignoranza, sostegno della fede, ieri come oggi!

Pierfranco Lisorini

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