PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE

PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE

PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE

   Nel significato del verbo comunicare e del sostantivo da esso derivato comunicazione è implicita l’azione di “mettere qualcosa in comune”, quindi di “condividere qualcosa con qualcuno”. Di qui la ovvia deduzione che ogni atto comunicativo implica una comunità, o, più in generale, una società entro la quale avviene questo processo mediante il quale un’informazione viene trasmessa da un sistema ricetrasmittente all’altro. E’ superfluo ricordare quanto ogni società viva e si sviluppi tramite il flusso costante delle informazioni che l’attraversa e degli innumerevoli atti comunicativi che avvengono al suo interno; oggi poi che assistiamo e, se non vogliamo vivere – relazionalmente, culturalmente e politicamente parlando – nella prima metà del secolo scorso, partecipiamo (con maggiore o minore entusiasmo) alla informatizzazione e virtualizzazione crescente del comunicare interumano, appare evidente come gli strumenti stessi che adoperiamo da un lato facilitano ma dall’altro complicano sempre più le modalità, gli effetti, la trasmissione e la ricezione dei messaggi d’ogni genere che viaggiano nell’etere e nel web, su Facebook, su Twitter e sui blog moltiplicando i rumori, gli equivoci e i disturbi  della comunicazione stessa.


Gli strumenti che oggi abbiamo a disposizione per comunicare sono quindi sempre più potenti e sofisticati, ma se ci domandiamo quanti dei nostri atti comunicativi e linguistici siano veramente efficaci e riusciti, cioè quanti raggiungano  veramente l’altro (gli altri) e, viceversa, quanti atti comunicativi e linguistici dell’altro (degli altri) ci raggiungano veramente, ecco che il processo del comunicare si rivela tutt’altro che scontato e immediato, e, dal momento che non si comunica mai niente nel vuoto ma sempre tramite dei mezzi (in lat. media, pl. di medium ) ecco perché il sociologo canadese Herbert McLuhan, studiando i mezzi di comunicazione di massa è arrivato alla conclusione riassumibile nel celebre assioma “il mezzo è il messaggio”. Ammettiamo  pure che identificare tout court il messaggio con il mezzo attraverso il quale “viaggia” (anche se con la velocità di un lampo) dall’emittante al ricevente sia una semplificazione, una specie di corto circuito espressivo per porre l’accento sugli strumenti del comunicare anziché sul messaggio veicolato, ma è evidente che il mezzo incide, se non sul  contenuto, in una certa misura sulla forma del messaggio stesso; si pensi solo al passaggio dall’oralità alla scrittura, e poi dalla scrittura manuale alla stampa, e poi dall’analogico al digitale, dalla macchina da scrivere al computer e agli sms; nel campo visivo, dalle figure dipinte a quelle fotografate e, da queste, al cinematografo e in seguito alla televisione e ora alle immagini che viaggiano su Internet e in streaming…Non c’è dubbio che i mezzi tecnici fanno anch’essi parte del processo comunicativo: “La tecnologia della macchina era frammentaria, accentratrice e superficiale nel modellare i rapporti tra gli uomini. La tecnologia dell’automazione è invece integrale e decentratrice.


Herbert McLuhan

In tutti i media si scopre che il contenuto di un medium è sempre un altro medium (la parola scritta è il contenuto della stampa, la stampa quello del telegrafo e così via) e che il messaggio del medium è nel mutamento delle proporzioni, dei ritmi e degli schemi che introduce nei rapporti umani (es. la ferrovia non ha introdotto né il trasporto né la ruota, ma ha accelerato e allargato funzioni umane già esistenti)” (Gli strumenti del comunicare, 1964). L’intensità e la frequenza degli scambi comunicativi anche a grande distanza, rese possibili da invenzioni tecnologiche come il telegrafo e il telefono, modifica la percezione dello spazio e del tempo da parte dei soggetti comunicanti e quindi anche la percezione del mondo in cui avvengono questi scambi; tra gli strumenti di comunicazione di massa considarati da McLuhan, oltre ai mezzi di trasporto sempre più veloci, al denaro, all’abbigliamento (e si potrebbero aggiungere certi cibi e bevande ormai globali come la pizza e la Coca Cola) c’è anche l’elettricità: “Se a prima vista la luce elettrica appare priva di contenuto, la sua natura di medium appare quando ci si accorge che essa rende possibile azioni (notturne, elettromeccaniche, ecc.) che altrimenti non potrebbero sussistere. Queste azioni sono il suo ‘contenuto’ e anche, in un certo senso, di fatto, un altro medium”. Ad esempio, se mi si bruciasse la lampadina che mi permette di leggere di sera, tutti i significati, i concetti e le sensazioni che, poniamo, mi trasmette il Canto V dell’Inferno  rimarrebbero lettera morta (almeno per quella sera); anche la scrittura, infatti, è un mezzo per comunicare, ma al buio non può comunicare nulla (salvo che con l’alfabeto Braille), e se la batteria del mio cellulare è scarica non potrò né inviare né ricevere messaggi, idem per la stesura di questo articolo sul video del mio computer, né, senza elettricità,  potrei accendere la radio o la televisione o il motore della mia auto, e così via.


Altra questione è quella della neutralità o non neutralità dei media: “E’ un’ipocrisia credere che un medium è sempre neutrale, cattivo solo se ‘usato male’. Le pallottole sono buone se colpiscono le persone giuste? E la televisione?”.

E qui si apre una di quelle questioni che sembrano fatte apposta per alimentare discussioni ricorrenti e infinite sull’uso corretto o scorretto dei media, discussioni e dibattiti che, naturalmente, trovano eco e ospitalità sui media medesimi, un tempo confinati per lo più nello spazio riservato alla “posta” o alla “voce” dei lettori che sovente lamenta(vano) il risalto dato alle cattive piuttosto che alle buone notizie, e denunciavano gli scandali, veri o presunti, rappresentati da film, spettacoli teatrali o libri in odore di oscenità o di vilipendio della religione o di incitamento alla violenza per la loro eccessiva “crudezza”, ecc. Ricordo le denunce contro capolavori come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti o Accattone,  La ricotta e il Salò-Sade di Pier Paolo Pasolini, o di commedie come L’Arialda di Giovanni Testori o, più recentemente, gli anatemi contro l’opera teatrale Sul concetto del volto di Cristo, del regista “postmoderno” Romeo Castellucci, con tanto di mobilitazione di giovani sanfedisti decisi a impedire lo svolgimento di quello  spettacolo giudicato blasfemo.


Oggi il problema della censura si ripropone in merito all’uso indiscriminato dei social network, in cui chiunque può “postare” tanto messaggi d’amore quanto insulti, oscenità e minacce anonime, come nei casi ben noti degli insulti a Caterina Simonsen (in solidarietà della quale si è formato il gruppo “Io sto con Caterina”, e contro la quale, invece,  altri si sono sentiti in dovere di formare il gruppo fb “Io non sto con Caterina”, onde fosse ben chiara  la loro presa di distanza dalla sventurata studentessa di veterinaria e, allo stesso tempo,  la loro solidarietà umana nei confronti degli animali usati nei laboratori di ricerca biomedica), o alla Presidente della Camera da parte di anonimi frequentatori del blog di Beppe Grillo, o a ragazzine e ragazzini presi di mira  da coetanei e coetanee per il solo fatto di aver confidato “alla rete” le loro angosce adolescenziali, nella speranza di ricevere aiuto. Altro che aiuto! Vittime del così detto cyberbullismo, Hannah Smith si è impiccata in Inghilterra, la quattordicenne padovana Nadia si è buttata dall’attico dell’ex Hotel Palace di Borgo Vicenza, e non sono le prime e non saranno, purtroppo, nemmeno le ultime “vittime della rete”. Certo che la quantità industriale di hate speech che viaggia sui social network, oltre a farci riflettere sul perché covi tanto odio nella psiche di tanti giovani e meno giovani utenti di questi nuovi mezzi di comunicazione di massa, ci pone serie domande sull’urgenza e sulla necessità di limitarne e controllarne l’uso, data la loro pericolosità sociale: “L’analisi dei ‘contenuti’ non spiega la carica subliminale dei media. Accettando la loro influenza essi diventano prigioni senza muri”. Quando McLuhan scriveva queste parole, i mass media erano soprattutto la radio, il cinema, i giornali, il telefono e la televisione; che cosa direbbe oggi dei social network a diffusione planetaria? Più che strumenti per comunicare sembrano strumenti inventati per dividere e separare gli individui, che si illudono di condividere idee, opinioni, sentimenti, rimanendo però per la maggior parte estranei uno all’altro o all’altra; e tanto più estranei e lontani quanto più alto è il numero degli “amici” su Facebook o dei “seguaci” (followers) su Twitter.

Di qui si constata come il moltiplicarsi e il potenziarsi del mezzi di comunicazione non portano di per sé  a un miglioramento né della qualità né dell’efficacia del nostro comunicare; una comunicazione, infatti, è tanto più efficace quanto più è basata sulla volontà di farsi capire dagli altri e di capire gli altri, e non si possono certo capire gli altri rimanendo prigionieri del nostro punto di vista e delle nostre credenze (e meno che mai delle nostre ossessioni). Per questo sono così rare le comunicazioni veramente efficaci e si sprecano, invece, i dialoghi tra sordi.

FULVIO SGUERSO

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