POESIA E LUCE. MIRO’ A GENOVA

POESIA E LUCE
MIRO’ A GENOVA

 POESIA E LUCE. MIRO’ A GENOVA

E’ tuttora aperta, e lo rimarrà fino al 7 di aprile – dopo il successo dell’esposizione romana nel prestigioso spazio  rinascimentale del Chiostro del Bramante –  presso l’Appartamento del Doge, al Palazzo Ducale di Genova, la bella e importante mostra Mirò. Poesia e luce dedicata all’ultimo, felice, libero, arioso e  (stilisticamente) anarchico  periodo della vita artistica di Joan Mirò.

La curatrice, Maria Luisa Lax Cacho, ha scelto come titolo le parole stesse del maestro catalano: “Palma di Maiorca è per me poesia e luce”; et pour cause, dal momento che le opere esposte sono state pensate e realizzate nel corso dei trent’anni in cui Mirò ha potuto lavorare con relativa tranquillità nel luminoso atelier progettatogli dall’amico architetto José Luis Sert,  come dépendance a ridosso della sua casa immersa nel verde, in quell’amata isola mediterranea dove abitò e morì novantenne, nel  1983. Il riferimento a Palma di Maiorca non è un mero dato biografico, non si tratta semplicemente di una cornice, di un luogo caro all’artista come potrebbe essere il paese natio a cui si torna per ritrovare serenità e pace interiore, Palma di Maiorca è stata, per Mirò, la fonte primaria d’ispirazione delle sue  ultime opere: pitture,  sculture dipinte, ceramiche e maschere, arazzi e tappeti, intrise tutte della   particolare luce di quella terra, di quel cielo e di quel mare.  Là sono nate  quelle sue composizioni “astratte” – ma anche molto concrete – in cui troviamo materiali diversi riciclati (ritagli di giornale, pezzi di cartone, compensato, reticelle, corde, tessuti…) ma soprattutto  i segni, le tracce e le impronte lasciate dalla sua arte antigraziosa, in continua rivolta contro tutte le accademie: arriverà a spalmare i colori a olio con le mani, talora addirittura con i piedi, camminando sulla tela posata sul pavimento dell’atelier, perché l’opera fosse espressione di tutto il suo essere…Per la “purificazione dell’opera” (e tramite l’opera) a cui tendeva nei suoi ultimi anni era importante la ritualità e la concentrazione con cui preparava la stesura dei suoi pittogrammi sulla superficie della tela o del foglio; questa modalità del poiein che si riassume e quasi esplode in un gesto a lungo meditato, tanto da far corrispondere il segno tracciato al  segno pensato, anzi, vissuto  come emanazione di qualcosa proveniente da un suo abisso interno,  profondo e ancora inesplorato, da cui scaturivano quei suoi Uccelli, quelle sue Poesie dipintei, quelle sue Donne  o Llibellule fluttuanti in uno spazio siderale (o in un liquido amniotico) richiama, da un lato, le tecniche surrealiste del disegno e della pittura automatica (appresa a Parigi dal suo amico André Masson), e da un altro lato le tecniche e gli esercizi  stranianti del buddismo Zen applicato alla pittura di paesaggio e alla calligrafia.

 I tanti quadri Senza titolo esposti nell’Appartamento del Doge stanno lì a testimoniare la volontà di andare aldilà dello spazio bidimensionale per mezzo di linee ora rette ora curve, di macchie  sfrangiate o tonde, nere, bianche o violette, di fili che si intersecano o che salgono in un cielo rosso cinabro o blu cobalto, di colature e gocciolature, impronte di mani, segni e figure enigmatiche che la limitata superficie  del quadro non riesce a contenere del tutto, in quanto tendono  a espandersi verso uno spazio esterno ed interno, prossimo e  astrale a un tempo. Per Mirò, l’immagine che fa emergere dal fondo della sua tela non è tanto una proiezione di sé quanto “un prolungamento dell’essere profondo dell’artista: un venire a galla per respirare una boccata d’aria, brillare un istante nel sole” (Argan). Solo un istante per poi sparire e tornare nel buio da dove è venuta? Sembrerebbe di no, se il pittore ha posto tanta cura nel disegnare, nella sua giovinezza, per esempio i tralci delle viti e le foglioline degli ulivi, e i muri e i tetti delle case di Montroig, il suo amato borgo natio, con la precisione di un fiammingo autore di miniature, e, in seguito, le forme bilanciate (come in una scultura mobile di Calder) tra organiche e meccaniche di Maternità, o il Ritratto di una danzatrice , cioè di una piuma sospesa per l’aria!  Certo è che Mirò era un attento osservatore dei fenomeni naturali, dei grandiosi come dei minimi, come ha spiegato egli stesso: “Non appena mi metto a dipingere un paesaggio, mi accorgo di cominciare ad amarlo di quell’amore figlio della comprensione graduale. Comprensione graduale della grande ricchezza di nuances – una ricchezza concentrata che ci viene regalata dal sole. Una fortuna aspettare fuori, nella campagna, di comprendere un minuscolo filo d’erba – perché disprezzarlo, questo filo d’erba che è tanto bello quanto l’albero o la montagna? Fatta eccezione per gli uomini primitivi o per i giapponesi, nessuno si è mai profondamente interessato di questa cosa divina. Si cercano e si dipingono solo alberi o monti, senza prestare orecchio alla musica che sgorga dai fiori più piccoli, dai fili d’erba e dai sassolini che si trovano sul ciglio della strada”. Bella l’idea della ricchezza regalataci dalla luce del sole, e anche quella della musica dei fiori! Chi ascolta più la musica dei fiori di campo, dei fili d’erba e dei sassolini ai margini della viottola? Ci vuole un udito ben fine e una sensibilità capace di percepire il respiro del cosmo, così nel giro delle stelle come nel ronzio effimero di un insetto nel prato…

 

 

Fulvio Sguerso

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