PER RIAVERE IL PARADISO

A cominciare da un certo punto della preistoria fino ad oggi, l’Homo sapiens sapiens si è perpetuato nella speranza che il suo persistere nei secoli fosse un andare avanti, un progredire, un superare le innumeri difficoltà di cui è disseminato il suo cammino.

Il fatto che non sempre sia stato così, non lo ha fermato. Egli è infatti riuscito a razionalizzare, in senso freudiano, i suoi fallimenti; e per farlo è ricorso al sacro.

Anche da lì la nostra intenzione di trovare aiuto nel testo biblico. In particolare ci potrà aiutare l’idea di protopeccato (facciamo al riguardo notare che nella Bibbia quello di Adamo ed Eva non viene mai nominato come “peccato originale”; è Agostino d’Ippona, sulla scia di Paolo di Tarso, che lo chiamerà così).

Esso è l’idea messa in atto dall’uomo in relazione alle sconfitte e agli arresti del progresso, che sarebbero conseguenza della punizione di Dio per aver fatto quanto era proibito fare.

Si tratta di un’idea sottile e infida. Di un’idea astuta come è astuto il serpente della Genesi (la cui identificazione col diavolo è tarda e non da tutti condivisa, essendo egli più plausibilmente l’allegoria del dio della fecondità cananeo Baal), perché suggerisce che, comunque e ormai, il peccato è stato commesso, ed ha la caratteristica della macchia perpetua: inutile cercare di liberarsene.

Continuare nel peccato del perseguimento dell’onnipotenza e dell’immortalità appare a questo punto una sorta di conseguenza logica.

Non si tratta di idea casuale, perciò. Essa infatti suggerisce a chi la sappia decodificare, che l’uomo ha identificato il male nella sfida che ha mosso a Dio.

In altre parole, seguendo uno sviluppo consueto al ragionamento della nostra civiltà ebraico-cristiana, dovremmo dire che se c’è il dolore, c’è il peccato; e se c’è il peccato, c’è il male.

Se si analizza la connessione tra questi tre elementi, si vedrà che il dolore, intanto, non ha bisogno di dimostrazioni: esiste certissimamente. Piuttosto dovremmo chiederci perché esiste. La risposta a suo tempo data dalla Genesi, è stata che l’esistenza del dolore è la diretta conseguenza del peccato, ovvero del cedimento al male. Ma non conseguenza di un peccato qualsiasi, bensì di un peccato speciale: il protopeccato.

Ora vogliamo specificare che di peccato si può parlare perché l’ambito di cui in questo momento si tratta ha a che vedere col sacro (altrimenti potremmo continuare a chiamarlo colpa), e che il protopeccato, sebbene non nel senso del traducianesimo, si tramanda di padre in figlio, per cui l’uomo nasce nel peccato; egli è peccatore in quanto uomo.

In questo contesto, più che di tutte le donne Eva risulta essere la tipizzazione di tutte le madri, e Adamo più che di tutti gli uomini la tipizzazione di tutti i padri.

Inoltre il peccato dell’una e dell’altro viene a consistere nel desiderio di mutare la propria situazione esistenziale attraverso la creazione di strumenti (scienza) e attraverso la creazione di sostituti (procreazione).

Esso è il segno della volontà di raggiungere, attraverso lo snodarsi delle varie generazioni lungo la storia e l’accumulo delle nozioni scientifiche e delle acquisizioni tecniche relative ad ognuna di esse, l’immortalità e l’onnipotenza.

Relativamente all’immortalità, ovviamente non si tratterà più di quella che Adamo ed Eva possedevano prima di commettere il protopeccato (come si vede utilizziamo la tecnica di “entrare” nel mito, per partecipare dall’interno al “gioco” che esso propone, ragionando come se fosse una realtà), consistente nel vivere “qui ed ora” senza sapere della morte futura. Non si tratterà cioè di essere eterni allo stesso modo di come lo sono tutti gli altri animali. L’immortalità che ora l’uomo tenta, è quella propriamente intesa, quella che lo fa Dio.

Dato che finora su tematiche come quelle della genitorialità e dell’istinto all’onnipotenza, o certe domande non sono state poste, o, quando sono state poste, a tali domande si sono date risposte prive (fino a prova contraria) di dimostratività, pur sottolineando che il presente discorso non ha, ed è persino scontato dirlo, alcuna pretesa di assertività e che di conseguenza l’uso dell’indicativo anziché del condizionale è puramente funzionale ad una scrittura più diretta, è opportuno aggiungere come esso sia di natura esclusivamente logica. Non che i sentimenti e le emozioni non siano importanti, tutt’altro. Ma non è questa la sede per tenerne conto.

Orbene, vi è un’incongruenza da rimarcare nel modo in cui si intende il mito di Adamo ed Eva, in quanto essi dopo essere stati indicati come “progenitori”, vengono legati di fatto al ruolo,  rispettivamente, di primo uomo e di prima donna. Perché? Perché si utilizza una parola e poi nel parafrasare il racconto della caduta, se ne elude il significato? Il fatto, sia esso casuale o voluto, è comunque alquanto interessante.

Dopo questo scarto, il traviamento del reale senso del racconto mitico della Genesi relativo alla colpa primigenia, si avvia a percorrere i secoli indisturbato.

Certamente non fondiamo le nostre considerazioni solo su una notazione di tipo linguistico, tuttavia crediamo che essa abbia una sua valenza, utile se non altro per indurci a chiarire subito che leggeremo la vicenda di Adamo ed Eva non come la vicenda del primo uomo e della prima donna (e comunque il non farlo non significa che essi non possano anche, ma non prioritariamente e univocamente, essere letti così), ma come la vicenda del primo padre e della prima madre che hanno voluto essere tali.

E’ la Bibbia stessa che avvalora lo nostra interpretazione. In Genesi 3,20 si legge:

<< L’uomo quindi diede alla sua donna il nome di Eva, perché madre di tutti i viventi >>.

Adamo ed Eva hanno appena commesso il loro peccato. Se ne vergognano e si scoprono nudi.

Pare esserci una relazione vissuta come negativa tra il protopeccato (ovvero il primo in ordine di tempo e di importanza) e il sesso, e tra essi e l’albero proibito nel giardino di Eden.


La vergogna di Adamo ed Eva dopo aver commesso il protopeccato, non corrisponde però al vero pentimento. La loro prostrazione è esclusivamente data dalla paura per essersi scoperti così fragili ed esigui, e dalla punizione che potrà abbattersi su di loro.

E’ questo un importante fatto da tenere presente perché è una costante nella storia dell’uomo la paura di sfidare Dio, e tuttavia come la sua pervicacia non venga meno; cosa che invece accadrebbe se si trattasse di vera contrizione. I progenitori si sentono nudi perché, letteralmente, si sentono scoperti. E’ Dio che li denuda. Tremano dinnanzi a lui. Ma il loro non è un pentimento vero, che li allontani per sempre dal desiderio di ritentare, dal desiderio di un’altra volta cogliere il frutto.

Ciò è comprovato anche dal fatto che Dio mette i cherubini e la fiamma della spada guizzante a guardia dell’Eden per impedire all’uomo l’accesso all’albero della vita (che noi colleghiamo concettualmente alla procreazione), l’altro albero che è situato nel Paradiso Terrestre, ma che si potrebbe intendere come il medesimo albero nominato in modi diversi per sottolineare funzioni diverse.

Evidentemente Dio (anche per Dio utilizziamo la tecnica di fingere l’esistenza di una entità che in realtà non c’è, ma che, se pensata come persona, ci facilita l’espressione dei concetti) sapeva che Adamo ed Eva non avrebbero perso l’occasione per disubbidire di nuovo se ne avessero avuto l’opportunità.

A causa della sua disubbidienza rispetto il modo con il quale il Signore gli aveva comandato di comportarsi verso “l’albero della conoscenza del bene e del male”, l’uomo ha perduto la sua beata ignoranza animalesca del “qui ed ora”, e ha scoperto il Tempo, e perciò il futuro e la morte. Il bene era vivere nell’ignoranza della morte. Il male la conoscenza che la morte è un fatto che ormai gli compete personalmente.

In questa ottica è, appunto, quantomeno probabile che “l’albero della conoscenza del bene e del male” e “l’albero della vita” si identifichino, poiché la conoscenza in senso alto è fondamentalmente la conoscenza della morte (e della vita in quanto fatto intimamente connesso alla morte).

Nel momento stesso in cui scopre la morte, l’uomo desidera, lui che ne viene scacciato, di ritornare nel Paradiso Terrestre e di cibarsi dell’albero della vita.

Tenta di farlo con gli unici due strumenti di cui dispone: la capacità di ideare e fabbricare (la scienza), e la capacità di generare (la procreazione).

La conoscenza, dunque, automaticamente ed immediatamente e di riflesso, suscita come antidoto la scienza e il desiderio di procreare.

L’autore biblico per parlarci del protopeccato si serve di una metafora: un serpente spinge la donna a mangiare il frutto dell’albero proibito da Dio, l’albero che dà la conoscenza del bene e del male.

La donna ne mangia e a sua volta offre il frutto all’uomo.

Entrambi vengono poi scacciati dall’Eden per questa loro disubbidienza.

Da quel momento in avanti la loro vita sarà segnata dalla sofferenza: la donna partorirà i suoi figli con dolore, l’uomo faticherà per trarre il cibo dal suolo, ed entrambi moriranno. In Genesi 2,17, infatti: << ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangerai, perché il giorno in cui ne mangiassi, di certo moriresti >>.

A una prima lettura la minaccia divina: << perché il giorno in cui ne mangiassi di certo moriresti >> sembrerebbe contraddire il fatto che Adamo ed Eva poi continueranno a vivere. Ma ad una lettura più attenta e meditata, si può comprendere che quel “moriresti” ha una sua indubbia legittimità. Vediamo infatti che l’uomo e la donna nel Paradiso terrestre sono immortali. Poi, col protopeccato, perdono l’immortalità, nel senso: perdono il bene dell’ignoranza della morte e acquistano il male della conoscenza di essa.

Essi, fuor di metafora, sono quella coppia la quale per prima ha commesso il protopeccato, avendo preso coscienza che la morte l’avrebbe riguardata personalmente, e comincia a pensare di vincerla attraverso la scienza, che è in grado di prolungare e migliorare la sua vita, e la procreazione, che è in grado di continuarla nella vita dei discendenti. Scoprendo la morte questa coppia perde l’Eden, e fuori da esso Adamo “si unisce”, per usare il termine della Genesi, ad Eva, la quale concepisce e partorisce Caino. Insieme attuano così il loro empio progetto.

“Unisce” designa anche un’unità di intenti.  Presumibilmente altri uomini e donne si erano uniti prima di loro, ma è solo quando per la prima volta una coppia cerca di avere un figlio con l’intento, non importa quanto esplicito, di assicurarsi la continuità (ci serviamo di questo eufemismo che sostituisce il più corretto termine immortalità, perché vogliamo sottolineare come la percezione della sfida al divino nel lessico usuale venga il più possibile smorzata), che si può parlare di Adamo ed Eva. Essi cercano così di rientrare nell’Eden. Quell’Eden che ovviamente non si tratta di intendere come luogo fisico, ma come condizione. E’ significativo che solo fuori da esso, Adamo ed Eva desiderino avere prole.

In un qualche imprecisato momento del Pleistocene gli ominidi umani acquisiscono la capacità di confrontarsi, come mostrano le scoperte di paletnologia, col problema della morte. E infatti solo dopo avere realizzato che la morte lo riguarda individualmente e che verrà un momento in cui dovrà morire, l’uomo reinterpreta, anzi, forse per la prima volta interpreta, il dolore, la paura, la fatica della sopravvivenza, e li rivive in una nuova più angosciosa dimensione, che si espande oltre il suo fin’allora cieco presente. L’uomo, nella sua filogenesi, giunge alla fase del sacro. Crea il mito di un Dio che lo punisce per la sua disubbidienza e che così facendo lo gratifica di un senso da dare ad un dolore altrimenti immotivato e di conseguenza insopportabile.

Si chiude il cerchio: l’uomo costruisce il senso di ciò che gli càpita, partendo dalle conseguenze ed arrivando alle premesse, che lui vuole vedere come causa: il dolore, quindi il male, quindi, come primo anello della catena, il peccato.

L’uomo, nella sua stessa conoscenza che attenta a Dio, trova la punizione, cioè l’esplicitazione della sua finitudine, del suo limite, della inevitabile conclusione di sé come individuo singolo. E scopre di essere solo, impaurito, debole.

Egli solamente così, cioè essendo consapevole della morte, può comprendere l’ammonimento di Dio secondo cui: <<…dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangerai, perché il giorno in cui ne mangiassi, di certo moriresti >> (Genesi 2,17).

Fino a che punto ha un senso tale minaccia? Se non si trattasse di un mito, nessun senso; ma trattandosi di un mito, il senso è acquisito dal fatto che i miti altro non sono che la constatazione della realtà, e la spiegazione che ogni realtà ha la sua ragione di essere tale e quale è, ed immutabilmente per essere più vera.

Adamo ed Eva mangiando il frutto, si appropriano della conoscenza (e come appropriarsi più completamente della conoscenza che incorporandola?), ma lungi dal riuscire a trarne vantaggio, danno inizio alla loro tragedia.

<< Tu puoi mangiare di ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangerai, perché il giorno in cui ne mangiassi, di certo moriresti >> (Genesi 2, 16-17), è un decreto che dice di un effetto immediato, non nel senso che il primo morso di Eva ed Adamo corrisponda all’ultimo battito del loro cuore, ma nel senso che la morte attraverso la conoscenza viene da subito elaborata, per cui ogni giorno viene vissuto mentre lo si perde, fino a che a forza di vivere, si giunge a morire.

L’evento della morte, dunque, come risultato di un avvento che si è protratto per tutto il tempo della vita; e che per paradosso compie entrambe.

FULVIO BALDOINO

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