Per costrizione e per desiderio

L’autore sacro, il cui fine preponderante è in modo più o meno esplicito spronare al raggiungimento e poi al consolidamento della nazione ebraica, procede con estrema perizia politica. In Genesi 3, 23 scrive: << E il Signore Iddio cacciò l’uomo dal giardino di Eden, affinché coltivasse la terra dalla quale era stato tratto >>. E in Genesi 3, 16: << Disse poi alla donna: “Moltiplicherò i tuoi travagli e le doglie delle tue gravidanze, nella sofferenza partorirai figliuoli” >>.
Perché con estrema perizia politica? Perché la punizione cui Adamo ed Eva vanno incontro dopo la disubbidienza sembrerebbe un deterrente alla pretesa dell’uomo di diventare Dio. In realtà è un sottile stratagemma che serve ad impedire la comprensione chiara di ciò che la punizione stessa significa: l’avallo rovesciato del desiderio.

Potremo “tradurre” così: “Ti comando di fare per costrizione quanto tu altrimenti avresti comunque fatto di tua volontà, cosicché tu non possa pensare che ogni conquista ti appartiene, perché devi credere che appartiene a chi ti ha ordinato di fare (conquistare)”.
Ogni pena solleva dalla colpa. Quanto devono essere stati grati all’autore biblico gli ebrei per questa pena di cui egli si è fatto portavoce! (e quanto lo è la nostra civiltà ebraico-cristiana moderna!). Con quale senso di liberazione devono averla accolta! Con quale gioioso rammarico!!…
Presso gli ebrei non ci sarebbero stati sacrifici umani al Dio, come accadeva in Assiria, in Fenicia, a Babilonia…Non c’era bisogno di placare l’ira di chi si sente attaccato nel suo potere, scalzato dal suo trono; non ci sarebbe stato bisogno di confermare la propria sottomissione attraverso un atto che per costare carissimo dava garanzie più certe.
Presso gli ebrei è Dio stesso che per punizione ordina all’uomo di lavorare, dissodare, costruire, dominare su tutti gli altri animali, assoggettarli e servirsene. E moltiplicarsi. Soprattutto moltiplicarsi.
Facendosi schiavo di Dio, l’uomo si libera di Dio. Non ci sono più limiti, ora, ai suoi traguardi di uomo: ha l’ordine di continuare nella disobbedienza, e quest’ordine è il castigo per aver disobbedito!
Adesso gli ebrei (e poi, sulla scia del varco aperto dal loro monoteismo personalistico, l’uomo in generale) possono finalmente attentare a Dio, cercare la scalata fino a lui, abilitati a non accorgersi di essere suoi concorrenti. Così tenteranno di arrivare al seggio di Dio, e scopriranno che è un trono vuoto. Un trono che da sempre attende un Dio che si fa, che nella storia progredisce, e che da ultimo (continuiamo virtualmente ad avvalorare tale ipotesi) si indìa completamente.

Il potere teocratico elaborato dall’autore sacro ha bisogno che il divino venga rappresentato come assoluto, e di conseguenza sia inteso come trascendente, presente in atto (Dio vivente), irraggiungibile, Altro. Ciò affinché l’uomo continui a credere in un Dio, appunto, altro da sé. Separato, non visibile. E continui anche ad indiarsi o a tentare di farlo, progredendo per quanto gli è possibile in quella data generazione, e lasciando il compito di continuare l’opera alla generazione successiva. E anche se di ordinario egli non si chiede fin dove vuole arrivare, tuttavia è ovvio che vuole arrivare sempre più in là, e che non si accontenterà mai di essere arrivato ad un punto che non sia quello conclusivo. E il punto conclusivo è inevitabilmente il punto massimo: essere Dio.
Non dimentichiamoci di come recita Genesi 11, 9: << Ora dunque non sarà precluso ad essi quanto è venuto loro in mente di fare >>. Ed è questione veramente mitica perché propria di tutti i tempi, anche del nostro tempo presente, che specialmente con la genetica e la cibernetica comincia a dire sempre meno timidamente che vuole far assurgere l’uomo alla divinità.
Normalmente, però, l’uomo non palesa a se stesso tale situazione. Essa è tabù.
Si è detto che egli non si chiede fin dove vuole arrivare, nonostante sia chiaro che non vuole fermarsi. Ma il tabù è così grande e così forte e così potente, che chiederselo, vale a dire procedere secondo normalità, appare anormale. E’ la assoluta sconvenienza della risposta che si sarebbe costretti a dare, che allunga la sua ombra sulla domanda e ne impedisce la formulazione e la presa di coscienza.
Una sconvenienza determinata in larga parte dalla censura attuata dall’autore sacro, il quale ribadisce senz’altro, sulla scia di Abramo, la trascendenza di Dio; e ordina chiaramente all’uomo (certo, nel suo caso, all’uomo ebreo) di limitarsi ad essere uomo, e ciò proprio attraverso la metafora del frutto e del serpente.

Ebbene, riconsiderando questa metafora, vedremo che il frutto rappresenta effettivamente qualcosa di connesso alla sessualità; ma non alla sessualità tout court, bensì alla sessualità come mezzo di riproduzione.
Viste le cose sotto questa luce, l’albero della conoscenza del bene e del male si trasforma ai nostri occhi e diviene l’altro albero che sta al centro del Paradiso Terrestre: l’albero della vita.
>Teniamo presente che la condizione necessaria per parlare di Adamo ed Eva, di uomo che raggiunge il livello della potenzialità alla colpa (livello che sostanzialmente si sovrappone a quello della razionalità), si dà se egli ha valicato il crinale filogenetico fra uomo inconsapevole e uomo consapevole della morte come evento che personalmente lo riguarda, e se ha valicato il crinale ontogenetico tra fanciullo e adolescente per l’acquisizione della medesima idea.
Ma perché vi sia condizione oltreché necessaria anche sufficiente, bisogna che l’uomo abbia raggiunto la conoscenza del legame che vi può essere tra coito e procreazione e che tale conoscenza sia messa al servizio di un procreare volontario.
Considerato dunque che la questione si presenta sotto vari aspetti, i quali si accumulano, si stratificano in continuazione e si compenetrano, non si può affrontare il prototipo Adamo senza un atteggiamento di pensiero osmotico, fluido, polivalente.
La convertibilità che attribuiamo ad Adamo, pertanto, non dipende da un nostro arbitrio messo in atto ogni volta che ci può tornare utile ad aggirare qualche punto ostico, ma dalla interna forza semantica del mito, che in quanto mito è fuori dello spazio e del tempo.
Esso segue una logica estranea a quella aristotelica secondo la quale ciò che è qui non può essere là, e ciò che è nel paleolitico non può essere nel Duemila.

Questo ci permette di affermare che quanto al riguardo abbiamo esposto, insiste, è vero, su punti e su percorsi differenti da quello, per esempio, dell’idea dell’uomo primitivo che si oppone alla natura, si costruisce ripari dagli agenti atmosferici, intreccia canestri per la raccolta dei frutti, modella armi rudimentali, abbatte alberi e ne prende legna per bruciarla e scaldarsi; o differenti da quello dell’idea dell’adolescente che a mano a mano che cresce si ribella al padre per avere una sua autonomia di vita e di pensiero, e paga lo scotto della sua ribellione con la fatica di costruirsi un’esistenza di cui è direttamente responsabile nel bene e nel male. Ma è altrettanto vero che queste idee non le vuole confutare.
Si è seguita una certa strada, però ciò non ci deve impedire di essere strabici quel tanto che basta per vedere che ne esistono altre, altrettanto agibili, le quali possono confluire nella nostra senza provocare contraddizioni, cioè senza invalidarla.
>Quando dunque Dio si “accorge” che Adamo ed Eva hanno mangiato il frutto dell’albero proibito e cioè che si sono avviati (con intenzione) a diventare come lui, affinché non si impossessino dell’immortalità vieta loro di mangiare i frutti dell’albero della vita.
Abbiamo visto in Genesi 2, 9 che gli alberi al centro del giardino di Eden sono due. Ma se uno è l’albero della conoscenza del bene e del male, l’altro, quello della vita, non sarà parallelamente l’albero della vita e della morte?
Ci induce a rispondere positivamente un versetto che si trova all’estremo opposto del Pentateuco. In Deuteronomio 30, 15 si legge: << Guarda, ho posto oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male >>.
Adamo ed Eva, se si accetta questa nostra ipotesi, quando scoprono la morte mangiando il frutto dell’albero della conoscenza, scoprono anche la vita. L’albero della vita, quindi, è come l’ombra di quell’altro.

Ci rendiamo conto che sarebbe scorretto e assai pedante voler interpretare alla lettera ogni frase delle pagine bibliche considerate. Ogni proposizione ne resterebbe ingessata prima di essere espressa. Tuttavia per mostrare che l’idea dell’albero-ombra è una soluzione plausibile, facciamo notare che di qualsiasi forma fosse il giardino, non poteva avere che un solo centro, e quindi al centro di esso non potevano esserci due alberi. Resta allora la soluzione di due alberi di cui l’uno è
l’ombra (o, se si preferisce, come l’ombra) dell’altro; e se certamente non si può affermare che l’ombra sia la stessa cosa dell’oggetto che la produce, neanche si può negare che essa gli sia indissolubilmente legata e che la sua identità e il suo destino non gli siano subordinati.
Oltretutto, da un punto di vista filosofico, il fatto che la vita e la morte siano l’istantaneo effetto del raggiunto livello razionale, si coniuga senza alcuna forzatura con quanto si è detto; e l’ombra potrebbe correttamente essere intesa come immagine più propria di profondo legame, di automatica implicazione.
Date queste considerazioni, possiamo anche addentrarci in quelli che ne sono i corollari esistenziali.
Ebbene, di una cosa, che vista la sua importanza estrema, è opportuno ribadire, possiamo essere pressoché certi: Adamo ed Eva di aver commesso il protopeccato non si sono mai pentiti. La loro disperazione è data da tutt’altro che dalla contrizione: è il sentirsi indifesi, è l’esperienza della paura per il castigo divino. Questo è ciò che li getta nella disperazione; non assolutamente un pentimento vero.
Se di pentimento vero si fosse trattato, Dio non avrebbe avuto bisogno di mettere a guardia dell’albero della vita i Cherubini e la fiamma della spada guizzante al fine di impedire che Adamo ed Eva tornassero e ne cogliessero i frutti.
Ciò si rende necessario perché il primo pensiero da loro avuto appena scoperta la morte, è stato di liberarsi di essa per diventare immortali. Questa volta però secondo una qualità diversa di immortalità da quella che si doveva intendere prima della Caduta: vogliono diventare immortali positivamente, per conquista personale, e non più nel senso derivato dalla mera ignoranza animalesca della morte.
Scacciati dal Paradiso Terrestre, e persa la loro immemore eternità, Adamo ed Eva hanno sùbito tentato di raggiungere l’immortalità generando.
Che generassero anche prima, è quantomai probabile. Caino, Abele e Set pertanto avranno anche avuto dei fratelli più anziani. Ma per la coppia primigenia sùbito dopo essere stata scacciata, entra in campo l’intenzione. E’ per questo che la Genesi fa rilevare soltanto la loro nascita: perché Adamo ed Eva dopo la loro cacciata dall’Eden vogliono procreare. Ed è nell’intenzionalità alla procreazione che, allora come ora, consiste il peccato. Con questo infatti si spiega perché il protopeccato sia ereditario: perché non sono soltanto il primo padre e la prima madre, ma tutta la loro discendenza, che attraverso la procreazione intenzionale (e/o la creazione conoscitiva, la scienza ) tentano (pur censurando il tentativo ai propri occhi), di conquistare l’immortalità

FULVIO BALDOINO
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