Non è semplice vandalismo e non sono casi isolati

Non è semplice vandalismo
e non sono casi isolati
Quando i compagni continuano a infangare l’esodo e i martiri delle foibe

Non è semplice vandalismo e non sono casi isolati

Quando i compagni continuano a infangare l’esodo e i martiri delle foibe

 Non c’è città, paese, borgo, contrada nel centro nord senza un sacrario, un monumento, una lapide che ricordi la lotta partigiana e i suoi caduti, giustamente eternati in quelle lapidi, in quei monumenti, in quei sacrari. Nella mia città, che la resistenza l’ha conosciuta a guerra abbondantemente finita, ce ne sono almeno cinque. Niente da eccepire: sottrarre gli eventi alla macina del tempo è sempre una buona cosa e le testimonianze del passato vanno lasciate stare. Sono come le madonnine nelle nicchie dei casolari di campagna: non offendono nessuno, se sei un devoto ti fai il segno della croce, se no tiri dritto. L’iconoclastia, da chiunque sia praticata, è una cosa rivoltante.


Immaginiamo per un momento che in una di quelle migliaia di sacrari, monumenti, lapidi compaia non dico una croce uncinata o un fascio littorio ma un semplice scarabocchio. Sarebbe l’apertura di tutti i telegiornali, l’occasione per allarmati editoriali delle penne più autorevoli e, ahimè, un ottimo pretesto per il sermoncino del Supremo Custode della Sacra Carta e dei valori della democrazia, dell’antifascismo, ecc., senza contare gli immancabili accorati dibattiti nei salotti televisivi. Una prova in più, inequivoca e decisiva, della demoniaca presenza dell’Uomo Nero, un altro segno dell’imminente risveglio del nemico mai morto.

Eppure, nonostante la marea nera che sta sommergendo il Paese, se non provvedono a farlo i compagni nessuna croce uncinata, nessun fascio littorio, nessuno scarabocchio imbratta la memoria dei partigiani caduti. Ci si deve accontentare di qualche braccio teso per onorare il camerata ammazzato dai compagni.


A Pomezia qualche anno fa fu eretta una lapide in occasione della tardiva istituzione della giornata del ricordo dei martiri delle foibe. Delle stragi compiute dai comunisti slavi in combutta con la brigata Garibaldi posso tranquillamente testimoniare che tutti sapevano ancor prima della fine della guerra. Tutti sapevano ma nessuno osava parlarne, nemmeno quando cominciarono ad arrivare gli esuli dalla Venezia Giulia, dall’Istria, dalla Dalmazia, spesso accolti da indegne gazzarre organizzate nelle sezioni del Pci e nelle sedi della Cgil. Quando divenne impossibile continuare a rimuovere si provò a confondere e minimizzare: sì, ci sono stati episodi isolati, crimini efferati ma compiuti da ambo le parti, nessuna pulizia etnica, ci mancherebbe, e i compagni cercarono di affidare a croati e sloveni la parola definitiva su quello che era successo fra il 1943 e gli anni seguiti alla fine della guerra. Poi qualcuno ha cominciato a parlare, ci si è decisi a scavare, a recarsi sui luoghi del massacro e un po’ alla volta con le povere vittime riesumate si è imposta quella verità, che, ripeto, era nota già nei mesi della cosiddetta liberazione. 


Roberto Fico

Fra reticenze, resistenze, distinguo nel 2004 si è finalmente imposto il riconoscimento ufficiale del martirio degli italiani delle terre strappate alla Patria con la complicità decisiva di Francia e Regno unito e si è istituita la giornata della memoria. Memoria delle vittime delle foibe e memoria della ferita inferta al Paese. Ho molto apprezzato le parole della presidente del senato e quelle di Roberto Fico, che in questa circostanza non ha concesso niente ai suoi sodali del Pd, i quali hanno dovuto ingoiare il rospo e per una volta si sono tenuti per sé le riserve, le giustificazioni e tutte le vergognose menzogne che la sinistra ha alimentato per sessanta lunghissimi anni. Ed ho, ovviamente, apprezzato le parole del Capo dello Stato, la sua insistenza sugli anni di colpevole silenzio e la condanna netta del negazionismo. Del quale la sinistra non solo non ha fatto ammenda ma ancora si fa veicolo sotto mentite spoglie, quando assimila i profughi istriani e dalmati, cacciati dalle loro case e privati dei loro beni, ai “nuovi profughi”, bengalesi e africani che arrivano illegalmente in Italia col miraggio dell’Eldorado. 


Ma è soprattutto nelle periferie che i compagni si lasciano trascinare nel solco del loro passato fino ad attaccare i simboli fisici della memoria, quei pochi che ci sono, un numero insignificante rispetto a quelli che impongono puntigliosamente i nomi dei caduti della “guerra di liberazione” e che, giustamente, nessuno, quali che siano le sue opinioni, si permette di oltraggiare. Ma per i compagni non è così e a Pomezia la lapide che ricorda il giorno della memoria è stata profanata con la scritta  FASCI e a mo’ di suggello la falce e martello. Un episodio tanto isolato che a Monfalcone si è ripetuto tale e quale, con l’Anpi che per l’occasione si unisce al coro di condanna, senza chiedersi attraverso quali canali passano l’odio, l’indottrinamento e la disinformazione che intossica i giovani “antifascisti”.


Un vulnus per la democrazia? Nemmeno per sogno e neanche una parola sulla stampa o sui telegiornali, fosse solo per dire che sono ragazzate (ma non lo sono per niente). Non ci sono indagini per identificare i responsabili, non c’è reato, è normale, va bene così, è l’immaginazione al potere, lasciamo che si esprima liberamente. 

La destra italiana ha cercato per mezzo secolo di mantenere vivo il ricordo della tragedia delle foibe e dell’esodo scontrandosi contro il muro di gomma della sinistra. Questo è un fatto. E se ora il 10 febbraio si celebra il giorno della memoria questo è il riconoscimento che la destra aveva ragione e la sinistra aveva torto e la destra ha quindi tutti i motivi per esserne orgogliosa. E questo è un fatto, un fatto incontrovertibile. Non è così per i compagni, come la compagna Serracchiani, che si indigna perché a destra si rivendica la battaglia tanto a lungo combattuta: che ci incastra?, dice la Serracchiani, la politica deve restarne fuori, guai strumentalizzare la tragedia. E quando Gasparri, che per inciso ricopre un ruolo istituzionale importante, prende la parola a Basovizza i compagni non trovano di meglio che andarsene. Troppo comodo cari compagni pretendere che la politica ne resti fuori; significa rimuovere non solo quello che avete fatto e detto fino a pochi anni fa ma quello che si continuate a dire e fare anche ora al di là delle posizioni ufficiali. 

Piero Montagnani

 I compagni non hanno mai fatto i conti col loro passato semplicemente perché la sostanza di quel passato rimane la sostanza del loro presente. L’unica differenza apprezzabile fra il Pci del 1946 e i democratici di oggi è che i primi erano più intelligenti e spesso anche più istruiti.  E, a proposito dei compagni del 1946, bene ha fatto Veneziani a mostrare urbi et orbi come l’Unità, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci, quello per il quale ci si straccia le vesti se deve definitivamente  essere dichiarato morto dopo anni di coma vegetativo, raccontava l’esodo dei nostri compatrioti dalle loro terre: «Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città, non sotto la spinta del nemico incalzante ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori». Chi scriveva queste infami sciocchezze il 30 novembre del 1946 non era uno sconosciuto cronistello ma un uomo di punta dl Pci, il farmacista Piero Montagnani, condannato come sovversivo dal sanguinario regime fascista al confino-villeggiatura nell’isola di Ponza poi medaglia d’argento della resistenza per aver liberato la Toscana dai tedeschi (io credevo di ricordare che l’avessero liberata gli angloamericani dopo aver sfondato la linea gotica ma forse mi sono confuso), e infine deputato comunista per due o tre legislature. Montagnani non era solo a scrivere idiozie sull’esodo: tutto il partito era compatto nel condannare gli esuli, fra i quali erano anche partigiani italiani che avevano combattuto contro i tedeschi, colpevoli di voler ostinatamente rimanere italiani e nel magnificare la ritrovata libertà nel paradiso comunista titino. Ma erano i tempi del rapporto fraterno fra i compagni italiani e gli assassini slavi e guai toccare il maresciallo Tito, allora fedele sodale di Stalin. Quel Tito che “il presidente più amato dagli italiani”, Sandro Pertini, insignì della più alta onorificenza della repubblica. 

Sulla rete, un autodefinitosi collettivo di  anonimi storici impegnati, come l’Anpi e il presidente emerito a combattere ogni forma di revisionismo, dopo aver bollato come bufala il virgolettato dell’articolo di Montagnani, che chiunque si prenda la briga di recarsi in una biblioteca può leggere (scripta manent; ora poi rimangono anche le voci), ne giustifica, condivide e difende il contenuto, lodando Montagnani che come vicesindaco di una Milano in piena crisi abitativa giustamente si preoccupava che i suoi concittadini non dovessero subire la concorrenza di nuovi poveri venuti da fuori. Quando la pezza è peggiore del buco.

    Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione  

 

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