Né Mes né Recovery fund né immigrati

Né Mes né Recovery fund né immigrati

Né Mes né Recovery fund né immigrati

 Non si è mai visto un singolo individuo ridotto in miseria o uno Stato con i conti dissestati che si siano risollevati con l’elemosina o con aiuti esterni. Il primo si adatterà a sopravvivere come un accattone, il secondo diventerà una colonia di chi lo ha aiutato e da cui continuerà a dipendere.  Il terzo mondo destinatario degli aiuti occidentali più soldi ha avuto più è sprofondato. La stessa sorte è toccata al nostro sud, con la questione meridionale che si trascina dai tempi di Giustino Fortunato. La cassa del mezzogiorno ha riversato fiumi di denaro in un pozzo senza fondo con l’unico risultato di togliere al sud le sue residue energie e ridurlo in una condizione strutturale di inferiorità, parassitismo, inerzia, alimentando clientele e mafie, scoraggiando il rischio d’impresa e lo spirito imprenditoriale. È quello che succede con lo sciagurato reddito di cittadinanza, che doveva essere un doveroso sussidio per quei cittadini italiani che i casi della vita hanno ridotto ai margini e un modo per accompagnare i giovani nel mondo del lavoro attraverso il raccordo fra domanda e offerta ed è invece diventato uno strumento perverso che incoraggia l’ozio e il lavoro nero spingendo verso uno stile di vita asociale se non addirittura criminale. 

 

Il denaro è il distillato del lavoro, è guadagno, profitto, riconoscimento sociale, non piove dall’alto ma emana dalla società civile. Il denaro è di per sé frutto di una convenzione sociale ma il suo valore è tutt’altro che convenzionale: è la reificazione della fatica, dell’impegno, del successo professionale e imprenditoriale, l’equo (o iniquo) corrispondente di un servizio prestato alla società. Il lavoro che non si traduce in denaro è lavoro servile, lavoro alienato, riduzione in schiavitù. Il denaro dà senso e nobilita il lavoro, gli dà, o lo priva, del giusto riconoscimento. Già l’aver sottratto al Paese la sovranità monetaria e avere imposto una moneta gestita e emessa da un’istituzione sovranazionale ha compromesso il circuito lavoro denaro lavoro, vale a dire l’economia reale, contrapponendogli la spirale del denaro virtuale, sottratto al lavoro e alla produzione, ridotto a speculazione, assolutizzato, astratto e impalpabile. Si parla molto di investimenti e della loro capacità di accendere il motore dell’economia, come se questo si fosse fermato per mancanza di benzina, cioè di liquidità. Ma l’economia langue per ben altri motivi: perché si affievolisce la corsa ai consumi, perché le attività produttive vengono trasferite in Paesi nei quali il costo della manodopera è basso, perché la testa e il portafoglio delle imprese si sposta in Paesi dove la pressione fiscale è inferiore  e soprattutto perché si crea un gap di conoscenze, di creatività, di capacità previsionale e organizzativa rispetto ai Paesi concorrenti. Illuminante è il caso dell’informatica, dell’industria automobilistica, degli elettrodomestici, delle apparecchiature televisive, della telefonia.


Insomma non si vive di elemosina o, meglio, di elemosina non si vive decorosamente. L’elemosina esalta chi la fa e umilia chi la riceve, checché ne dicesse il buon Alessandro Manzoni, e costringe ad un rapporto di gratitudine e di sottomissione. Nessuno dovrebbe essere messo nella condizione di dover chiedere l’elemosina, tantomeno lo Stato, che, se lo fa, rinuncia alla sua sovranità. Ma il Cicisbeo e il suo ministro dell’economia l’hanno fatto, e si vantano di averlo fatto:  non sono hanno svenduto la dignità del Paese,  non solo ne hanno compromesso il futuro ma hanno fatto gravare non su di sé ma sugli italiani tutti il peso di una riconoscenza che si traduce politicamente in una eterna fedeltà all’Europa – vale a dire ai burocrati di Bruxelles e alla Germania -, al rispetto delle sue indicazioni e dei suoi diktat e soprattutto nella definitiva accettazione del ruolo di discarica del continente, di camera di decompressione, di valvola di scarico della pressione migratoria dal terzo mondo. Ma si traduce anche economicamente nella rinuncia ad agganciare l’innovazione tecnologica e il sistema generale delle conoscenze, che non si riducono certo alla digitalizzazione o allo snellimento della burocrazia. L’Italia dopo aver perso il treno dell’elettronica e della meccanica fine ha perso quello della produzione di manufatti di grande diffusione. Dopo aver brillantemente superato la crisi del dopoguerra poteva tranquillamente competere e superare la Germania grazie al fatto che il tramonto del carbone aveva rimescolato  le carte e il basso costo dell’energia e delle materie prive finiva per esaltare l’importanza della creatività, dell’inventiva, del coraggio imprenditoriale.


Si paragona il recovery fund a un nuovo piano Marshall. Il confronto, evocato più volte anche da Berlusconi, dimostra solo scarsa conoscenza della storia recente.  Dalla seconda guerra mondiale l’Europa uscì  letteralmente distrutta, senza distinzione fra vinti e vincitori, con le popolazioni  ridotte alla fame, mancanza di elettricità, di combustibile di mezzi di comunicazione. L’european recovery program  sponsorizzato dal generale Marshall  era motivato da ragioni umanitarie politiche ed economiche:  la quasi totalità degli americani è di origine europea e con l’Europa molti mantengono un forte legame affettivo, l’economia americana in fortissima espansione aveva bisogno del mercato europeo  e occorreva impedire che l’Unione sovietica attraverso i partiti comunisti egemonizzasse il continente. Non si dimentichi che mentre si definivano i criteri del cosiddetto piano Marshall in Grecia era in corso una guerra civile scatenata dai comunisti che, in Italia come a Praga, si preparavano a prendere il potere. Il contesto storico non è nemmeno lontanamente confrontabile con quello attuale, così come non lo sono le condizioni dei potenziali beneficiari. Nel primo caso, infatti,  con la liquidità si dette una spinta decisiva a sistemi che già per conto proprio avevano cominciato a mettersi in moto mentre con gli aiuti alimentari e il rifornimento di carbone (l’inverno del ’48 fu terribile) e materie prime si impedì una catastrofe sociale. Oggi si rischia di fare ammalare di idropisia un paziente, l’Italia,che non soffre di sete ma è legato a un letto di contenzione e richiede solo di essere slegato. Il fiume di denaro che minaccia di rovesciarsi sulle finanze italiane sortirebbe l’unico effetto di soffocare l’iniziativa, bloccare la capacità produttiva, tarpare le ali alla ricerca e, perso quel fiume in mille rivoli arricchendo i ricchi e lasciando i poveri nella loro miseria, il Paese si ritroverebbe più povero, svuotato di energia, alle prese con la necessità di restituire il prestito senza averne la possibilità. Ma con  un risultato certo: quello di cacciare definitivamente l’incubo dell’italexit, che significherebbe la fine dell’esperimento europeista.


Ho usato il condizionale non a caso. Conte e Gualtieri sono andati a chiedere l’elemosina e sono tornati convinti di averla ottenuta ma hanno sbagliato due volte. Primo perché hanno chiesto come elemosina quello che semmai sarebbe un diritto automatico secondo il piano predisposto da Merkel e Macron; in secondo luogo quel piano è solo un’ipotesi da sottoporre al parlamento europeo e si sa già che non passerà. Accattoni quindi e accattoni stupidi, che si preparano a spendere l’elemosina che non arriverà mai. Poi però c’è il meccanismo europeo di stabilità, e quelli sono soldi veri; ma chissà perché gli Stati europei sono riluttanti a prenderli. Al compagno Gualtieri, entusiasta sostenitore del recovery fund e strenuo difensore del mes bisognerebbe  ricordare  che il suo partito è l’erede di quel Pci che fece fuoco e fiamme contro il piano Marshall, strumento dell’imperialismo americano che avrebbe ridotto l’Italia a una propria dipendenza inghiottendola nell’area del dollaro e subordinando gli aiuti alla permanenza di un governo amico che tenesse i comunisti fuori della porta. il sostegno americano, insomma, nascondeva un ricatto per incollare l’Italia all’alleanza atlantica. Ma è lo stesso esplicito spudorato ricatto confessato non tanto dall’Europa o dalla Merkel ma riconosciuto senza pudore dagli stessi esponenti del governo e della maggioranza: se non ci fossimo stati noi questi soldi non ci sarebbero mai stati dati, sottintendendo che se dovessero fare le valigie a furor di popolo quei soldi non arriveranno mai o ci verrebbero richiesti indietro. Ma siccome al peggio non c’è fine e non c’è fine nemmeno al cinismo e alla spudoratezza giallorossi queste elargizioni, questi prestiti da restituire a babbo morto, e con essi il miraggio di ponti, gallerie, rete, ferroviaria e digitale ultraveloce, ospedali avveniristici, una condizione ce l’hanno eccome, oltre quella di tener lontano Salvini da palazzo Chigi  e di tenere l’Italia incastonata nell’Unione europea: Dublino o no, accordi di Malta o no, l’Italia è e deve restare il campo profughi dell’Europa. E aver piegato il capo a questa condizione, come già aveva fatto Renzi, è il peccato mortale e imperdonabile di questa armata brancaleone che ci sgoverna col suggello del supremo custode della costituzione (e garante della sovranità popolare?)


Infatti  il problema più grave per il Paese rimane l’invasione, più grave del lavoro, della disoccupazione, del ritardo tecnologico, più grave di tutto ciò di cui ci si può lamentare. A tutto il resto, almeno in teoria, si potrà porre rimedio, a quella no. Preti e compagni hanno condannato a morte centri storici e periferie, hanno creato enclaves che sfuggono ad ogni controllo, hanno dato spazio e cittadinanza alla illegalità, alla violenza, al malaffare, hanno reso impotente lo Stato di fronte alla spaccio di droga e allo sfruttamento della prostituzione, hanno reso inaccessibili agli italiani interi quartieri, hanno di fatto imposto il coprifuoco nelle nostre città, hanno fatto diventare pericoloso viaggiare sui treni, non soltanto di notte, hanno posto le condizioni perché si formino e si sviluppino minoranze etniche culturali religiose che non si integreranno mai e sono destinate ad essere una minaccia costante non solo per la sicurezza dei cittadini e per l’identità della nazione ma per la stessa tenuta delle istituzioni. Uno sconcio reso possibile dalla acquiescenza del Pd alla folle politica della Chiesa cattolica.

Codicillo finale

Ho già scritto una volta che la sanità italiana non ha tanto bisogno di soldi  per arricchire baronie e apparati  quanto di un’organizzazione efficace ed efficiente e di sicure professionalità (oltre che di meno retorica e ipocrisia). Sulla fine che faranno – farebbero – quei soldi (mi riferisco al Mes) che mi auguro non arrivino mai colgo già dei segnali terrificanti: il neoeletto Giani nelle sue prime dichiarazioni da presidente della regione toscana ha indicato fra le priorità della sua amministrazione il nuovo ospedale di Livorno. Un monstrum che potrà essere utile a tutto (sicuramente a tanti che sognano il bis del cantiere navale trasformato in area edificabile)  fuorché alla salute di toscani e livornesi, per la quale, almeno come edificio, gli spedali riuniti costruiti avveniristicamente negli anni trenta  bastano e avanzano. 

 Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione

 

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