NE’ BESTIA NE’ ANGELO

NE’ BESTIA NE’ ANGELO

NE’ BESTIA NE’ ANGELO

     Nell’ormai famoso (e per alcuni cattolici “ortodossi”, famigerato) dialogo tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari,  emerge con chiarezza – e questo solo basterebbe a rendergli merito e ad essergliene grati, quale che sia la nostra  posizione –  la linea di demarcazione tra chi crede e chi non crede in un Dio, comunque sia concepito. Questa differenza riguarda soprattutto la concezione che gli uni e gli altri hanno della natura umana: per i credenti  l’uomo è una creatura che, in quanto creata  da Dio, è anch’essa in parte divina, ed è quindi una creatura  formata da una componente  angelica  e da una componente bestiale (altrimenti, come spiegare le debolezze, le tentazioni, i vizi e i peccati della “carne”?); per i non credenti o, per chi fosse allergico alle litoti, per gli atei, è solo una bestia, o meglio, per usare le parole di Scalfari, riecheggianti la celebre definizione dell’uomo come  “scimmia nuda” dell’etologo Desmond Morris, una “scimmia pensante”.


Desmond Morris

Non è una differenza da poco, perché chi crede che l’uomo non sia solo materia, ancorché vivente, ma anche spirito, crede che una parte, chiamata anima o, appunto,  spirito, non muoia con il corpo ma gli sopravviva, perché è quella parte dove, come dice Agostino, citato da Vito Mancuso nel suo intervento a proposito del suddetto dialogo:  “risplende ciò che non è costretto dallo spazio e risuona ciò che non è incalzato dal tempo”. Per il credente esiste dunque negli esseri umani una dimensione che trascende i limiti spaziotemporali in cui si svolge la vita di tutti gli esseri viventi, mentre per l’ateo non c’è nulla oltre questi limiti, né il fatto che questi limiti siano incerti, mobili e tutt’altro che stabiliti una volta per sempre – come hanno dimostrato la teoria della relatività e la fisica quantistica – sembra turbare più di tanto le certezze degli atei tutti di un pezzo. Un esempio paradigmatico di fede incrollabile nella non esistenza di Dio lo troviamo nell’articolo “Le ragioni dell’ateismo e l’ateismo della ragione”, di Paolo Flores D’Arcais, su MicroMega (5/2013): “Homo sapiens ogni giorno sa qualcosa di più. La conoscenza scientifica si amplia, spesso in modo esponenziale, dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo. Ma sappiamo anche che, quanto ai tradizionali problemi della filosofia, sappiamo tutto. Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Cosa possiamo sapere, che cosa dobbiamo fare, che cosa ci è lecito sperare. Infine, che cosa è l’uomo, l’interrogativo che tutti quegli interrogativi raccoglie”. Ma siamo sicuri di sapere che cosa è l’uomo? Per sapere “scientificamente” chi siamo, dovremmo poterci osservare da un punto di vista esterno, o meglio, da un punto di vista superiore e con una mente in grado di contenere la nostra; il che sarebbe come chiedere a una bottiglia  di contenere se stessa, o, in termini logici, a un elemento di un insieme di contenere tutti gli elementi di quell’insieme più l’insieme medesimo (paradosso di Bertrand Russell).


 Paolo Flores D’Arcais

Inoltre, se sapessimo già tutto su noi stessi, che senso avrebbero le ricerche di laboratorio e i continui progressi nel campo, ad esempio, delle neuroscienze? Esiste forse un termine ultimo, un punto d’arrivo, un non plus ultra della scienza  verso il quale è orientato il “progresso” del sapere e raggiunto  il quale “tutto sarà finalmente chiaro” e non ci sarà più niente da sapere? E se possiamo oggi dire di sapere, in una certa misura, da dove veniamo, come possiamo sapere con certezza dove andiamo? Siamo forse in grado di vedere oggi quello che accadrà domani, figurarsi fra cento o mille anni? Nondimeno Flores D’Arcais è convinto di sapere addirittura “il nulla e il perché del nostro essere al mondo”. Sapere il nulla? E come è possibile conoscere qualcosa che non c’è? Quanto al perché del nostro essere al mondo, è una di quelle domande aperte che non ammettono riposte preconfezionate, a maggior ragione da chi si professa ateo (cfr. L’essere e il nulla di J. P. Sartre). Ma non basta: “Sappiamo che nell’universo non c’è traccia di Dio creatore, Dio padre o Dio impersonale che sia, Provvidenza o Design che orienti teleologicamente il Big Bang fino a noi (e meno che mai verso un esito futuro di Bene)”. Ma come fa Flores D’Arcais a sapere se il Big Bang è o non è orientato verso un fine? Come può una particella cosmica che si autodefinisce “razionale” sapere se il tutto a cui appartiene è orientato a un fine oppure se tutto avviene e si muove a caso come gli atomi democritei? Quella particella “razionale” dovrebbe, anche’essa, contenere in sé non solo l’intero universo ma anche tutto il suo arco temporale, dal suo inizio alla sua fine. Non credo che Flores D’Arcais, con rispetto parlando, possa sapere come finirà l’avventura cosmica della luce, della materia e dall’antimateria. Sappiamo, è vero, che “quattordici milardi di anni fa – scrive Pietro Citati su La Repubblica del 28/9/10, recensendo Antimateria di Frank Close, Einaudi, 2010 – avvenne il cosiddetto Big Bang, prima del quale niente esisteva: un improvviso, violentissimo scoppio d’energia, di cui ignoriamo [il corsivo è mio] la fonte. Come dice la Genesi? ‘Sia la luce. E la luce fu’. Le ricerche moderne e modernissime riescono a risalire a un attimo dopo lo scoppio: un miliardesimo di secondo.


Pietro Citati

Allora si rivelò quale è il numero, e il ritmo fondamentale dell’universo. Non l’Uno della filosofia platonica, e della religione cristiana ed islamica, ma il Due. Di qua la materia, di là il suo opposto, l’antimateria; di qua l’elettrone, con cariche elettriche negative, di là il suo opposto, il positrone, lo specchio rovesciato del primo. Per un tempo esilissimo, le due forze si equilibrarono e si bilanciarono. E, per un istante, l’osservatore, (se fosse esistito un occhio nel fuoco e nella tenebra) non avrebbe saputo prevedere il futuro dell’universo [anche qui il corsivo è mio]. Siamo diventati materia , e ne sopportiamo il peso; ma forse avremmo potuto diventare antimateria [idem], la forza che domina nel cuore della Galassia”. Se poi si considera che una gran parte della materia di cui è fatto l’universo, la cosiddetta materia oscura,  non è visibile nemmeno al più potente dei telescopi perché non emette neanche un fotone, ma è solo deducibile per i suoi effetti sui campi gravitazionali infra e intergalattici, e che, fino alla metà circa del secolo scorso, non se ne sospettava neppure l’esistenza, possiamo ipotizzare  che nello spazio ci siano ancora molte cose, anzi, molte particelle da scoprire, e che quindi sappiamo sì qualcosa, ma non certamente tutto del mondo fuori e dentro di noi. Ma Flores D’Arcais ha più certezze che dubbi: “Sappiamo che nel mammifero Homo sapiens non c’è indizio di anima immortale, di facoltà psichiche o ‘spirituali’ separabili dal corpo e che possano sopravvivere alla morte  dell’organismo”. E come facciamo a esserne certi “prima” di esalare, come si dice, l’ultimo respiro? Con quale “prova” possiamo escludere che qualcosa di noi ci sopravviva e qualche forma di energia psichica o spirituale possa entrare e uscire dal nostro corpo? La letteratura sui fenomeni cosiddetti paranormali o extrasensoriali è ponderosa, perché ignorarla o giudicarla irrilevante a priori? Nel libro dello psichiatra americano Raymond Moody, La vita oltre la vita, Mondadori, 1977, vengono riferiti e analizzati numerosi racconti  di pazienti usciti dal coma, rilevandone le invero sorprendenti somiglianze, come l’impressione di entrare in un tunnel a forte velocità in fondo al quale splende una luce di uno splendore mai visto,  la netta percezione di essere fuori dal proprio corpo e di osservarsi dall’alto, la visione simultanea di tutta la loro vita passata, la sensazione di pace e di estrema serenità, poi rimpianta una volta tornati alla vita, ecc. ecc.; importante, a questo proposito, la testimonianza di C. G. Jung, che, nel 1944, in seguito a un incidente e a un infarto, entrò in coma, e visse anch’egli un’esperienza della cosiddetta pre-morte.


C. G. Jung

  Ebbene, in una lettera dello stesso anno Jung scrive: “Quel che viene dopo la morte è qualcosa di uno splendore talmente indicibile che la nostra immaginazione e la nostra sensibilità non potrebbero concepire nemmeno approssimativamente“, e aggiunge, con qualche intonazione profetica: “Prima o poi i morti diventeranno tutt’uno con noi, ma, nella realtà attuale, sappiamo poco o nula di quel modo di essere. Cosa sapremo di questa terra, dopo la morte? La dissoluzione della nostra forma temporanea nell’eternità non comporta una perdita di significato: piuttosto, ci sentiremo tutti membri di un unico  corpo”. Riguardo all’etica, Flores D’Arcais è altrettanto perentorio: “Sappiamo che non esiste una morale umana, poiché la dimensione etica dell’uomo conosce le norme più diverse e incompatibili per la convivenza del branco, tribù, comunità, società, dal genocidio al porgere l’altra guancia, tutte naturali purché assicurino la sopravvivenza di una collettività”. Se il valore supremo fosse quello della sopravvivenza a qualunque costo, come spiegare, allora, chi dona la propria vita per salvarne altre, o in nome di ideali come la libertà, la giustizia, la carità di patria, la dignità di ogni essere umano? Che cosa dobbiamo pensare di Catone Uticense, che preferì uccidersi piuttosto che diventar schiavo di Cesare, come gli ricorda Virgilio nel primo canto del Purgatorio: “Or ti piaccia gradir la sua venuta: / libertà va cercando, ch’è si cara, / come sa chi per lei vita rifiuta. // Tu ‘l sai, che non ti fu per lei amara / in Utica la morte, ove lasciasti / la vesta ch’al gran dì sarà si chiara”. Infine, secondo Flores D’Arcais, sappiamo (ma perché non dice “io so”?) “che Dio (personale o impersonale) e anima immortale sono ipotesi irrazionali, in conflitto con il sapere accertato. Aut fide, aut ratio. La philo-sophia, l’amore per il sapere, lascia alla fede solo lo spazio del ‘credo quia absurdum’ “, perché “Dopo Darwin, almeno dopo Darwin, l’ateismo è l’orizzonte ineludibile della filosofia”. Per Flores D’Arcais, dunque, dove c’è fides non può esserci ratio; ma chi l’ha detto? Un credente  nella razionalità scientifica, che ha fatto della scienza la sua religione, come se la scienza fosse infallibile e come se non ci fossero scienziati che credono in Dio! Quanto a me, a questo punto del mio percorso e della mia continua ricerca di una verità che non sia solo la mia verità, non posso far altro, per ora, che sospendere il giudizio.

Fulvio Sguerso

 

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