MUNCH, PITTORE DELL’ANGOSCIA

MUNCH, PITTORE DELL’ANGOSCIA

MUNCH, PITTORE DELL’ANGOSCIA

           Lo spettro dell’Urlo (1893), l’opera più famosa del grande e tormentato artista norvegese ossessionato dalla malattia, dalla follia e dalla morte (gli “angeli neri” che, come ha scritto egli stesso,  “hanno vegliato sulla sua culla”  fin da  quando è nato a Loeten, il 12 dicembre del 1863), si aggira per le sale  in penombra dell’appartamento del Doge, nel palazzo Ducale di Genova, dove è stata allestita  dal critico  Marc Restellini, direttore della Pinacothèque de Paris,  la mostra “Edvard Munch, 1863 – 1944”, prodotta da Arthemisia Group e 24ORE cultura, visitabile fino al 27 aprile 2014, in occasione dei centocinquant’anni dalla  nascita del pittore.


“E’ sorprendente – osserva Restellini –  scorgere così presto nella storia dell’arte moderna un artista capace di staccarsi da tutte le convenzioni alle quali ci avevano abituati gli artisti e i movimenti precedenti, ed è prodigioso notare sin dagli anni Ottanta dell’Ottocento come Munch si accanisca sugli strati di colore, vederlo letteralmente solcare la superficie pittorica o lasciare le sue tele esposte alla pioggia e alla neve, trasferire fotografie e fotogrammi di film muti all’interno dei suoi dipinti e dei suoi lavori grafici”. In mostra è presente però solo lo spettro dell’ Urlo, cioè la riproduzione dell’opera, non l’opera stessa, per il tramite di due serigrafie  di Andy Warhol; l’originale – o meglio, uno degli originali, ne esistono infatti quattro versioni, due dipinte con tecnica mista e due disegnate a pastello (una di queste è stata venduta all’asta, da Sotheby’s, a New York, nel 2012, per poco meno di 120 milioni di dollari!) – è rimasto, superprotetto dopo i due furti subiti, alla Nasjonalgalleriet di Oslo.


Il carattere tragico della  poetica di Munch deriva indubbiamente, oltre che dal suo temperamento introverso e incline alla depressione, dagli avvenimenti luttuosi che lo hanno segnato fin dalla sua prima infanzia: a cinque anni vede sua madre morire di tisi; a quattordici anni assiste alla morte dell’amata sorella Sophie, anche lei per tisi; lui stesso è di debole complessione (come direbbe il Leopardi): a ventisei anni, quindi nel pieno della sua già notevolissima attività artistica, è costretto a rimanere due mesi in un sanatorio per l’acutizzarsi dei suoi reumatismi articolari; come se non bastassero le sue crisi nervose (dovute anche a uno stile di vita disordinato) e la salute cagionevole, nel 1902,  a trentotto anni, nel corso di una violenta lite con Tulla Larsen, figlia bella e viziata di un ricco commerciante di vini che si era perdutamente innamoratada da lui e dalla quale  voleva separarsi ,  si ferisce alla mano sinistra con un colpo di pistola, forse partito accidentalmente, e perde una falange del dito medio; nello stesso anno si aggravano i suoi disturbi psicofisici: a causa della sua irritabilità e debolezza nervosa è spesso coinvolto in litigi e risse con sconosciuti; a quarantasei anni, il 3 ottobre del 1908, a Copenhagen, dove si era stabilito da pochi mesi, soffre di allucinazioni, di delirio di pesecuzione e per un principio di paresi alle gambe, dovuto anche all’abuso di alcol,  è quindi costretto a ricoverarsi nella clinica psichiatrica del dottor Daniel Jacobson, fino al maggio del 1909; nel 1928 un altro lutto: gli muore anche la sorella Laura, affetta da depressione grave; nel 1930, la rottura di un vaso sanguigno dell’occhio destro e l’occhio sinistro da tempo compromesso dall’ipertensione gli provocano seri problemi di vista; nel 1940 si aggravano i disturbi agli occhi; nel 1943, a ottant’anni, stenta a ristabilirsi da una rinite tracurata; nel gennaio del 1944 si ammala di broncopolmonite e muore solo, nella sua casa atelier di Ekely, alla periferia di Oslo.


Questi dati biografici ci aiutano a comprendere come e perché Munch sia stato assillato per tutta la vita dal pensiero della malattia, della sofferenza, della solitudine, dell’angoscia e della morte, proprio come un personaggio del suo amato amico Ibsen, del quale ha scritto: “Ho letto Ibsen più volte, ripetutamente, e l’ho letto come me stesso “. Sintomatici son anche i titoli di tanti suoi disegni, dipinti e incisioni: Malinconia , La bambina malata, DisperazioneAngoscia, Separazione, Autoritratto all’inferno, Ragazza in lacrime, La morte del bohèmien, Vampiro, Peccato, La morte entra nella stanza, Odore di cadavere … Prendiamo ad esempio L’ urlo, divenuto una delle icone tragiche e simboliche del nostro tempo così gravido di  catastrofi incombenti, e scelta anche dal teologo Vito Mancuso quale raffigurazione icastica della cupa concezione agostiniana o kierkegaardiana della vita come colpa e come dannazione; è stato l’artista stesso a spiegarne la genesi da una specie di sogno o visione a occhi aperti: “Una sera passeggiavo per un sentiero con due amici, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. Ero stanco e malato. Mi fermai, stanco morto, e mi appoggiai al parapetto e guardai al di là del fiordo – il sole stava tramontando – le nuvole erano tinte di rosso sangue, / sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. I miei amici continuarono a camminare, e io rimasi lì, tremando d’angoscia”.


 

Quindi la figura che urla portandosi le mani alle orecchie è lo stesso Munch, e questo conferma come per l’autore arte e vita siano strettamente intrecciate, tanto che l’una trae alimento e ispirazione dall’altra, in un continuo  gioco di rimandi e di riflessi e di reciproca dipendenza; lui stesso scrive, anzi, confessa: “Per me, dipingere è come essere ammalato o intossicato – una malattia dalla quale non vorrei mi si guarisse, un’intossicazione di cui non posso fare a meno”. L’urlo è anche un’opera che segna come uno spartiacque stilistico tra passato (naturalismo, impressionismo, divisionismo) e futuro: è già un quadro espressionista a tutti gli effetti che anticipa lo stile del primo Boccioni, di Lorenzo Viani, di Gino Rossi e dei pittori tedeschi del gruppo  Die Brucke (Il Ponte) e del movimente del Blaue Reiter (Il cavaliere azzurro). Vediamo le linee in fuga di un ponte che attraversa in diagonale lo spazio inferiore del dipinto, su questo ponte tre figure: una in primo piano, vestita di scuro, con la testa deformata che ricorda un teschio o un fantasma, due appena abbozzate, in lontanaza. Sulla destra del ponte è un ondeggiante fluire di colori cupi a significare un tristissimo e desolato paesaggio in cui penetra e si distende un chiaro braccio di mare. In alto un cielo ondoso di nubi color rosso-sangue, appunto.


L’intuizione stilistica che ha reso giustamente celebrata quest’opera è la tensione interna al dipinto tra il moto ondoso del paesaggio e della figura in primo piano e la rigidità del ponte che taglia diagonalmente quello spazio irreale che sembra sconvolto dall’urlo che scuote la natura. Ai temi dell’angoscia, della disperazione, della malattia che trasforma la vita in morte, quasi per espiare chissà quale colpa, va aggiunto anche quello dell’eros, la sola forza che, insieme all’arte, può, se non vincere, almeno contrastare la depressione, la solitudine e la morte del corpo e dell’anima, anzi, più quella dell’anima che del corpo. Sì, ma l’eros di Munch è come se fosse un’altra faccia della morte, perché non riesce a separare il sesso dal peccato. Di qui il suo rapporto conflittuale con le donne in quanto oggetti-soggetti erotici, quel misto di attrazione-repulsione per degli esseri che possono dare la vita, ma, con essa anche la morte. E’ il tema ricorrente, tormentoso e misterioso della donna-vampiro e delle Madonne peccaminose: “Ho parlato dell’amore libero a Fru L – scrive Munch nel suo diario – . Perché due persone adulte non dovrebbero amarsi, ho detto – Sì, perché no, ha risposto – Riflettevo domandandomi se fosse il caso di baciarla – E’ rimasta immobile, in piedi – Mi sono recato in una stanza attigua – sedendomi lì, sul materasso – Lei si è avvicinata e mi ha fissato negli occhi. Aveva piccoli occhi castani davvero penetranti – Avverto ora l’impulso a fare qualcosa d’insolito, ha detto. Mi sfiorava la fronte con le mani. – Che cosa ti prende, ho domandato. Vuoi ipnotizzarmi? In un baleno era in piedi sotto la porta ad arco dello studio – Sottile e altezzoso il viso – e occhi trafiggenti – una dorata capigliatura a cerchio, simile a un’aureola – Incredibile quel sorriso – proteso lungo labbra fermamente serrate – un non so che da testa di Madonna – in me è insorta un’inesplicabile sensazione d’angoscia. Un brivido. Poi lei se n’è andata – e ho iniziato La danza della vita.


All’imbrunire ho sognato di baciare un cadavere e sono rabbrividito d’orrore – le pallide labbra sorridenti di un cadavere ho baciato – un umido freddo sorriso – Era il viso di Fru L –“. Ecco, nella donna viva Munch baciava  già la donna morta. Non erano forse morte precocemente sua madre e l’amata sorellina Sophie? Sembra il tema di un racconto di Adgar Allan Poe. Tra le opere esposte nella mostra genovese, tutte provenienti da collezioni private – oltre a un cupo e funereo Chiaro di luna, a un pensoso e malinconoco Autoritratto in bianco e nero, come Vampiro II e allo splendido ritratto della signora IngerBarth – quella che, una volta vista, è difficile dimenticare, è la delicata e struggente litografia a sanguigna intitolata La bambina malata I

FULVIO SGUERSO

 

 

 

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