MALE NOSTRUM

MALE NOSTRUM

MALE NOSTRUM

Non al “mare” nostro ma al nostro italico male è dedicato il primo capitolo del saggio su La questione morale di Roberta De Monticelli (Raffaello Cortina Editore, 2010), assumendo come un dato di fatto l’esistenza di uno “spirito degli italiani” che, con le sue specifiche connotazioni etiche, cioè comportamentali, “sfida, a quanto pare, i secoli dei secoli”.
L’autrice non perde tempo in teoretiche deduzioni o considerazioni preliminari sull’esistenza o meno di un male radicale comune a tutta l’umanità, e neppure sulla questione non ancora archiviata sull’incerta identità collettiva degli italiani, ma apre la sua disamina sulla “storica” immoralità che caratterizza il nostro Volksgeist, almeno a partire dalla doppia morale teorizzata, raccomandata (e praticata) da “un grande classico della nostra lingua e della nostra cultura” quale tuttora è Francesco Guicciardini, anch’egli fiorentino come il suo più famoso, e famigerato, contemporaneo Niccolò Machiavelli. Ma in che cosa consiste precisamente questo storico e radicato “male nostrum” che, ormai a detta non solo della De Monticelli ma da tutta quell’intellettualità nazionale (e internazionale) definita sprezzantemente da Giuliano Ferrara “puritana” e “moralistica”, caratterizza la vita pubblica nel nostro Paese? Ai noti e, ahimè, tradizionali tratti distintivi del familismo, del clientelismo, del qualunquismo, della mafiosità diffusa, della guapperia, del servilismo, oggi dobbiamo aggiungere la “discesa in campo politico dell’interesse affaristico che si fa partito e prostituisce il nome di ‘libertà’ a indicare il disprezzo di ogni regola che possa frenare o limitare la libido di ‘un potere enorme’ – letteralmente e-norme – sottratto a ogni norma di civiltà e diritto.” Assistiamo difatti, tra lo sgomento e l’incredulità, a un’intera maggioranza parlamentare di dubbia leggitimità (considerata l’oscena compravendita di deputati e senatori avvenuta coram populo) asservita alle improrogabili esigenze processuali del “più amato dagli italiani” . Eh sì, perché questa prostituzione pubblica e questo uso privatistico delle istituzioni repubblicane non sarebbe possibile se non ci fosse “una sorprendente maggioranza degli italiani che approva, sostiene e nutre questa impresa, e collabora passivamente e attivamente a dissipare, insieme, la migliore eredità morale e civile e il patrimonio di bellezza e cultura del nostro Paese.”Come è stato possibile arrivare a questi punti? E come spiegare il diffuso consenso di cui tuttora gode questa tipologia politica (o, meglio, antipolitica) affaristica, corruttiva e personalizzata, che – altro preoccupante fenomeno – ha trovato un tacito, ancorché imbarazzato e imbarazzante assenso, da parte delle gerarchie vaticane e di un certo associazionismo cattolico? La De Monticelli, sulle orme del De Sanctis, ravvisa la radice di questo nostro specifico male nazionale proprio nella doppia morale così bene argomentata e rappresentata dal Guicciardini nei suoi “ammonimenti” o Ricordi politici e civili del 1530: “Pregate Dio sempre di trovarvi dove si vince , perché vi è data laude di quelle cose ancora di che non avete parte alcuna: come per el contrario chi si truova dove si perde è imputato di infinite cose delle quali è inculpabilissimo (cioè del tutto innocente).” Non c’è in questa massima l’amara constatazione di come vanno le cose di questo mondo, e della inanità dei tentativi di correggerle?
Roberta De Monticelli
E, di conseguenza, non conviene forse adattarvisi e, possibilmente, trarre profitto dalle circostanze e dalle opportunità di “carriera” che i potenti di questo mondo ci possono offrire, purché ci dimostriamo disposti a farci adoperare come conviene? Di qui l’importanza dell’arte cortigianesca: “Ministro o suddito, il cortigiano deve conoscere anzitutto le arti della doppiezza: ‘Una delle maggiori fortune che possano avere gli uomini è avere occasione di potere mostrare che, a quelle cose che loro fanno per interesse proprio, siano stati mossi per causa di publico bene.’

La prima di queste arti, naturalmente, è quella di non dispiacere a nessuno, si intende a nessuno che abbia un qualche potere di nuocerci……”. E nel caso in cui alle promesse non seguissero i fatti? Niente paura: “Nega pur sempre quello che tu non vuoi che si sappia, o afferma quello che tu vuoi che si creda, perché, ancora che in contrario siano molti riscontri e quasi certezza, lo affermare o negare gagliardamente mette spesso a partito el cervello di chi ti ode.” Tanto più che “molti uomini sono grossi e facilmente si lasciano aggirare con le parole , in modo che, etiam non faccendo tu quello che non volevi o non potevi fare, s’ ha spesso, con quella finezza di rispondere, occasione di lasciare bene satisfatto colui, al quale se da principio avessi negato, restava in ogni caso mal contento di te.” Il bravo cortigiano, come il buon principe machiavellico, (e l’odierno leader carismatico) deve essere gran simulatore e dissimulatore, se vuol raggirare “con quella finezza di rispondere” il cervello di chi lo ascolta. Niente di nuovo sotto il sole, nevvero? Val la pena riportare il commento dell’italianista Emilio Pasquini, curatore dell’edizione Garzanti (1999) dei Ricordi: “Dal savoir faire alla strategia psicologica applicata nella più scaltra diplomazia: ‘vedi qui codificate le udienze dei potenti’ (Spongano), ove gli uomini comuni assumono quella connotazione di ‘grossezza’ che è quasi topica nella tradizione della novella di beffa.” E non ci sembra proprio di vivere oggi, volenti o nolenti, in una novella boccaccesca amplificata e diffusa a livello planetario dai media nazionali e internazionali? E, di nuovo, come spiegare l’impertubato assenso o il mancato dissenso di tanta parte dell’italico vulgo riguardo al nostro mediatico e istrionico Buffalmacco nazionale? La De Monticelli cita il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani che il Leopardi scrive nel 1824, osservando che, dai tempi del Guicciardini a quel momento, molte cose sono cambiate, ma, a quanto pare “non la fenomenologia della coscienza italiana. Con la differenza che quelli che il nobiluomo fiorentino offriva come amari, sarcastici e tuttavia ‘realistici’ precetti, Leopardi li denuncia come sintomi di un’incapacità, radicata nella storia e nella cultura, di uscire definitivamente dallo stato di minorità, guadagnando quella che Kant aveva pochi decenni prima chiamato l’età di ragione, l’età dell’autonomia morale e civile.” Che dire? Generalizzare è sempre un errore e anche un’ingiustizia: non tutti gli italiani (e le italiane) sono sudditi o cortigiani (e cortigiane) servili, né sono mai mancati esempi, personalità, episodi storici, occasioni e fulgidi momenti di eroismo e di gesta grazie ai quali e alle quali possiamo pur sempre sperare che, prima o poi “si verifichi quel detto del Petrarca: Virtù contro a furore / prenderà l’arme; e fia el combatter corto: / ché l’antico valore / nelli italici cor non è ancor morto. “ Naturalmente, prima che sia troppo tardi.

Fulvio Sguerso

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