Ma che cosa è un porto?

Ma che cosa è un porto?
Non è una domanda banale,
ed è tutt’altro che semplice rispondere. 

Ma che cosa è un porto?
 

Non è una domanda banale, ed è tutt’altro che semplice rispondere. Tra l’altro, girando per il mondo, si scopre che i porti sono “mondi a parte” ovunque e che le tradizioni, le regole, le culture che vi albergano sono molto simili, anche in contesti politici, culturali e sociali totalmente differenti.

Quella portuale è una identità forte, ovunque, che prevale su altre appartenenze.

Eppure, nonostante che spesso ad una identità forte si accompagni una altrettanto forte diffidenza verso il cambiamento,  non si può dire che l’ambito portuale, in Italia e in Europa sia rimasto immutato in questi ultimi decenni. Anzi.

E’ del 1994 la N.84, la legge che ha “rivoluzionato” le regole e la realtà dei porti italiani,  e definitivamente.


Una legge di riforma radicale che ha introdotto negli ambiti portuali una nuova imprenditoria privata, i terminalisti, e ha costruito regole e condizioni perché si  realizzasse un utilizzo del demanio, un “asset”, come si dice ora, pubblico, sfruttando la capacità di impresa privata, attraverso il meccanismo delle concessioni.

Con tutti gli sproloqui inconcludenti ad oggi intorno alla riforma della 84, non c’è stato alcuno che abbia proposto di modificare questo schema base, fortunatamente.

Fino ad allora nei porti operavano due soggetti: i dipendenti dei consorzi o degli enti porto, di proprietà pubblica, addetti normalmente sia ai ruoli impiegatizi che al lavoro sui mezzi meccanici più particolari e i soci, mai dire dipendenti, delle compagnie portuali, che si occupavano della movimentazione delle merci, del facchinaggio, delle operazioni accessorie, come il rizzaggio, il fardaggio etc etc.

Questo era il modello operativo che è vissuto fino a tutti gli anni 80 nei porti principali italiani. Le compagnie portuali, normalmente soggetti cooperativi, peraltro, non sono un patrimonio peculiare italiano. Esistono in Francia, un esempio è la mitica compagnia di Marsiglia, in Spagna, ad esempio a Barcellona. Esistono forme simili, chiamate pool ( di mano d’opera), nei porti del Nord, Anversa su tutti.


Sono soggetti cui spesso si accede per linea ereditaria e famigliare, composti da lavoratori molto professionalizzati, abituati al “cottimo”, poco propensi a essere inquadrati in schemi di orario di lavoro o di organizzazione aziendale gerarchizzata.

Paride Batini, anche di fronte all’ispettorato del lavoro che chiedeva libri matricola o libri paga, era capace di rispondere, “ma cosa volete? Qui non ci sono dipendenti e padroni…”.

Sono soggetti che caratterizzano i porti con lunga storia e tradizione, come Savona e sono soggetti dotati di una forte, fortissima, identità, come prima richiamavo. 

Su questa realtà è calata la L. 84/94. In modo non improvviso e indolore, se pensiamo alle tensioni e alla situazione che si creò a Genova alla fine degli anni 80, nella fase dei famosi Decreti “Prandini”….


Giovanni Prandini

Al posto dei dipendenti dei consorzi e degli enti  sono arrivati i terminalisti privati, con i propri dipendenti, cui la Autorità Portuale affida aree in concessione, dietro la presentazione di piani industriali nei quali devono essere indicate ricadute occupazionali, piani di investimento e  tipologia di traffici (contenitori, rinfuse, ro/ro…) da cui risulti evidente l’utilità pubblica dell’affidamento in concessione. 

La durata delle concessioni è variabile e dipende in buona parte dalla consistenza degli investimenti che il privato si impegna a realizzare sull’area, tenendo conto della realistica possibilità del loro ammortamento.

Il quadro delle concessioni costituisce la zonizzazione di un porto, compilata sulla base del piano regolatore portuale, le cui previsioni vengono implementate attraverso lo strumento del piano operativo triennale.

La legge di riforma ha infine imposto che le compagnie portuali scegliessero una propria funzione, optando tra l’autorizzazione di impresa ex art 16, fornitrici di appalti di segmenti di ciclo operativo per le imprese terminalistiche concessionarie e la costituzione in fornitore di lavoro temporaneo portuale, soggetto unico per ogni porto, autorizzato ai sensi dell’art 17.

Si può ben dire, quindi, che la L84/94 è stata una vera e grande riforma, compiuta 20 anni fa.

In seguito alla applicazione di quella legge i porti italiani hanno seguito un proprio percorso di sviluppo e si sono evidenziati problemi che ancora oggi non sono stati risolti e che hanno portato realtà senza una pregressa tradizione portuale (es. La Spezia, Salerno) a conoscere sviluppi più veloci ed efficaci  rispetto ad altre nelle quali la tradizione portuale era più pronunciata.

In buona sostanza è accaduto che laddove ci si è trovati in presenza di una radicata storia e tradizione, soprattutto in materia di organizzazione del lavoro portuale, la  applicazione della L84 ha seguito un percorso molto localistico, più preoccupato di non stravolgere una struttura sedimentata che di interpretare correttamente lo spirito e il dettato della legge.

   

Ciò è avvenuto soprattutto forzando nelle applicazioni concrete i contenuti degli articoli 16 e 17, dove vengono definiti i confini cui attenersi per definire un appalto di servizio o una fornitura di mano d’opera. E ciò ha prodotto in molti casi una sostanziale alterazione della concorrenza tra porti, che è molto basata sul costo e la flessibilità del lavoro, che rappresenta normalmente fino al 70% dei costi di una impresa terminalistica. Questo, di  impedire che la concorrenza venisse nutrita facendo leva sul costo e la flessibilizzazione del lavoro fu, invece, la ragione per la quale, dal 2000, le parti sociali hanno stipulato un contratto di lavoro unico nazionale unificando i 13 che preesistevano.

E questo è il motivo per il quale sarebbe opportuno che non si lasciasse tutta l’autonomia che si è invece consentita alle realtà locali nella compilazione dei regolamenti in materia di organizzazione del lavoro, regolamenti che spesso “interpretano” e non “applicano” una materia tanto delicata. Così può accadere che a Genova una attività sia un servizio e a Savona una operazione, oppure che i concetti di appalto o di fornitura di lavoro temporaneo portuale siano tanto flessibili da apparire inesistenti.

Quando sostenni questa posizione durante un convegno a Savona nel marzo del 2010 fui ripreso dal Presidente Canavese che, invece, sosteneva proprio la posizione più localistica. Non a caso Canavese fu parlamentare della Lega Nord…

Battute a parte va riconosciuto che a Savona si sia proceduto ad una costruzione della organizzazione del lavoro intelligente e corrispondente alle esigenze del porto di Savona. Infatti, a differenza di Genova, a Savona esiste per il terminalista sia l’opportunità di avvalersi della fornitura di lavoro temporaneo, sia quella di appaltare segmenti del proprio ciclo. Si è saputo mediare con intelligenza tra le esigenze della Compagnia Portuale, rappresentata come a Genova fortemente dalle OOSS, particolarmente la CGIL, tra le cui fila siede in Comitato il console della compagnia stessa, e quelle particolarmente del movimento cooperativo, appoggiato dalle imprese terminalistiche, che spingeva per poter accedere al mercato del lavoro portuale e lo ha fatto utilizzando lo strumento dell’appalto di servizio, rappresentato dall’art 16 della L 84/94.

  

 

Certo ora la situazione sta conoscendo una fase critica, almeno in parte, legata alla crisi del Reefer terminal, di gran lunga il maggiore terminal portuale con i suoi 160 addetti, che si affianca a quella già presente e ora acuita dalla vicenda della centrale del Terminal Rinfuse.

La piattaforma rappresenta quindi in questo panorama una occasione di sviluppo irrinunciabile per il porto di Savona.

Uno sviluppo certamente quantitativo, considerati i volumi che vengono dichiarati, ma anche qualitativo. Perché, a mio parere, la realtà del porto di Savona sconta un problema particolare, rappresentato dalla piccola dimensione delle imprese che lo compongono.

A Genova, a La Spezia, a Livorno, a Ravenna, ad esempio, esistono realtà imprenditoriali diffuse fatte da aziende di media dimensione, oltre i 15 dipendenti.  A Savona no. Quasi tutte le imprese terminalistiche hanno organici sotto i 15 addetti.  

Questo “nanismo” è certamente determinato da più fattori:  la dimensione delle concessioni e la tipologia e dimensione dei traffici, la necessità di conservare un equilibrio che consenta alla compagnia lo spazio vitale di lavoro, certamente anche una utilità degli imprenditori che ottengono così una dimensione dell’azienda meno impegnativa e più flessibile, solo per citarne alcuni.

Ma un grande porto è fatto anche dalla dimensione imprenditoriale che in esso vive. Anche questo sarebbe un tema interessante da sviluppare in una discussione aperta su Savona e il suo porto.  Una discussione coerente a quella sugli strumenti di programmazione economica e del territorio che citavo nel precedente articolo. Una discussione che sto cercando di provocare.

Luca Becce

     

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