L’universalismo cristiano e…

L’UNIVERSALISMO CRISTIANO
E LA MALEDIZIONE DELLA LEGGE

 

L’UNIVERSALISMO CRISTIANO
E LA MALEDIZIONE DELLA LEGGE
 “Sappiate dunque che figli di Abramo sono quelli che vengono dalla fede. E la Scrittura, prevedendo che Dio avrebbe giustificato i pagani per la fede, preannunziò ad Abramo questo lieto annunzio: In te saranno benedette tutte le genti. Di conseguenza, quelli che hanno la fede vengono benedetti insieme ad Abramo che credette. Quelli invece che si richiamano alle opere della legge, stanno sotto la maledizione, poiché sta scritto: Maledetto chiunque non rimane fedele a tutte le cose scritte nel libro della legge per praticarle. E che nessuno possa giustificarsi davanti a Dio per la legge risulta dal fatto che il giusto vivrà in virtù della fede. Ora la legge non si basa sulla fede; al contrario dice che chi praticherà queste cose, vivrà per esse. Cristo ci ha riscattato dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno, perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede” (Lettera ai Galati 3, 7-14).

Con questa lettera inviata ai Galati appena convertiti alla fede in Cristo, san Paolo, in polemica con certi suoi avversari giudeocristiani giudaizzanti – indicati solo con il pronome indefinito “alcuni”- che erano intervenuti in quella comunità dopo la sua partenza dalla Galazia sostenendo che egli non era un vero apostolo,  confuta indirettamente  la loro errata opinione che non ci sarebbe stata salvezza senza l’osservanza anche della legge mosaica. Per spiegare ai Galati, tentati di tornare nella condizione di minorità in cui si ha bisogno di essere guidati da un pedagogo (la Torah con le sue prescrizioni, o, prima, gli elementi del cosmo e gli idoli pagani) e per convincerli che la salvezza non dipende dalla messa in opera (che, per quanto scrupolosa possa essere, sarà sempre imperfetta) delle numerose e minuziose prescrizioni della legge giudaica, circoncisione compresa, come pretendevano quei predicatori contrari all’universalismo del suo vangelo, san Paolo li rassicura, portando ad esempio la fede di Abramo, che viene “giustificato”, cioè redento, salvato, in quanto si è affidato completamente alla volontà di Jahvé. Abramo è stato dichiarato giusto non perché ha adempiuto alle prescrizioni della legge ma perché ha avuto fede; questo è quanto attesta la Scrittura (cfr. Gen 15, 6), e quindi anche i Galati convertiti all’unico Vangelo saranno giustificati per la loro fede in Gesù Cristo non per le loro opere più o meno conformi alla legge.


Ora, come osserva François Jullien nel suo saggio L’universale e il comune. Il dialogo tra le culture. (Laterza, 2010): “La missione che si prefigge l’apostolo è proprio quella di dimostrare che l’universalità della salvezza divina potrà essere realizzata unicamente soppiantando la legge, che si tratti della legge romana o, ancor prima, di quella del legalismo giudaico, al di là dell’autorità che esse possono avere. ‘Cristo ci ha riscattato dalla maledizione della legge’; questa frase testimonia una svolta nella storia e l’instaurazione di un nuovo regno”. Difatti, così come i Galati (e poi anche tutti gli altri pagani convertiti) devono persuadersi di essere figli di Abramo in virtù della fede e non della carne, chiunque può far parte della innumerevole discendenza che Dio promise ad Abramo, in quanto la fede di Abramo è quella nel Dio che resuscita i morti, nel Dio che chiama all’esistenza le cose che ancora non sono, e quindi nel Dio che supera e può infrangere le stesse leggi della natura. Questa è, secondo san Paolo, la fede del cristiano, che crede nella resurrezione di Cristo e nel Dio che può resuscitare dai morti anche noi peccatori. Questo significa credere in una nuova creazione, attestata dalla sua Parola. Ora, questa promessa salvifica che consiste nel dono gratuito, nella grazia (charis), dello Spirito, è per tutti, anche per i pagani: “In te saranno benedette tutte le genti”. Così attesta la Scrittura interpretata da san Paolo; il quale, “se ricorre a una legge, questa è la legge dello Spirito (nomos pneumatikos) che egli chiama agape, in cui il carattere prescrittivo viene rovesciato dalla gratuità.


‘L’amore è il compimento della legge’ (Rm 13, 10). Per essere più specifici egli sottrae autorità alla legge e pone fine alla sua validità ‘saturandola’ del tutto (in quanto pleroma nomou). Ne deriva una trasformazione ancora più vasta: l’amore dà nome a questa legge anti-legge che non è più né plurale, né testuale e che, sottraendo specificità alle relazioni, rende il comune della condivisione assoluto, vivopoiché la morte si è ritirata nel particolare. L’amore risulta in questo modo vettore di un legame che non è più formale, come nella legge, ma include sin dal principio il destino personale di tutti gli uomini coinvolti fin nella propria intimità. Così, sotto l’unicità dell’Amore, gli uomini assurgono a soggetti universali senza tuttavia risultare, ognuno nella propria specifica apertura, meno unici e singolari – ed è questo l’apporto più grande del cristianesimo, che d’ora in poi si troverà a far incrociare questi contrari”. Non per niente il sacramento del battesimo fa sì che tutti i battezzati “indossino” il medesimo Cristo “Perché voi tutti siete uno solo (eis) in Cristo Gesù”. Tutti i credenti in Cristo appartengono a un unico corpo, e in questo corpo mistico non esiste più differenza tra giudeo e greco, libero e schiavo, maschio e femmina. Una volta battezzati, dunque, i Galati – come tutti coloro che credono nel Risorto – sono diventati proprietà di Cristo, appartengono a lui, e quindi sono, come lui, seme di Abramo a cui è stata fatta la promessa. Una loro conversione al giudaismo sarebbe quindi un regresso dovuto a un’errata concezione della legge. La legge infatti è restrittiva e obbligante: “Mentre da un punto di vista formale comprende tutti i casi possibili, in realtà la legge costringe all’interno dell’univocità propria del vincolo e della coercizione: il suo sistema logico è esclusivamente quello dell’asserzione predicativa, senza possibilità di uscita. San Paolo, invece, alla legge contrappone la grazia, charis: la grazia dà nome esattamente a quanto eccede ogni possibile predicato e, al contrario della legge, avviene senza essere dovuto. Essa eccede di colpo la limitatezza dei legami predefiniti e delle loro cause, alludendo perfino alla loro originaria illegittimità: in questo modo apre all’universale un orizzonte nuovo, ove più nulla è preventivamente stabilito” (Ivi).


 

Questo nuovo orizzonte supera tutti gli orizzonti di questo mondo: “Dov’è il sapiente? dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano  la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1, 20-25). Questa universalità basata non sul logos degli Stoici ma sulla follia della Croce, ha anche come effetto quello di affrancare i credenti nel Cristo crocifisso e risorto da ogni appartenenza particolare, sia essa sociale, linguistica, etnica o religiosa, in quanto obbliga “a superare nel modo più radicale qualsiasi divisione (tra ebrei e greci, tra eletti ed esclusi, maschi e femmine, ecc.) e, infine, costringe ciascuno a vuotarsi di ogni pienezza individualizzante – sia essa d’opinione o di posizione – per accedere alla povertà interiore richiesta dalla fede”, come sottolinea Jullien. Il quale aggiunge, nondimeno, che la Chiesa romana “definendosi ‘cattolica’, e cioè appropriandosi del concetto logico di universale aveva dimostrato come ciò che dal punto di vista storico (empirico) rimane solamente una comunità o una ‘assemblea’ particolare – la ‘chiesa (ecclesia) di chi è battezzato – potesse assegnare a se stessa la missione di esportare ovunque nel mondo (convertendo in modo coatto e incontrando raramente il consenso) la verità assoluta che riconosceva dentro di sé – verità che si colloca a monte di ogni diversità umana poiché si rivolge a tutti e trascende ogni epoca”.

 

Sennonché, questa missione della Chiesa una, santa, cattolica, apostolica e romana  ha fatto sì che, “di fronte alla diversità delle culture o alla resistenza di altri culti e credenze, la propaganda della Fede che la Chiesa, trionfante, ha assunto come suo dovere storico non si sia accontentata di portare il proprio messaggio sempre più lontano ma  lo abbia anche reso deliberatamente inconciliabile con tutto ciò che incontrava sulla sua strada e, dedicandosi alla tenace estirpazione di ogni altro modo di pensare       traccia residua di ‘superstizione’ -, abbia infine rivestito il proprio universalismo dell’esclusivismo che minaccia ogni comune”. Questa l’amara constatazione di François Jullien; che conclude il capitolo sull’universalismo cristiano affermando che: “La vocazione a guidare un’umanità in cammino è stata poi trasferita…dalla Chiesa di Bossuet e dal suo Discorso sulla storia universale …non più a una religione, bensì a un popolo (in Hegel), a una classe (in Marx) o a una civiltà –  la sua, quella ‘occidentale’: sarà quest’ultima che da sola incarnerà il progresso necessario della Ragione e promuoverà lo sviluppo dei valori universali per l’intera umanità”. Ovviamente nelle intenzioni e a fin di bene.

 FULVIO SGUERSO

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