L’ora della verità

L’ORA DELLA VERITÁ

L’ORA DELLA VERITÁ

“La verità è sempre rivoluzionaria”. Lo diceva Antonio Gramsci, ossia il fondatore di quel partito i cui odierni rampolli la sconfessano in nome del dogma dei mercati. Ma è tale se a svelarla non è “la gente”, ieri popolo, oggi social; bensì un membro dell’establishment che, nauseato dalle frasi politically correct, del supino asservimento dell’Italia alle imposizioni di interessi stranieri, osa esprimere la sua opinione, fuori di quel coro che oggi si chiama “pensiero unico”. Se fino a ieri le porte della sua carriera si spalancavano una dopo l’altra per la sua oggettiva intelligenza e competenza, nel momento in cui si dissocia dai mantra e qualifica la realtà senza infingimenti, viene messo immediatamente in freezer e snobbato dai media che contano. 

 


Senza didascalia

Sto naturalmente parlando di Paolo Savona che, dopo aver sfiorato le vette del potere, cade di colpo in disgrazia e viene “abiurato”. Come Galileo. Salvo poi spostarlo in un ministero meno “pericoloso”. E qual è la verità che si è permesso di dichiarare? Che l’euro, più che una moneta, è un sistema di sudditanza dei Paesi dell’eurozona al dominio tedesco; e l’Unione Europea è una gabbia germano-centrica, con Angela Merkel che ha una visione del ruolo tedesco non molto dissimile da quella del nazismo. Con una differenza, aggiungo io: che Hitler seppe sottrarsi ai potenti di sempre uscendo dalla gabbia monetaria di dollaro e sterlina coniando la propria moneta di Stato, pur pagando il consueto prezzo del boicottaggio a base di durissime sanzioni economiche che le cosiddette democrazie occidentali non mancarono di imporgli. La Merkel non ha avuto bisogno di coniare il marco di Stato –prontamente cassato dai vincitori della guerra- poiché le bastò cambiargli nome, da marco ad euro e imporlo a tutta Europa. 

Questa verità è venuta alla luce pochi anni dopo la nascita dell’eurozona; e il sottoscritto, insieme ad uno sparuto drappello di economisti eretici, che gli furono maestri, non s’è stancato di ripeterlo, sin dal 2005. Ma ci voleva che a dirlo fosse un autorevole economista, non tanto finché rimaneva fuori dai giochi, ma all’atto di rientrarvi, bastando anzi la previsione di un suo ingresso nelle sale del potere perché si scatenasse il putiferio.

 

 

Dire la verità su euro e UE, o celarla?

Un putiferio fatto di scenari apocalittici che tutti i “big” dipingono nell’eventualità di un abbandono dell’UE e della sua moneta. Costoro sembrano dimenticare quanto altrettanto apocalittico sia stato per l’Italia l’ingresso (forzato) nell’una e nell’altra. Da quel dì si sono persi quasi 10 punti di Pil, è cresciuto il debito pubblico, si è contratto il lavoro, in quantità e qualità, è raddoppiato il numero di poveri, sono cresciute in modo significativo le disuguaglianze, si è ridotto il livello di welfare; e potrei continuare, ma non farei che ripetere descrizioni ormai sotto gli occhi e a spese di tutti. 

Tutto questo, perché? Perché cambio fisso della moneta e apertura repentina dei confini a uomini e merci hanno giocato in coppia, e a farne le spese è stata in primis la qualità e la quantità del lavoro. Hanno un bel ripetere i banchieri centrali che la loro finalità prima (e a quanto pare unica) è la stabilità dei prezzi. Non la piena occupazione; solo la tenuta a bada dell’inflazione. Talmente a bada che, a furia di austerity per controllarla, siamo caduti in deflazione (apparente, visto che i generi di prima e seconda necessità non fanno che salire: basta guardare le bollette di casa). Ma è luogo comune che il potere d’acquisto, dall’euro in poi, si è dimezzato. Chiedetelo a qualsiasi pensionato ante-euro: £ 1000 = € 1.

Questo disinteresse verso il lavoro, che è il cuore pulsante di una nazione, contraddistingue il mondo bancario e finanziario, visto che esso non è basato sul lavoro, ma sul parassitismo a spese di chi lavora; è però imperdonabile che a condividerlo sia il Capo dello Stato, supremo custode di una Costituzione che al suo primo articolo privilegia proprio il lavoro. Mattarella, affossando il governo ancora in fasce, ha privilegiato i nemici del lavoro, a scapito del diritto al lavoro sancito dalla Costituzione: si è lasciato impressionare dalle Cassandre di banche e finanza, e ha trasmesso questo suo timore all’intera popolazione. Parimenti incomprensibili sono i moniti che partono dal mondo delle stesse imprese, alias “datori di lavoro”, che di lavoro, appunto, dovrebbero vivere (e non di speculazioni borsistiche, come in molti hanno preferito fare). 

 

 

 

Osarono attaccare il male alla radice. Non fu loro consentito

Vogliamo ora entrare nel merito delle promesse del nuovo governo giallo-verde? Flat tax e reddito di cittadinanza sono i due punti salienti. Personalmente trovo che il primo non farebbe che acuire le disuguaglianze, essendo tagliato su misura per i redditi più alti. Circa il secondo, lenirebbe tante sofferenze, ma potrebbe essere un incentivo all’ozio, se non accuratamente mirato: bisogna creare lavoro, non creare giovani pensionati, facili prede di alcool, droghe e altre dipendenze. Non mi esprimo sulla legge Fornero, perché non conosco i parametri pensionistici, ma in base alla logica più elementare mi sembra che, se l’età media cresce –ossia la popolazione invecchia- e salari e stipendi diminuiscono sia di numero che di entità, e cresce di pari passo l’onere dei sussidi di disoccupazione, sia velleitario pretendere di continuare come se la realtà fosse come la vorremmo. Ma, di nuovo, se ci fosse lavoro per tutti, il problema svanirebbe.

Dopo queste scarne considerazioni, qualcuno si chiederà perché biasimo Mattarella e sostengo la candidatura di Salvini e Di Maio. Semplice: perché credo che sia l’inizio di una strada verso la “soluzione finale”: l’affrancamento dal giogo di Bruxelles, dei mercati, delle agenzie di rating. Sia chiaro: se si esce da UE ed euro, ma la lira o chi per essa resterà appannaggio di una Bankitalia privata, le cose non cambieranno, se non forse in peggio, o persino in molto peggio, perché saremmo ancora e sempre ostaggio dei “mercati”.

In sostanza, se la moneta sarà emessa a debito e interessi da Bankitalia, matureremmo un debito in lire verso di essa, in quanto lo Stato continuerà a dover pagare tale moneta con l’emissione di suoi titoli, nuovamente esposti ai ricatti dei mercati, ergo ai giudizi di agenzie di rating americane, colluse con Wall Street e la City. Se invece l’Italia avesse il coraggio (che a Salvini non manca) di ripudiare l’euro e fare come fecero, purtroppo abortivamente, JF Kennedy e, qui da noi, Aldo Moro, il valore della nostra lira non dipenderebbe più dai rating della finanza, ma dalla solidità delle nostre imprese e del nostro commercio estero. Siamo già in colpevole ritardo, con tutte le delocalizzazioni, i fallimenti e la parallela perdita di competenze, l’emigrazione dei nostri “cervelli” migliori, che si sono verificati in questi anni. 

Quello che manca nei discorsi che ci tocca sentire ogni giorno è l’elementare denuncia della logica che impone allo Stato, quasi fosse una formula magica, di emettere titoli del Tesoro per ogni euro che si fa prestare dai mercati, facendo con ciò lievitare, senza prospettiva di riscatto, il famigerato debito pubblico. Senza questo perverso meccanismo, con lo Stato che emette la sua moneta, pubblica, nessuno parlerebbe più né di debito pubblico né di spread. E si smetterebbe di equiparare il bilancio di uno Stato a quello di una famiglia o di un’impresa, come oggi purtroppo si deve fare, avendo trasformato l’Italia in una SpA [VEDI], passibile di fallimento, come un’azienda qualsiasi.

 



Nessuno Stato ha mai ripagato il proprio debito. 

A dimostrazione che non sono SpA

 

 Se l’Italia non fosse caduta nella trappola dell’euro, predisposta da riveriti “geni” come Prodi, Draghi, Ciampi e compagnia cantando, oggi saremmo un degno rivale della Germania, anziché esserne succubi. Così non è stato, ma siamo forse ancora in tempo a riprendere la corsa interrotta. Una corsa che può avere inizio solo con l’insediamento di un governo “populista”. Certo non continuando sulla strada segnata dai governi precedenti, tutti genuflessi davanti ai banchieri e alla finanza internazionale, in nome di un progresso virtuale e un regresso reale.  

In un mio articolo di qualche anno fa evidenziavo come ogni potere che non si basi in via esclusiva sulla forza bruta, si appella inevitabilmente ad un ordine superiore, che fornisca legittimità alla sua posizione di dominio. Re e imperatori si spacciavano, nei tempi più remoti, per esseri divini; poi si appellavano all’investitura divina e, fino al Novecento, alla “grazia di Dio e volontà della nazione”. Infine, subentrata la democrazia, alla sola volontà del popolo, tramite le votazioni. Da qualche decennio, il “garante” non è più il popolo, considerato ondivago e inaffidabile, bensì i mercati, la cui “mano invisibile”godrebbe dell’infallibilità un tempo riservata a Dio. E qualcuno (tedesco, ovviamente) su a Bruxelles s’è lasciato scappare che saranno i mercati (leggi: il terrorismo finanziario) ad insegnarci a votare “giusto”. E se saremo riottosi, c’è qualcuno sul Colle che vede e provvede…

 

  Marco Giacinto Pellifroni   3 giugno 2018

 


 

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