Locale e localistico

Locale e localistico
Da quando mi diverto a scrivere sento usare,
nei miei riguardi, l’attributo di “locale”. 

Locale e localistico  
 Da quando mi diverto a scrivere sento usare, nei miei riguardi, l’attributo di “locale”. Lo si dice di quel che scrivo in forma narrativa, ma anche di saggistica. Alcune volte sono stato definito “cultore”, “esperto” o “appassionato” di faccende locali.

Non mi dispiace affatto. La dimensione locale è quella che conosco. Non ho mai viaggiato molto, non sono un letterato nel senso accademico (e si vede), non faccio un lavoro che possa portarmi fuori, lontano, a conoscere nuovi luoghi o persone diverse.

Fondamentalmente il locale mi piace, come mi piace indossare la stessa giacca, usare la stessa auto, incontrare le stesse persone.


Alcuni, più sprovveduti forse, mi hanno apostrofato come “localistico”. Eh no, qui no, punto i piedi con tutto me stesso e formulo fin da subito il numero dell’avvocato di fiducia per un’adeguata denuncia e relativa richiesta danni. Non sono localista, non lo voglio essere, non mi piace il localismo. Dopo questa protesta, la domanda sorge spontanea: che differenza c’è? Provo a rispondere, più per chiarirlo a me stesso che non ai miei 25 lettori, i quali magari lo potranno insegnare loro, a me.

Il termine locale si può applicare a tutto quel che compete un territorio più o meno determinato: linguaggio, cucina, storia, tradizione, folklore, memoria, consuetudine, usanza, conoscenza, frutta, verdura, bestiame, credenza o superstizione, musica, arte, narrativa, poesia, e forse ancora altri, a cui ognuno può pensare.

Il localismo è un modo di declinare il locale.

Facciamo un esempio. A proposito di cucina locale, potremmo dire che in Val Bormida si mangiano, tradizionalmente, i ravioli, che sono una sorta di fagotto ottenuto con un impasto di farina e uova, ripieno di verdure, formaggio e, in qualche caso, un poco di carne e di uova. Talvolta anche il pesce (in Riviera). Ma non esiste una legge che impedisca di mettere nel raviolo quel che si ha in dispensa: patate, zucca, salsiccia, cavolo… A questo punto sento già fremere fra i lettori chi è pronto a protestare la purezza e l’antichità della ricetta: “Come la faceva nonna”, evidentemente quella vera. Devo deludere questi: nella cucina locale e tradizionale non c’è ricetta vera, c’è invece la ricetta di Maria, o di Luisa, o di Enrichetta, o di Emma. Non è meglio o peggio, non è più o meno buona, ma è così. E quello che accomuna tutte queste ricette e tutte quelle che si fanno per il mondo, è che hanno per principio un fagotto di pasta ripieno di qualcosa, è che assolve a diversi problemi (igienici, economici, di reperibilità degli ingredienti, del gusto locale) partendo da una soluzione (dai ravioli orientali: momo, ai pansotti, agli agnolotti, a quelli arabi: sambusuch), differenziandosi poi nel tempo e adattandosi al luogo ove vengono preparati. Il fagotto è già una porzione, per cui se non si hanno posate è un bel modo per cucinare e servire. Se abbiamo molta pasta e poca carne, allora meglio farli più piccoli. Cotti al vapore se abbiamo poca a acqua e siamo nomadi. Salati se abitiamo vicino al mare. Dolci se ci si trova nel deserto ricco di datteri e fichi secchi.


Il localismo vede nei ravioli la celebrazione di un territorio, di antiche usanze. Ci tiene, il maniaco del locale, a ribadire la purezza di quella ricetta, antica e generata forse dalla stessa terra calpestata dai propri avi, a perdersi nella notte dei tempi.

Il locale è comprendere che è tutto collegato, anzi: legato, tenuto insieme da impulsi e necessità che l’uomo alberga da sempre, sotto ogni cielo: la fame, la sete, il bisogno di non essere soli, di fare un gruppo, di avere figli, di stare in salute, di sentirsi al sicuro, al caldo, di riconoscersi, e riconoscere gli estranei, di pregare e sperare.

Il localismo estrapola un pezzo di territorio (a volte solo un pezzo di terra) e lo isola dal contesto, dal resto del mondo. Il localista scopre, da appassionato di storia locale, che qui, proprio qui ha dormito Napoleone, Garibaldi, Vittorio Emanuele Qualsiasi. Che ha mangiato, dormito e probabilmente si è riprodotto. Che sporgendosi dalla finestra avrebbe decantato la bellezza del paese, la sua salubrità, e il buon carattere delle genti, oneste e lavoratrici.

Il locale, lo storico locale (che deve essere uno storico tout-court, solo più specializzato nella ricerca in un certo ambito) prende nota della presenza dell’illustre, ma vuol sapere perché proprio qui, cosa ci faceva, da dove veniva, dove andava, chi ha incontrato, come quella gente ha vissuto l’incontro con un personaggio.

Il localismo non vede l’ora di celebrare il territorio, semplicemente perché è il suo. È la cosa più importante, per cui si finisce per usare la Storia a vantaggio della celebrazione. Se sono i cavalieri templari quelli che più d’altri risvegliano curiosità morbose, allora nel mio territorio, in qualche modo, ci sono stati i templari, ci devono essere stati. Tutt’al più ci sono dubbi, ma possiamo dire che con una certa sicurezza che…

Per la Storia (che sia o no locale) i Templari sono una materia colossale sulla quale si continua ad indagare. Ma i documenti sono pochi, rari e non sempre chiari. Peraltro sapere che c’era una commenda templare in un nostro paese, attraverso due righe su una pergamena, annuncia solamente la necessità di un grande approfondimento. Lungi il momento degli annunci dei ritrovamenti e delle scoperte, resta il lavoro sporco, di archivio e di scavo, tra polvere, buio, freddo e archivisti recalcitranti, pergamene illeggibili. E chi vuol fare tanta fatica per scoprire poco più di niente?

 

Esiste, infine, anche una narrativa locale e una localistica. Io spero di appartenere alla prima: descrivo e racconto il territorio che conosco, al quale appartengo (bene o male è un altro discorso). Non voglio celebrarlo, vorrei dargli dignità di pari grado con altri territori, a partire dalla consapevolezza di quello che è stato, soprattutto nei tempi più recenti (e negletti, guarda caso, dagli storici localisti): fabbriche, boschi, emigrazione.

La narrativa localistica è quella che tende a celebrare, come detto. Narrazioni che vengono spacciate come verità storica, anzi, si dice talvolta: questa è La Storia. Mentre si tratta di memoria, fonte storica importantissima, ma da trattare con tutti gli strumenti e le precauzioni che un esperto tecnico impiega nel maneggiare il plutonio.

È localistica, infine, quella narrativa che parla di sé. Si dice anche autoreferenziale, in cui l’autore è narratore, fonte, esegeta, revisore di bozze e spesso pure tipografo, rilegatore e purtroppo pure rivenditore. L’ho fatto anch’io, e mi sono pure divertito. Poi, per mia immensa fortuna, sono cresciuto. Vendo sempre la stessa quantità di libri (pochi), ma mi sento meglio.

Il localismo è un attributo proprio dei conservatori, che storicamente vedono il passato come un monumento solido e intoccabile, sacro, puro. Da qui può nascere solo il folklore becero, inventato: le feste medievali con la polenta e i bicchieri di plastica; le ampolle di acqua sorgiva e le camicie verdi; i raduni di uomini duri, puri e “liberi”.

Dal locale nasce la consapevolezza, la responsabilità, l’apertura alla comprensione del nostro posto nel mondo, di quanto questo sia grande e complesso, e di quanto siamo piccini (e pur degni di abitarlo) anche noi. Tutti.

Alessandro Marenco

 

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