Lo sterco del demonio

Lo sterco del demonio

Lo sterco del demonio

 Basta vedere la faccia dei protagonisti dello scandalo che ha travolto i vertici della magistratura italiana per valutare la portata della rivoluzione antropologica che ha investito il Paese e convincersi una volta per tutte di quanto insensato sia il richiamo alle élite che continua ad echeggiare nei salotti e nelle parrocchie rosse. Possiamo tranquillamente mettere in soffitta, o in un loculo, Luigi Pareto e a fargli compagnia il Gramsci degli “intellettuali” e lo pseudoconcetto trasversale delle avanguardie più o meno rivoluzionarie. Sono anche questi, fra i tanti altri, miti novecenteschi travolti dal tempo: non ci sono élite, ci sono solo lobby e, quanto agli intellettuali, vale oggi come in ogni tempo l’assioma aristotelico: gli uomini sono esseri razionali e la ragione non è patrimonio di alcuni piuttosto che di altri. 

 

 

Ma in che cosa è cambiata, e non in meglio, la figura del magistrato?  Sicuramente è cambiato il suo status. Se si accetta – e me ne guardo bene – la concezione piramidale della società, per status s’intende il posto che occupa una funziona sociale, vale a dire il ruolo, su quella piramide. Nell’immagine che ha di sé la società postindustriale, e la nostra in particolare, le posizioni di vertice spettano a quelli che nell’antica Roma sarebbe stato sconveniente frequentare: mimi, gladiatori, liberti arricchiti, matrone di facili costumi; ora sono giocatori di calcio, scrittori di cui non resterà traccia, show men, politici lontani mille miglia dalla politèia ma unti dal Signore di turno, maestri della disinformatia. Rispetto a mezzo secolo fa il magistrato ha scalato parecchie posizioni in quella piramide. Il che, intendiamoci, non significa che vi abbia guadagnato di prestigio: in una società malata, ma direi meglio marcia, vale il detto evangelico: beati gli ultimi.


Chi ha buona memoria  e i collezionisti di vecchi film ricorderanno come si presentava lo stereotipo del giudice negli anni Cinquanta del secolo scorso. Affiancato da un cancelliere scalcinato, burbero ma comprensivo, malvestito sotto una toga un po’ logora. Faceva il paio col politico che a Tokio, dovendo entrare senza scarpe in un tempio buddista, si dové far prestare i calzini da un membro della scorta perché i suoi avevano il calcagno bucato. 

Altri tempi. Non per questo il prestigio e il decoro della magistratura o della politica erano messi a repentaglio. Tutt’altro, perché essi poggiavano nel primo caso sull’imparzialità del giudizio e sull’oculata applicazione della legge, nell’altro sulla vicinanza, anche fisica, con l’elettore, che della politica si fidava e vi si affidava; e l’uno e l’altro, il giudice e il politico, tanto erano investiti di potere decisionale nell’esercizio delle loro funzioni quanto fuori di esse, nella loro quotidianità, nel loro stile di vita, nelle loro abitudini, deposta la toga o lasciati l’aula parlamentare e i palazzi del potere, niente di quel potere si portavano dietro e tornavano ad essere comuni cittadini.

Chiusa alle sue spalle la porta dell’ufficio il giudice rientrava nell’anonimato, scompariva nell’esercito dei dipendenti pubblici, una vita segnata dai concorsi, dai trasferimenti, stipendio modesto ma sicuro, una cultura liceale da custodire e incrementare, buone letture,  gusti borghesi – qualcuno direbbe piccolo-borghesi – un’esistenza ordinata e morigerata.


A dirlo sembra una favola; eppure, testimonianze cinematografiche a parte, ci dovrebbe soccorrere la memoria familiare o personale, almeno per quanto riguarda i miei coetanei ; quando una ristretta e lontana cerchia di “privilegiati” o “fortunati”, ammesso e non concesso che si potessero considerare tali, rampolli di grandi industriali, arricchiti negli anni del boom, parassiti che allignano in ogni regime animavano serate esclusive in un lusso che tendeva a sconfinare nella lussuria, il cui eco arrivava con tonalità diverse nelle case degli operai, attizzando invidia e odio di classe, e in quelle della buona borghesia, suscitando ilarità o riprovazione, a quella cerchia non appartenevano i magistrati più di quanto vi appartenessero i maestri elementari; gente seria, istruita, fiera della propria dignitosa – e relativa – povertà, spesso con qualche nostalgia di un passato ancora troppo vicino. E quelli che fra i magistrati, fosse per merito, per il grembiulino o per lignaggio, avevano raggiunto l’empireo delle corti di appello o della suprema corte portavano in volto il peso e la responsabilità della loro carica e la loro autorevolezza non si misurava con i loro emolumenti.


Cerco di non essere frainteso. Farabutti e psicopatici possono passare da qualunque filtro, ieri come oggi e dietro la compostezza un po’ altezzosa del magistrato giudicante o inquirente si potevano nascondere corruzione, ottusa malvagità, insipienza: l’uomo è una creatura imperfetta e complicata, è intagliato su un legno storto e il senso della sua esistenza dovrebbe essere quello di raddrizzarlo.

Ma io non mi riferisco alla norma o alla media, dati statistici che non possono essere stabiliti arbitrariamente. Mi riferisco al tipo, all’immagine, all’idea che si ha di una funzione sociale o di una professione, a ciò che ha in mente di realizzare chi la intraprende. Se fosse che l’aspirante magistrato ha in mente una carriera assicurata, una vita comoda, lauti stipendi e possibilità di arrotondarli, per non dire dell’opportunità di incutere soggezione al prossimo, c’è solo da augurarsi di stare alla larga da procure e tribunali. 


Dalle intercettazioni – a proposito, non male come boomerang per quanti ne avevano fatto una bandiera e grande imbarazzo per giornaloni e Fatto quotidiano, diventati improvvisamente muti ciechi e sordi – emerge un mondo rozzo e pacchiano di gente che fra un intrallazzo e l’altro ha in testa vacanze in Sardegna, gite in barca e locali esclusivi, ossessionata dalle cene e dalle partite di calcio e anelante a un posto in tribuna, ovviamente senza passare dal botteghino. Ma sento da dritta e da manca risuonare il ritornello: quelle sono mele marce, quella è una minoranza irrisoria, la giustizia è altrove. Sicuramente la giustizia è altrove, lontano dal nostro Paese, perché se nelle posizioni di vertice c’è quella minoranza è ovvio che nel resto le cose non vanno tanto meglio: il pesce, si dice, puzza dalla testa ma questo non vuol dire che la coda profuma. Piuttosto la mia comprensione e la mia umana simpatia vanno alla minoranza, che sicuramente esiste, di quanti nella giustizia e nel loro mestiere ci credono davvero e che probabilmente vorrebbero respirare un’aria un po’ più pulita.

Gli stipendi da fame degli insegnanti sono serviti per creare una nuova borghesia benestante parassitaria e interconnessa: magistrati, politici, accademici. Il risultato di questo misfatto, perpetrato a partire dai primi anni Sessanta dello scorso secolo, è stato il loro incanaglimento. C’è da credere che il denaro sia davvero lo sterco del diavolo.

 Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione

  

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