Lo scaletto dei pescatori delle Fornaci

Il gradino, il pannello e la piastrella
Lo scaletto dei pescatori delle Fornaci

Il gradino, il pannello e la piastrella
Lo scaletto dei pescatori delle Fornaci 

Da fervente seguace della parola scritta, spesso pure logorroica, devo però ammettere che spesso una singola immagine dice più di tanti discorsi, una sequenza di immagini comunica più di articolate spiegazioni.

Vediamo una prova. Lo scaletto dei pescatori delle Fornaci come era nell’inverno 2005-2006  

 
Barche con la neve

E per non dire che bariamo con l’effetto neve, ecco una immagine, per così dire, asciutta.

Scorci sulle famigerate baracche:

Accesso

Prospetiva

Ecco ora come appare lo stesso luogo oggi, dopo il parziale svolgimento dei lavori di “riqualificazione”. Parola, questa, che ogni volta che la sento pronunciare a mo’ di formula magica mi procura brividi nella schiena.

visuale scalini e pensilina
Demolite alcune baracche, rimosse le barche e l’argano, rifatta la cabina di attesa dell’autobus, prima in muratura, ora in struttura trasparente.
L’estetica può piacere o non piacere (personalmente non mi piace), ma non è questo il punto.
 
Il punto vero è di natura sentimentale e molto concreta insieme.
 
Prima di tornare alla parola scritta, ancora due scorci per meglio chiarire.
  

Scorcio con muro bruciato

Notare, in alto a destra, il muro della baracca gelateria curiosamente bruciato questa estate. Si intravedono alcuni blocchi che delimitano la zona di deposito attrezzi. Dai resti si scopre che la baracca con graziosa veranda demolita davanti alla gelateria, (la si vede nella foto con neve poco sopra a destra), era costruita direttamente sul muro antisbarco, cimelio della seconda guerra mondiale. Anche qualsiasi traccia di vegetazione e l’albero preesistente, forse bruciato, sono stati eliminati con schizzinoso orrore. La gelateria pare si volesse assolutamente spostare (perché? Che bisogno ce n’era, è sempre stata lì, a servizio della spiaggia libera, e spostare dove?) ma per il momento grazie alle suppliche degli atterriti proprietari si è salvata, incendio a parte.

  
Scorcio con baracche a sinistra

Notare anche, in questa foto sulla sinistra,  le porte delle baracche superstiti irrimediabilmente murate, per ordine, leggo sul Secolo XIX di qualche giorno fa, dell’Autorità Portuale che non ha rinnovato la concessione in quanto strutture di uso privato e di ostacolo al completamento delle opere di riqualificazione. (E ridagliela! Il brivido nella schiena è ormai degno di un film di vampiri: cos’altro stanno tramando? Si salveranno i Giardini Serenella?)

Bene, anzi male. Da abitante delle Fornaci, intrisa di spirito delle Fornaci fin dalla nascita, ho il cuore gonfio di tristezza.

 

Fortuna che la Milia, Siarin e tanti altri non sono qui a vedere la trasformazione. Fortuna che non è qui mio padre, che da giovane era di casa in qualsiasi baracca, altro che uso privato, e per le sue gite in mare con mia madre, freschi sposi, saliva sul primo gozzetto disponibile e via, con il permesso del proprietario, a patto che la barca non servisse di lì a poco per la pesca.

Tutto cambia? Tutto si trasforma? La nostalgia serve a poco? Dipende.

Dipende quando, come in questo caso, si cancella, lastricandolo, ciò che rimane dello spirito, dell’anima di un quartiere e di una popolazione. E per non avere niente in cambio. Quest’opera qui sopra, ancora incompleta, appare però, in tutto e per tutto, un monumento-simbolo di ciò che si sta facendo di questa sventurata città.

 

Ogni spazio edificabile disponibile, e anche quelli non disponibili, va edificato, a uso e profitto di privati e preferibilmente per edilizia speculativa di lusso. Ciò che “avanza” , e non attiene a questi requisiti, anche solo una piazza, un giardino, lo spazio antistante ad edifici, non si sottrae comunque alle orde della vandalo-riqualificazione.

Il modus operandi, i criteri estetici e architettonici si ripetono: eliminare o drasticamente ridurre ogni traccia di vegetazione, ogni rimanenza di memoria storica e sociale del luogo, perché verde e vecchi muri “fanno sporcizia e disordine”. Piastrellare, cementare, ricoprire. Sottraendo persino (come per dimostrare che per amore dell’arte si è disposti a tutto) qualche prezioso parcheggio. Metterci qualche gradino o gradone a casaccio. Chiamandolo magari, pomposamente, “anfiteatro”, manco fossimo a Taormina.

Qui e là inserire vetrate e pannelli trasparenti, giusto per alleggerire e far vedere che non si è quelli del cemento.

Ignorare esigenze, richieste della popolazione, con qualsiasi scusa, come inutili sentimentalismi o istigazioni a perpetuare il degrado. Un copione che si ripete, tante, troppe volte. Che ne è, per esempio, della proposta di Rifondazione Comunista di ripristinare un piccolo scaletto con un argano nuovo, di rinnovare senza distruggere creando uno spazio per diportisti del quartiere? Ma qui interessano solo i diportisti di lusso, e solo se con cemento residenziale a seguire.

Se è vero, come scritto appunto sul Secolo XIX, che il comitato Amici dello Scaletto (che fra un po’ dovrà trovarsi un altro nome, temo, tipo… amici del lastricato) aveva fatto richiesta di destinare spazi e baracche a museo della storia della pesca, cosa c’azzecca la faccenda dell’uso privato? Non viene il sospetto che si tratti di un pretesto?

Prima considerazione, a proposito di copione che si ripete. Possibile che l’Autorità Portuale a Savona abbia davvero voce in capitolo come autorità, appunto, suprema, unica, inappellabile e assoluta, oserei dire arrogante, su tutto ciò che spazia da Capo Vado alla Margonara, su ogni porzione di territorio costiero, in barba a qualsiasi volontà ed esigenza della popolazione?

Seconda considerazione, anche a beneficio di quelli che difendono il nuovo, il bello, l’artistico, contro il “degrado”. Buttiamola sulle palanche pubbliche, argomento più che mai d’attualità.

Quanto viene a costare, alla cittadinanza, ciascuno di questi interventi di presunto abbellimento, tra progetto, demolizione, nuovo materiale e realizzazione, di solito lunga e sofferta? Quanto si sarebbe potuto risparmiare, affidandosi a progettazione partecipata, proposte conservative, collaborazione di comitati di quartiere, volontari e privati interessati? Qui, come altrove.

E soprattutto, altro confronto, è più utile uno spazio così, freddo, inerte, scostante anche per i turisti e i visitatori, estraneo al contesto, oppure uno spazio vivo, magari anche più rustico ma ricostruito da tutti, che mantiene la memoria storica, e soprattutto tracce dell’uso cui era destinato, o almeno, un utilizzo pubblico e vivo per la comunità?

 

A forza di scuse, di pretesti, di decisioni unilaterali, di motivazioni dubbie o deboli che non si possono mettere in discussione, di dialogo negato o interrotto, un sospetto può venire: che dietro ciascuno di questi interventi ci siano dietro motivazioni private, sì, e anche piuttosto forti, ma non certo quelle di qualche proprietario di baracche o gelaterie.

E se non troviamo il modo, come cittadini, di ribellarci e di chiedere maggior rispetto delle nostre esigenze e richieste, salvaguardia della nostra storia di comunità e delle tradizioni, uso più oculato dei soldi pubblici, continueranno imperterriti a lastricare noi e il nostro futuro.

Milena Debenedetti   06/01/2011

Il mio ultimo romanzo  I Maghi degli Elementi 

 

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