Libertà va cercando ch’è sì cara (Terza parte)

LIBERTA’ VA CERCANDO CH’E’ SI’ CARA III
(Terza parte)

LIBERTA’ VA CERCANDO CH’E’ SI’ CARA
(Terza parte)
Prima parte                                                   Seconda parte

 Se per Hegel la vera libertà è soltanto quella dello Spirito Assoluto che ritorna a se stesso dopo essersi alienato nella natura e nella storia, per Marx, che capovolge la dialettica hegeliana portandola dal cielo alla terra e facendola camminare sulle gambe anziché sulla testa, non si può parlare di libertà per chi è schiavo dei bisogni primari e deve lottare ogni giorno per sopravvivere vendendo la propria forza-lavoro. Il lavoro dovrebbe invece essere realizzazione piena del soggetto e manifestazione di libertà reale; finora, però, non si sono mai create quelle condizioni propizie all’autorealizzazione del lavoratore stesso; è per questo che, per Marx, è necessario il superamento (Aufheben) del lavoro determinato da una necessità esterna o eteronoma (come gli imperativi ipotetici di Kant).


Hegel e Marx

Per comprendere il pensiero di Marx su questo punto cruciale della sua critica alla libertà borghese, bisogna ricordare che egli distingue due tipi di attività: una è determinata dallo scopo, l’altra dall’intenzione. Il primo tipo di attività è strumentale e obbedisce ai criteri di efficienza, di produttività e del profitto: il lavoratore  usa il proprio corpo e la propria mente come mezzi o strumenti al solo fine di produrre merci se svolge la sua attività nel settore primario o secondario, o servizi se lavora nel  terziario. In questo caso il lavoratore si riduce a strumento, a macchina utensile,  alienandosi nel lavoro, come un tempo gli schiavi e i servi della gleba. Il secondo tipo di attività deriva invece dal desiderio e ha come fine unicamente se stessa; non ha, si potrebbe dire, secondi fini, non è un mezzo, uno strumento per ottenere qualcosa fuori di essa (e qui si può scorgere un’analogia con l’imperativo categorico kantiano). Non avendo altri fini fuori di sé, tale attività non ha da obbedire a criteri di efficienza, di produttività e di profitto e può quindi attuarsi a piacimento, in completa autonomia e libertà. Questo potrà avvenire solo in una società liberata dallo sfruttamento capitalistico, senza più classi dominanti e subalterne, in cui ognuno potrà svolgere il lavoro più congeniale, padrone di se stesso, come un artista che segua unicamente la sua ispirazione, infine liberato dai bisogni materiali; questo è il comunismo marxiano, sembra quasi un ritorno al Paradiso Terrestre prima della caduta. Certo è che Marx aveva previsto con precisione il pericolo di un mondo in cui al Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe si fosse sostituito il vitello d’oro del profitto a ogni costo e dell’accumulazione dei capitali in poche mani. Come negare che il lavoro inteso come produttività illimitata di beni, tra cui molti superflui e dannosi per l’ambiente e per la stessa salute degli esseri umani, sta mettendo a rischio (se già non lo ha fatto) l’equilibrio dell’ecosistema?


Per Arthur Schopenhauer, invece, la libertà  non dipende dal fare ma dall’essere, in quanto noi agiamo in conformità a quello che siamo: “Ogni ente agisce seguendo la sua propria natura, e la sua attività rivela appunto quella natura. Ogni uomo opera in conformità con quello che è, e la sua azione, così conforme, viene necessariamente determinata caso per caso solo da motivi particolari. La libertà, che non può essere ritrovata nell’ operari , deve dunque risiedere nell’esse . In tutti i tempi si è commesso l’errore fondamentale di attribuire la necessità all’esse e la libertà all’operari. E’ invece vero il contrario: la libertà risiede soltanto nell’esse  e l’operarideriva necessariamente dall’ esse , e noi  riconosciamo quello che siamo sulla base di ciò che facciamo. Questo è, e non già il presunto liberum arbitrium indifferentiae , il fondamento della responsabilità di cui abbiamo coscienza, e della norma morale della vita. Tutto deriva da ciò che una persona è e ciò che fa deriva da lei come un corollario necessario” (Il mondo come volontà e rappresentazione, II, 25) . Anche per Nietzsche il libero arbitrio è un’ illusione che ci induce a credere di essere noi i soli responsabili delle nostre azioni con tutte le conseguenze che questa assurdità comporta: “Nessuno è responsabile delle proprie azioni, né del proprio essere: giudicare equivale a essere ingiusti. Ciò vale anche quando l’individuo giudica se stesso. La proposizione è chiara come la luce del sole, eppure qui tutti tornano più volentieri nell’ombra e nella vergogna per paura delle conseguenze” (Umano, troppo umano , § 39).


Per Nietzsche la vera libertà consiste nel diventare quello che siamo, nell’amare il proprio destino, nell’amor fati degli stoici, nel volere ciò che è necessario come se fosse liberamente scelto da noi: “Non dire ‘Così fu’, ma ‘Così volli che fosse’ “ (Così parlò Zarathustra, II, 30). Il problema ancora irrisolto e sempre aperto della libertà e dei suoi limiti, quindi della necessità e della possibilità, del rapporto tra gli enti e l’essere e tra gli enti e il nulla è al centro della filosofia dell’esistenza del Novecento. Per Karl Jaspers il naufragio è la figura che definisce lo scacco finale dell’ esistenza, mentre l’essere sfugge a ogni definizione  in quanto Trascendenza che supera infinitamente la possibilità di comprensione umana. L’uomo non sarà mai padrone di se stesso perché è pur sempre “situato” in una determinata realtà nello spazio e nel tempo, non può sfuggire alle “situazioni limite” come il dolore, la responsabilità dei propri atti, il dovere di assumere su di sé la propria colpa e, infine, il dover morire. Queste sono situazioni limite contro le quali gli esseri umani devono arrendersi. Il naufragio, quindi, è un evento insuperabile.


Karl Jaspers

Per l’Heidegger di Essere e tempo l’uomo, definito come “esser-ci” (Da-sein) è l’unico ente in grado di porsi domande, anzi, la domanda fondamentale  sull’essere dell’ente, la Seinfrage. Il Da-sein non  è un ente tra gli altri ma è “l’ente a cui nel suo essere ne va del suo essere stesso” e che, quindi, con la sua domanda mette in questione l’essere. Il Da-sein non è un che cosa ma un chi, un soggetto non un oggetto, il suo modo di essere costitutivo è di “essere nel mondo”, di esistere  e di abitarvi non come una parte nel tutto o come l’acqua nel bicchiere, ma come apertura ad esso (Erschlossenheit)..Il Da-sein è aperto originariamente al mondo nelle modalità esistenziali della “situazione emotiva”, della “comprensione” e del “discorso”. La situazione emotiva mette il Da-sein di fronte al fatto del suo essere-gettato nel mondo, ma la comprensione è progetto o interpretazione (Auslegung) di qualcosa da parte di qualcuno. Il Da-sein gettato nel mondo può scegliere di disperdersi nella banalità quotidiana della chiacchiera che caratterizza l’esistenza inautentica e in progetti insignificanti votati al fallimento oppure prendere atto del destino di essere per la morte. La libertà, dunque, per Heidegger consiste nella decisione anticipatrice dell’evento futuro e ineludibile della morte. La presa d’atto di essere per la morte libera il Da-sein dalla dispersione e dalla banalità dell’esistenza inautentica e lo apre alla “chiamata dell’essere” e alla vera libertà dell’esistenza autentica. La libertà, dunque, non è solo in relazione al tempo ma anche alla verità: “L’essenza della verità si svela come libertà, e questa come il lasciar essere l’e-sistente che svela l’ente. Ogni comportarsi che si tiene aperto si libra nel lasciar essere l’ente, e di volta in volta si comporta in rapporto a questo o a quell’ente” (Dell’essenza della verità, 5).


Jean Paul Sartre

Jean Paul Sartre, dal canto suo, elabora una ontologia fenomenologica dell’essere della coscienza (il “per sé”) come libertà assoluta che dà significato ai dati dell’esperienza vissuta e dell’essere del mondo (l’ “in sé”), come realtà massiva e opaca che costituisce la base e il residuo irriducibile dell’attività intenzionale della coscienza. Anche per Sartre, come per Jaspers, l’uomo, pur essendo “situato” in una determinata realtà, in quel determinato tempo e in quel determinato luogo,  non può sottrarsi alle sue responsabilità, in quanto “ è condannato ad essere libero, condannato perché non si è creato da solo, e pur tuttavia è libero perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa” (L’esistenziolismo è un umanismo). In una dimensione ontologica e metafisica si muove Luigi Pareyson nell’ ultima fase del suo pensiero personalistico e cristiano in cui elabora, riprendendo motivi schellinghiani e kierkegaardiani, una Ontologia della libertà, cioè un discorso sull’essere inteso non più come necessità ineludibile ma come libertà originaria, non più solo, quindi, come essenza primaria dell’essere umano. Questa libertà coessenziale all’essere e all’ente-uomo si manifesta tramite la domanda metafisica fondamentale: “perché c’è qualcosa e non il nulla?”. La libertà è Dio stesso che, in quanto creatività infinita, annienta il non essere e il male che trova in sé, ma che non può fare altrettanto per la condizione umana soggetta al limite della finitudine e quindi alla sofferenza e alla morte. E qui si potrebbe aprire un discorso sulla effettiva onnipotenza e bontà di Dio. Ma per questo problema  mai del tutto risolto, rinvio alla Teodicea di Leibniz

(Fine).

 

  FULVIO SGUERSO 

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