LETTERA DI UN COMPAGNO LIGURE A UN CAMERATA LABRONICO

Prof. Lisorini,
voglio ben sperare che lei non si offenda se la chiamo “camerata” , allo stesso modo nemmeno io mi offendo sentendomi chiamare continuamente “compagno” (sia pure indirettamente, ma essendo anch’io effettivamente un compagno non posso non sentirmi chiamato in causa ogni qual volta  lei  – immagino con  un’espressione di malcelato disprezzo dipinta sul volto – nomina “i compagni” nelle sue puntuali e polemiche  articolesse domenicali su questa medesima rivista online, nelle quali porta avanti la sua propaganda di estrema destra, anti istituzionale e antisistema come se si trattasse di  considerazioni oggettive sull’ attualità politica nazionale e internazionale e dove non nasconde l’ambizione di rimettere il mondo sui suoi cardini scardinati, appunto, dalla brama di potere e di egemonia politico-culturale degli odiati  compagni, senza nemmeno prendersi il disturbo di distinguere tra comunisti, socialisti, socialdemocratici e cattolici “adulti” o di sinistra; evidentemente, per lei, tutti gli antifascisti sono senz’altro compagni.

Suppongo, data l’insistenza maniacale con cui usa questo termine, che abbia letto, oltre a Il compagno di Cesare Pavese e I vecchi compagni di Carlo Cassola, anche L’ultimo compagno , la biografia di Emanuele Macaluso scritta dal giornalista Concetto Vecchio, non fosse che a titolo di documentazione. Quanto alla tesi cara ai neofascisti che è assurdo parlare di antifascismo in assenza di fascismo, la rinvio ancora  a Umberto Eco e al suo volumetto su Il fascismo eterno.  Ma, prima di entrare nel vivo della questione, fermiamoci un momento a esaminare il significato preciso dei due appellativi contrapposti nell’ ormai secolare polemica fra una destra conservatrice, nazionalista e illiberale  e una sinistra progressista, transnazionale e democratica . Cominciamo dal significato del termine “camerata” (sost. m. e f.): 1 Compagno d’armi, di studio, di sodalizio o di collegio. 2. Appellativo in uso tra i militanti del Partito nazionale fascista italiano e successivamente tra gli appartenenti a gruppi di estrema destra. Dallo spagnolo ‘camarada’ (Sabatini-Coletti). Il termine “compagno” rinvia al gesto di dividere il pane con qualcuno, derivando dal latino medievale companio,  da cum-panis. Nella tradizione socialista, comunista e anarchica viene definito compagno una persona che tende a realizzarsi attraverso un progetto  solidaristico e collettivo.. Per Jean-Paul Sartre  ci si può definire compagni solo se si ha un progetto comune da realizzare insieme.

Ernesto Che Guevara, nella lettera alla signorina Maria Rosario Guevara, ha scritto: “Non credo che siamo parenti stretti, ma se lei è capace di tremare di indignazione ogni volta che viene commessa un’ingiustizia nel mondo, allora siamo compagni, il che è ancora più importante”. Naturalmente i due appellativi si colorano emotivamente di valore positivo o negativo a seconda dell’ideologia, della storia personale, dell’esperienza di vita, della cultura e, insomma, della personalità di chi li pronuncia. Già, ma un conto è la passione ideologica e politica un altro la validità delle argomentazioni sulle quali si regge. Certo è che nella storia, nella politica e, in generale,  nelle contese tra singole persone,  “la ragione e il  torto non si dividono mai con un taglio così netto che ogni parte abbia soltanto dell’una, o dell’altro” , osserva il Manzoni tratteggiando il profilo personologico di don Abbondio (e di don Abbondi è pieno il mondo). Ma quando si è messi alle strette, come in caso di guerra o di crisi economica o di carestia o di pandemia,   non c’è argomento più valido di quello del più forte,  come sosteneva il sofista Trasimaco a proposito della giustizia nel primo libro della Repubblica platonica.

Ma noi sappiamo (o dovremmo sapere) che la ragione della forza non coincide con la forza della ragione e che l’opinione  più diffusa non per questo è anche vera: la verità, come la giustizia, non si decide a maggioranza; ce lo ha insegnato Socrate, una volta per sempre, a costo della vita; come un altro, dopo di lui,  che è stato crocifisso  perché solo le parole di chi è disposto a mettere in gioco la propria vita per amore della verità (“Io sono la via, la verità e la vita) sono assolutamente credibili. Bene, chiarita la questione terminologica, passo all’ormai annosa polemica che ci vede attori protagonisti su queste stesse pagine di “Trucioli savonesi”. Tanto per cominciare, le confesso che, per me, la sua personalità è un enigma vivente, e le spiego perché: mi sono chiesto spesso, e continuo a chiedermi, come può un docente emerito di filosofia come lei, per di più livornese, simpatizzare per movimenti dichiaratamente neofascisti come CasaPound e Forza Nuova? E mi chiedo anche se queste sue posizioni politiche di estrema destra (non per altro ma per evitare problemi con i colleghi e con gli studenti) le abbia tenute nascoste per tutta la durata della sua lunga carriera di docente o, all’occasione, le abbia mai esplicitate a scuola e fuori dalla scuola, e, in questo caso, con quali conseguenze?

Per carità, grazie alla guerra di Liberazione dal nazifascismo, da lei spesso e volentieri vilipesa, viviamo in una Repubblica democratica e, per alcuni (quorum ego) fin troppo tollerante con i cosiddetti “nostalgici” o apologeti del fascismo per i quali “Mussolini ha fatto anche cose buone”, perché non mi pare onesto né intellettualmente né eticamente, usufruire dei diritti fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione antifascista (sulla quale lei non perde occasione di ironizzare, anche scrivendola con la ‘c’ minuscola) per sputare sulla medesima. Altra questione: lei non perde nemmeno mai l’occasione per  ironizzare (eufemismo) anche sul  Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per il fatto che non ha sciolto le Camere  e indetto elezioni anticipate pur nella  situazione di crisi non solo politica, ma sanitaria ed economica in cui  ancora ci troviamo, e ora vedo che, alla stregua di un qualunque barricadero alla Di Battista, se la prende anche con il Presidente del Consiglio Mario Draghi dopo aver costantemente satireggiato (altro eufemismo) sul “cicisbeo” Giuseppi Conte. Sia chiaro: neanche a me piace essere governato da un banchiere, però mi chiedo chi altri, nella situazione in cui ci troviamo, abbia qualche chance in più per farci uscire da questa stretta: Salvini? La Meloni? Paragone? Grillo? Ma per piacere (direbbe Totò)!

Trasimaco

Che la situazione sia grave nessuno  che abbia la testa sul collo lo nega, ed è anche evidente che ormai da anni viviamo in uno stato di emergenza democratica in cui il Parlamento svolge ormai solo la funzione notarile di ratificare i decreti governativi; ma che fine hanno fatto i vecchi partiti della cosiddetta prima Repubbloca? E dove sono i nuovi  statisti degni di Einaudi, di De Gasperi, di Togliatti, di Moro, di Pertini, di Berlinguer, di Lombardi (Riccardo)? L’attuale classe politica italiana nel suo complesso è all’altezza delle sfide epocali dei nuovi tempi? Non mi pare proprio. Di qui la necessità di governi formati  più da tecnici che da politici (almeno nelle intenzioni), governi il cui tasso di democraticità è misurato più dal consenso parlamentare che da quello popolare, e, se ora aggiungiamo l’emergenza sanitaria alle altre emergenze si capisce come e perché alcuni intellettuali abbiano lanciato un grido di allarme sulle sorti del nostro già abbastanza malmesso sistema liberaldemocratico. Malgrado ciò, questo non è tempo di dispute sui massimi sistemi, ora è tempo di rimboccarsi le maniche, mettendo da parte gli interessi di partito o di categoria e collaborare tutti per il bene comune della salute pubblica. Per questo motivo, camerata Lisorini, trovo che le sue polemiche antigovernative e antisistema siano adesso fuori luogo e persino antipatriottiche. Quanto al resto che rimane in sospeso e mai chiarito riguardo alle sue mancate risposte a mie precise domande, come, ad esempio, di fare il nome di almeno uno di quegli, secondo lei, sprovveduti cialtroni “messi dal partito dietro una cattedra universitaria” ai quali allude senza nominarli nel suo articolo “Prove tecniche di dittatura”,  e al suo  silenzio sui motivi di certe sue incomprensibili omissioni nel suo volume Tra scepsi e mathesis (tra l’altro non corredato da un indice dei nomi e da una bibliografia ragionata, come sarebbe di prassi per chi è del mestiere), mi riferisco alla questione della schiavitù in Aristotele,  allo Scetticismo antico, alla morte di Dio in Nietzsche, al suo impiego del termine “paradigma” omettendo di citare l’opera di Thomas Kuhn sulla Struttura delle rivoluzioni scientifiche , per limitarmi alle più vistose. Forse verranno tempi migliori o forse no, ma  non voglio aggiungere altro, se non che questa lettera non l’avrei mai scritta se lei non avesse eluso molte mie circostanziate ma, a quanto pare, scomode domande.
Il compagno

FULVIO SGUERSO

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