Le origini del degrado: edilizia.

Lo vediamo, basta guardarci intorno, Savona è ridotta piuttosto male. E quel senso di incuria, di sfascio, di indifferenza, propizia altro degrado, in una sorta di spirale che si avvita verso il basso. Più che la teoria delle finestre rotte, ricorda quella dello sconforto.
È un meccanismo al ribasso che ha tante origini. Più che all’amministrazione precedente e a quella prima ancora e prima ancora (ciascuna ha le sue colpe e negligenze e soprattutto mancanza di visione), occorre rifarsi inizialmente alle radici di tutto.

Palazzo in via Cavour

Dal dopoguerra a oggi, dagli anni ’50-’60 in poi, la febbrile necessità del boom ha prodotto una speculazione edilizia che non ha contributo certo a migliorare la città. Si è costruito tanto, disordinatamente, spesso senza qualità né pianificazione. Ma anche i palazzi che avrebbero avuto maggiori ambizioni, a volte sono di una bruttezza desolante.
Non è una peculiarità savonese, certo. Un po’ dappertutto è stato così. Il famigerato brutalismo, mal interpretato da geometri ambiziosi, ha eretto muri e ostruito visuali, ha infarcito e rimpinzato di cemento.
Lo sappiamo: le mode, gli stili, siano artistici, architettonici o di abbigliamento, mostrano il loro valore nel tempo. Se ciò che è bello e utile e intelligente ci appare tale anche dopo anni, supera la prova. Se ciò che suscitava dubbi in partenza, li reitera nel tempo, la condanna è evidente.
Guardatevi, che so, il palazzone atroce che ostruisce via Cavour. Avrebbe avuto ambizioni, non era certo casa popolare. Eppure è brutto e soffocante.
Poi il cemento sul lungomare, che da piano regolatore avrebbe dovuto essere un unico giardino. I palazzi nuovi affiancati ai vecchi, nei quartieri, dove praticamente le facciate sono appiccicate e le finestre non vedono la luce. Chi, a suo tempo, l’ha permesso?
C’è stato qualche anno di resipiscenza. Quelli, fine ’60 inizio ’70, in cui si decise che ogni nuovo isolato dovesse avere il suo giardino. Così abbiamo piccole, graziose e preziose isole di verde nei dintorni di corso Tardy e Benech, che ci mostrano come avrebbe dovuto essere.
A parte che almeno in una di esse mi risulta che dei condòmini vecchi dentro e fuori, e tignosi, vogliano abbattere due sanissimi pini, esaltati dalla strage dei pini del corso e del magnifico e rimpianto pino sul terrapieno oltre la stazione, fra il corso e via Pirandello. Il cattivo esempio propizia mostri.

Corso Tardy&Benech

Il che ci riporta al concetto che li amministratori qualcuno li elegge, e ai problemi insiti nella democrazia stessa. Ma transeat.
Ci fu poi un momento di crisi edilizia. Niente gru, scavi e ponteggi.
Poi la stagione della grande speculazione riprese alla grande, a partire dalle discusse torri Ammiraglie.
E già lì verde e spazi intorno iniziarono a essere soprattutto due dita di terra con qualche siepe sopra park interrati. Ma si fecero almeno giardini vicino.
Poi venne la Darsena, che aveva iniziato a sviluppare una sua interessante economia basata sulla valorizzazione dell’esistente, il recupero, i locali per bevande e ristorazione. Creando un clima caldo e accogliente, simile a certe località della Costa Azzurra.
Questo è anche il periodo della deindustrializzazione di Savona e dintorni. Il che certamente ha influito sull’economia e sull’impoverimento generale, cui si è cercato di ovviare con crescita di commerciale e servizi e turismo, con dubbi risultati. Forse anche per scarsa indole locale e pianificazione sbagliata.

Ammiraglie

Perché ad esempio disseminare la città di enormi centri commerciali va oltre la concorrenza e ben oltre la vivibilità. Spingere all’acquisto compulsivo di merci spesso di scarso valore, affollandosi in parcheggi e dedicandovi i giorni festivi e prefestivi, non è la soluzione, ma propizia altri impoverimenti, perdita di varietà e competenza in favore di omologazione verso il basso, desertificazione e alienazione dei quartieri e persino, alla lunga, del centro.
E ancor più alla lunga questa strategia si ritorce su se stessa, ha il fiato corto. Sappiamo che negli USA, più avanti di noi, i megamall chiudono uno dopo l’altro.
Eppure, da lì in poi, diciamo a partire dalle amministrazioni Ruggeri, si è iniziata una nuova brutta china. Con un gigantismo della sterile speculazione edilizia.
In Darsena, dicevo. Torre Orsero e Crescent hanno invaso gli spazi, contribuito a dare un senso di alienazione urbana che ha incrinato l’atmosfera preesistente. Tutto all’insegna della massima cementificazione possibile, variante su variante. Con gli oneri di urbanizzazione e le contropartite pubbliche che poco alla volta scemano, si fanno risibili, si dilazionano nel tempo fino a ridursi a topolini. Mentre i danni e i costi maggiori per la collettività che i nuovi insediamenti creano, si mantengono.

Torre Orsero e Crescent

Niente anfiteatro sul mare, anzi, il porto è costretto a spostarsi e recuperare aree sotto il Priamar, per liberare il teatro del cemento, il vero teatro che conta.
Lastricati anziché verde. Per tacere del pietoso giardinetto, quasi un recinto asfittico, ricavato in extremis. Grandi spazi interrati per park auto, aiuolette risibili.
È questo il nocciolo. Al di là dei volumi, al di là dello stile che può piacere o non piacere, ciò che conta è chiedersi quale sia il valore aggiunto per il pubblico. Zero o quasi.
Potrei citare, tanto per fare un altro esempio di alienazione priva di significato e di utilità pubblica, il Matitino. Con le sue enormi vetrine vuote e polverose, occupate eventualmente da associazioni ma certo non da vivibili e vissuti spazi commerciali. Il suo bravo lastricato e giardinetto spelato sopra i box. Dequalificato e dequalificante, fuori contesto.
Ma anche, andando nel già problematico quartiere di Villapiana, il recupero dell’ex fabbrica Scarpa e Magnano. Non sarebbe stata più utile una programmazione ragionevole e una miglior gestione degli spazi, in un quartiere già così denso? E invece no: case su case e casermoni, un altro edificio per l’Agenzia delle Entrate, uno per il Consultorio e ovviamente, al netto dell’onnipresente lastricato che fa tanto DeChirico, una pietosità spelacchiata e striminzita detta giardini di via Verdi, assediata da auto sfreccianti. Una tristezza per i bimbi e quasi un invito per i vandali.

L’Agenzia delle Entrate a Villapiana

Non dimenticando le grigie ziggurat di corso Ricci, col muraglione di mattoni in stile carcere di massima sicurezza.
Ora altri spazi attendono, altro degrado si coltiva pazientemente, e solo la crisi ha impedito il via libera, con benevola concessione di sempre più volumi per mantenere guadagni in un mercato che soffre, e sempre meno contropartite pubbliche. Senza differenze nel colore di chi amministra.
Prima fra tutti la “monetizzazione” degli oneri. Ottimo escamotage attuale.
Savona non può ricevere questo colpo di grazia. C’è bisogno di uno stop e di una inversione di tendenza. Siamo, saremmo ancora in tempo. Basterebbe poco. Proviamo a ricordare qualche idea.

Il Matitino

– i diritti edilizi non sono per sempre. Prima o poi, se non costruisci, ti obbligo a dare un minimo di dignità ai luoghi, altro che puntare sul degrado per ottenere. Ed esistono anche, guarda un po’, gli espropri. La proprietà privata è sacra nella misura in cui non confligge pesantemente col bene pubblico. Il decoro, un minimo di decoro, è un bene superiore.

– le varianti non sono automatiche. Non è che “prima o poi”, si devono dare. Si possono anche negare per sempre. Si programma, a monte, con serietà e lungimiranza, e si cerca di mantenere la programmazione sulla base delle esigenze abitative e della gestione degli spazi. Non è che il privato chiede e il pubblico si adatta. Semmai il viceversa.

– se sono previsti oneri, se si richiede del verde, dell’autentico verde tipo alberi, una quota di parcheggi pubblici, una quota di edilizia popolare, non si monetizza un accidente: si ottempera. E questo deve essere contestuale alla costruzione, non posticipato o negoziabile in attesa che venga dimenticato.

– oltre alla pianificazione urbana, anche il bene comune deve essere al primo posto. Sempre. Gli enti pubblici devono tutelarlo, non essere dei passacarte, il ventre molle della speculazione.

– la rigenerazione urbana è importante. Non parliamo di riqualificazione, termine con cui si fanno digerire gli scempi, ma proprio di recupero intelligente, ristrutturazione di spazi e luoghi. Ognuno deve avere un vantaggio, pubblico e magari anche privati, accontentandosi di guadagni ragionevoli e non di avida speculazione senza regole.

Forse alcuni di questi punti saranno ostacolati, o quanto meno non particolarmente favoriti dalle leggi vigenti. Ma non ci credo proprio, come si vorrebbe far credere, che gli enti pubblici siano impotenti, costretti a ottemperare, passivi esecutori. Né credo che gli striminziti oneri siano fondamentali per il bilancio cittadino. Quando tappi un forellino per aprire una voragine.

No, proprio questo no. Nessun alibi. È solo che fa comodo così, per tutta una serie di motivi e per l’andazzo consolidato.

Milena Debenedetti

PUBBLICITA’

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.