Le mie madeleines

Le mie madeleines
S’era di gennaio. Non avevo più di dieci anni. La casa era quella della ferrovia: un appartamento ricavato nello stesso edificio della sottostazione elettrica di trasformazione

Le mie madeleines

S’era di gennaio. Non avevo più di dieci anni. La casa era quella della ferrovia: un appartamento ricavato nello stesso edificio della sottostazione elettrica di trasformazione. Nella casa che abitavo entravano da un lato grossi cavi di rame che nell’aria umida del vento di mare ronzavano come gatti felici. E dall’altra parte uscivano altri cavi, altrettanto grossi, connessi alla linea dell’alimentazione dei treni.

Non c’era comunicazione tra la zona residenziale e la centrale di trasformazione, ci mancherebbe… Anche se erano tempi un po’ approssimativi, su certe cose non si transigeva. Ma i trasformatori erano raffreddati con olio minerale, qualche piccola perdita c’era sempre, e quell’olio filtrava (almeno il sentore) attraverso non so quali fessure.


 E poi l’odore di ferrovia era dappertutto: a cinque metri dal muro esterno passava la via ferrata. Tutti nel casamento lavoravano nelle ferrovie: chi ai lavori, chi viaggiante, chi in stazione. Ma ognuno si portava a casa quell’odore, che oggi le ferrovie non hanno più (per fortuna): traversine bruciate, olio, limatura di ferro, sapone in scaglie della provvida amministrazione statale, cartone e timbri.

Per un certo periodo la ferrovia forniva agli abitanti dei suoi appartamenti, anche la corrente sufficiente ad illuminare le abitazioni. Una lampadina, un frigo e un tv. Di quelle tv grosse, con lo schermo arrotondato, più simile ad un occhio che a un monitor odierno. Naturalmente in bianco e nero, naturalmente con un solo canale. E infatti non c’era bisogno del telecomando: la tv poteva essere accesa o spenta. Limitando la scelta, si limitava anche l’ingombro tecnologico o le discussioni sul cosa guardare.

Essendo la tensione derivata dalla ferrovia, si poteva assistere ad un fenomeno inconsueto: quando il merci (due motrici in testa e due in coda, stracarico di bobine di acciaio per la FIAT) affrontava la salita assai impegnativa proprio di fronte a casa, l’assorbimento di corrente era tale per cui prima si spegneva la tv, poi la luce diventava sempre più fioca, fino a sparire del tutto. Fio! In quel momento cadeva il silenzio. Mia madre al lavello restava con il bicchiere sgocciolante in mano; mia nonna sospendeva il giro di catenella a maglia, impiegando il tempo in un rapido “Salve Regina”; mio fratello alzava lo sguardo dai libri del ripasso; io dai miei disegni; mio padre dal telegiornale. Il gatto non saprei, ma sicuramente dopo un rapido colpo d’occhio, sarà tornato sprofondato nel suo sonno, da accumulare in fretta, prima di essere espulso dalla cucina, per la notte.

       

Nel tempo di una preghiera il treno raggiungeva la sommità, la luce tornava e tutto riprendeva come se non fosse successo niente.

Più bello di tutto quando nevicava. Ne veniva. Ne veniva tanta, come tutti i miei coetanei (e più) ricordano. Ne veniva così tanta che mancava la luce. E questo a me piaceva già abbastanza. Poi mi piaceva la candela accesa, sul tavolo. E poi mi piaceva quando tornava mio padre dal lavoro, che portava in casa la lampada ad acetilene. Volgarmente detta: la citilena. Nel serbatoio inferiore si mette il carburo di calcio, in quello superiore l’acqua. Un piccolo rubinetto regola la reazione che produce il gas infiammabile e dalla chiarissima luce. Mio padre raccontava ogni volta che da ragazzo, il carburo lo usavano per pescare. “Chi?” chiedevo ansioso. “Tutti, chiunque volesse pescare. Si metteva il carburo nelle bottiglie della gassosa con la biglia, si lanciava la bottiglia in acqua, il gas che si produceva faceva prima risalire la biglia e poi esplodere la bottiglia”.

Che tempi meravigliosi, pensavo, in cui ognuno può far saltare in aria qualcosa senza permesso, e doveva esserci dovizia di pesci ed uccelli e altre prede…

A cena, una di quelle sere senza luce, c’erano cipolle bollite. Come ogni bravo bimbo di quell’età avevo cominciato da subito a far capricci: cipolle bollite? A me? Ma uffa!

 

Mio padre la sapeva lunga sui processi pedagogici, anche se aveva solo la quinta elementare. Mi mise nel piatto un paio di cipolle bollite e un uovo sodo, sgusciato e spiccato in quattro parti. Versò l’olio. Tutto mentre mi spiegava che quel mangiare era un mangiare degli antichi, che un tempo si usava mangiare così nei giorni di festa. E poi se uno non ha voglia di mangiare non mangia e basta, senza fare tanti capricci. E poi le cose bisogna provarle prima di giudicarle, perché a lui, ad esempio, le cipolle bollite piacevano.

Il bimbo assaggiò, con un po’ di magone, e un po’ di contrarietà. Ma dovette riconoscere che sì, erano proprio buone. Ma buone buone, non per convenzione, o per circostanza, o per non deludere i presenti. I grandi ridevano tutti, ora. Pareva buffo quel bimbetto impegnato a illustrarsi da solo quanto fossero buone le cipolle bollite con le uova sode.

Ancora oggi, mi capita, vado alla ricerca di quel gusto. Le cipolle son sempre le stesse, più o meno. Come le uova, o l’olio. Ma qualcosa non torna.

Forse manca il buio, e la neve altissima fuori. Manca l’odore del carburo e la fiamma bianca della citilena. Più che altro manca quel contadino diventato ferroviere, che tornava a casa tutte le sere, silenzioso, tranquillo, che ha insegnato a me e a mio fratello molte cose, consapevolmente o inconsapevolmente. La più importante è, io credo, che bisogna sforzarsi di ragionare, e di non usare mai sui propri figli la violenza, fisica o verbale.

Credo sia un buon modo di ricordarlo per la festa del papà.

Alessandro Marenco

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