Le culture politiche in Italia

Le culture politiche in Italia. Trasformismo “detrito perenne” della storia d’ Italia

Le culture politiche in Italia.
Trasformismo “detrito perenne” della storia d’ Italia
 
 

Nella biografia di Giovanni Giolitti, Nino Valeri rigetta l’idea di equiparare il trasformismo a un «opportunismo spicciolo» e rimarca come abbia rappresentato semmai «l’inizio del rinsanguamento della troppo esigua e chiusa classe dirigente e il suo progressivo adeguarsi alle mobili necessità della realtà contemporanea». Lo storico si sofferma sullo slittamento semantico del termine, che richiamava originariamente in senso evoluzionistico la «trasformazione» del quadro politico, salvo divenire sinonimo di politica senza principi. 

La patria di Fregoli 

È una sorte paragonabile al coevo «opportunismo», calco della parola francese con cui venne indicata la politica di Léon Gambetta e Jules Ferry (con riferimento alla capacità di cogliere l’«opportunità»). Ma se «opportunismo» è divenuto termine universale, in primis nel vocabolario politico del movimento operaio, quella del trasformismo è invece rimasta categoria essenzialmente italiana, assunta a più riprese come chiave di lettura dell’incera storia politica unitaria, se non come tratto distintivo del carattere nazionale, tra il cinismo e «l’arte di arrangiarsi». 

Del resto – chiosa Valeri – italiano era anche il più grande dei trasformisti, il livornese Leopoldo Fregoli, e il suo successo nel mondo contribuì a dare a quel termine la connotazione del «mutar casacca con grande disinvoltura». In generale, molte sono state le figure politiche e intellettuali a individuare nel trasformismo il «detrito perenne» della storia italiana, dal prologo cavouriano del Connubio in poi, passando per Crispi, Giolitti e persino Mussolini. 

“Autoritari fino al midollo” 

Per Denis Mack Smith, quella di Agostino Depretis, e poi dei suoi epigoni, «non era che la razionalizzazione della prassi di Cavour», nella combinazione tra isolamento delle estreme, abilità nell’assimilazione dei gruppi politici altrui e ricorso alle dimissioni come viatico per bloccare gli attacchi avversari e riplasmare le coalizioni. Prassi consolidare dalla struttura parlamentare, e dalla natura stessa degli italiani, in un susseguirsi di «dittature personali».

Nell’articolo “Una lunga tradizione di compromesso storico” (“Le Monde”, 22 giugno 1976), lo storico britannico argomenta come la formula trasformistica sia il «modello della vita politica italiana», successivamente riproposto da Mussolini, che se ne servì come «mezza per dividere e convogliare una parte del!’ opposizione liberale verso il fascismo», ma anche applicabile, in età repubblicana, al centrosinistra e alle proposte di «compromesso storico». Alla base di questa costante storica, anche elementi del carattere nazionale: Mack Smith cita Giustino Fortunato, grande figura di liberale e capostipite del Meridionalismo italiano, secondo il quale gli italiani, «autoritari fino al midollo delle ossa», hanno «per tradizione, abitudine ed educazione» la tendenza «sia a comandare troppo che a troppo ubbidire». 

Quell’articolo innescò un polemico confronto storiografico con Giovanni Spadolini, che negava che il trasformismo potesse essere assunto come criterio interpretativo di tutte le vicende post-risorgimentali, e connotava quello di Depretis come una «confessione malinconica» della mancanza di alternative politiche, come soluzione necessaria di fronte a due potenziali opposizioni di massa, quella cattolica e quella mazziniana e socialista. Quanto ai governi della “Prima repubblica”, pur non vigendo il sistema dell’alternanza, Spadolini non li ritiene classificabili sotto la categoria del trasformismo, forma dello «Stato liberale minoritario», non riproponibile nella «democrazia di massa». 

Dittatori parlamentari 

Il giurista Giuseppe Maranini (“Storia del potere in Italia 1848-1967”) ha invece inquadrato l’esperienza trasformista in termini istituzionali, argomentando come il «regime pseudo-parlamentare» che contraddistingueva l’Italia liberale collocasse il potere in una regione ambigua e incerta. Teoricamente era la Camera dei deputati a imperniare la propria supremazia sulla pretesa rappresentanza del corpo elettorale; ma materialmente questo primato era appannaggio dell’esecutivo, in costante tenzone col potere regio. Proprio per contenere quest’ultimo e le sue pervasive prerogative in materia diplomatica e militare, nonché sulla composizione e l’autonomia del Senato, i leader di governo furono via via costretti a costruire amplissime maggioranze personali, per un verso premendo sul corpo elettorale attraverso i prefetti e i notabilati locali, e per l’altro letteralmente comprando il consenso in aula, deputato su deputato. 

Per Maranini il regime risorgimentale e liberale si configurò per questo motivo come una successione di dittature parlamentari. Pur non rinnegando il principio rappresentativo e le libertà fondamentali, esse fecero un uso spregiudicato e senza contrappesi «dei pieni poteri; dei decreti legge, degli stati d’assedio, delle misure arbitrarie di polizia, degli scioglimenti e delle infornate, delle proroghe del parlamento». Sino a far dire di Depretis al sociologo conservatore Vilfredo Pareto: «Spirito scettico, incurante di principi e convinzioni; con pochi scrupoli per la verità [. .. ] pronto a seguire tutte le vie che gli assicurassero la maggioranza, salvo a mutar completamente rotta non appena il vento mutava direzione, egli esercitò durante gli ultimi anni della sua vita la dittatura più assoluta che sia possibile in uno Stato a regime parlamentare».

Accostabile alle argomentazioni di Maranini è anche Roberto Vivarelli (“Storia delle origini del fascismo”), allievo di Federico Chabod e di Gaetano Salvemini, che legge il trasformismo come peculiare forma di equilibrio tra esecutivo, legislativo e pubblica amministrazione: garantendosi un’ampia maggioranza parlamentare, anche a costo di un pesante pegno pagato al consenso dei singoli deputati e delle loro clientele, il governo riusciva a porre sotto controllo una burocrazia che era andata acquisendo poteri esorbitanti. 

Connubio a debito 

Come abbiamo ricordato su queste pagine (“Primogenitura cavouriana del trasformismo”, settembre 2018), il Connubio tra Cavour e il “centro-sinistra” di Urbano Rattazzi rappresentò il primo esempio di grande coalizione che raccogliesse le componenti moderate degli opposti schieramenti, marginalizzando le estreme. Un’operazione che Rosario Romeo ha definito «Risoluzione centrista» per la convergenza di ampi settori della sinistra sulle istanze liberal-moderate dello schieramento cavouriano, la cui occasione storia fu il colpo di Stato in Francia i Luigi Bonaparte. Un Piemonte stretto a tenaglia tra Parigi e Vienna difese, con quella formula, lo svolgimento in senso riformatore dello Statuto albertino, bloccando possibili tornanti reazionari anche a Torino. Inoltre, come ricorda Giorgio Candelora, il Connubio rappresentò un preciso segnale anche in politica estera: l’alleanza di Cavour con i fautori della ripresa della guerra contro l’Austria significava ripresa della lotta per l’indipendenza e, più in generale, un tassello decisivo nella strategia politica di alleanza tra monarchia sabauda e movimento liberale nazionale. 

A ciò vanno poi aggiunti altri elementi di carattere progressivo, a cominciare dall’allargamento della classe dirigente sabauda prima e italiana poi, sia dal punto di vista sociale (nell’unità tra la parte più attiva della vecchia nobiltà e la borghesia agraria, mercantile e professionistica) che da quello geografico, con l’avvicinamento ai capi delle province di nuovo acquisto. Come ricorda ancora Mack Smith (“Il risorgimento italiano. Storia e testi”), si trattò dell’ancoraggio che rese possibile una coraggiosa e spregiudicata politica nazionale, perseguita anche accumulando «un enorme deficit finanziario, facendo debiti con l’estero e spendendo regolarmente circa un terzo in più delle entrate dello Stato, nel tentativo di preparare il Piemonte ad assumere la guida del prossimo e decisivo atto del movimento nazionale». Anche in questa chiave “spesista”, anticipatrice del trasformismo depretino e del ricorso alla «finanza allegra» incarnata da Agostino Magliani. 

La condizione cli Depretis – ricorda Sergio Romano – era invece quella di consolidare la legittimità del potere e allargare la base sociale della nazione. Ben oltre la geometria e le aritmetiche parlamentari, a sostanziare quell’operazione era «l’interesse della borghesia, della proprietà fondiaria e mobiliare», portata a conciliarsi in nome della comune tutela dalle pretese delle classi popolari

Dentro e fuori il parlamento 

L’ex diplomatico mette a confronto due tesi: da un lato le parole del celebre giornalista Mario Missiroli (“L’Italia d’oggi”, 1943), secondo il quale il trasformismo «fu un fenomeno tipico della classe borghese, che ci si dissolse come partito per conservare il potere come classe»;dall’altro le pagine di Antonio Gramsci nei “Quaderni”, in cui il trasformismo viene definito come «l’espressione parlamentare del!’ azione egemonica, intellettuale, morale e politica dei moderati sul cosiddetto Partito d’azione», una forma della «rivoluzione passiva» italiana e della sua direzione politica conservatrice, affermatasi dal 1848 in poi. 

Per Romano si tratta di due interpretazioni non contraddittorie, che illuminano due aspetti di un fenomeno che la monarchia a suo tempo favorì. Lasciando il terreno battuto della legittimità dinastica per concludere un patto d’azione con le forze “rivoluzionarie” del tempo, i Savoia s’erano bruciati i ponti alle spalle. Se la pressione dei nemici interni ed esterni, e gli effetti della partecipazione di nuovi strati sociali alla vita pubblica, avessero distrutto l’opera del 1860, essi avrebbero perso tutto: il regno nuovo e l’antico, le province usurpate e quelle ereditate. L’idea comune che si affermò, e si incarnò nel trasformismo, è quella espressa lapidariamente da Ferdinando Martini, antico sodale di Depretis: l’Italia unita era troppo giovane per essere «governata all’inglese».

Come chiosa Fulvio Cammarano (“Storia dell’Italia liberale”), era un fenomeno persino fisiologico nel sistema elitario dell’epoca, «perennemente alla ricerca di una mediazione nel rapporto società-Stato che eludesse il pericolo del conflitto». Ma saranno la maturazione capitalistica del paese, e le contraddizioni dell’imperialismo, a riproporre nella lotta tra le classi quello scontro che ci si illudeva di aver esorcizzato in parlamento. 

L. L. 

da Lotta Comunista Organo dei gruppi leninisti della sinistra comunista.



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