L’addio alla vita di Michele

L’addio alla vita di Michele

L’ADDIO ALLA VITA DI MICHELE

 “Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi”. Così comincia la lettera con cui Michele, trentenne friulano, di professione grafico ma senza un impiego stabile, prende congedo da una vita che per lui non aveva più significato, se non quello di accettare una realtà per lui inaccettabile. Giustamente Michele afferma la soggettività dei “limiti di sopportazione”, che variano da persona a persona, come variano i caratteri e le visioni del mondo e della vita, con il loro bene e il loro male, e il grado di accettabilità del male (fisico, morale e metafisico).

 


 La prima considerazione da farsi su chi arriva al punto di compiere “l’insano gesto”, o “il gesto estremo” di darsi la morte è quella della pietà dovuta a un essere umano che rifiuta e rispedisce al mittente il dono della vita, ricevuto senza essere richiesto, e che per qualcuno può diventare così gravoso da non potersi più reggere. I “limiti di sopportazione” possono riguardare il dolore fisico, come nel caso di malattie incurabili, o sofferenze morali, come nel caso di Michele, che si è ucciso perché tutti i suoi tentativi di realizzarsi come la persona ideale che avrebbe voluto essere sono falliti uno dopo l’altro: “Ho cercato di essere una brava persona, ho commesso molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte”. Tutto inutile, il suo malessere non si è trasformato in un’opera d’arte ma ha soffocato anche la sua sensibilità artistica, e i ripetuti insuccessi lo hanno messo di fronte all’opzione estrema tra un “tutto” insopportabile e “il nulla assoluto”.

 Questi fallimenti  non sono avvenuti per sua responsabilità, afferma Michele,  ma per quella del mondo spietato in cui si è trovato a vivere e a combattere invano per raggiungere non solo quella dignità ma anche quella felicità a cui ogni essere umano ha diritto, e piuttosto che rassegnarsi all’ingiustizia, o meglio, a quello che definisce “alto tradimento” di questo mondo nei confronti suoi e della sua generazione, stanco di combattere e di sperare in un futuro migliore, ha preferito togliersi la vita. Come giustificazione ragionata della sua scelta tragica, Michele enumera circostanze e situazioni in cui le “sue risorse” sono naufragate: “… le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi che cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità”.


 Michele, insomma, era stanco di essere un soccombente su tutta la linea; qui emerge chiaramente la discrasia tra il concetto che Michele aveva di se stesso e il riconoscimento, o meglio, il mancato riconoscimento che il mondo in cui viveva gli ha riservato. In questo vedo un’analogia con il rifiuto stoico della vita quando questa viene giudicata indegna di essere vissuta; in sintesi: è meglio morire liberi che vivere in schiavitù. Michele non si faceva illusioni sul concetto che gli altri avevano di lui, non credeva a chi ipocritamente magnificava la sua sensibilità: “Tutte balle. Se la sensibilità fosse davvero una grande qualità, sarebbe oggetto di ricerca. Non lo è mai stata e mai lo sarà, perché questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità”. Di qui la conclusione: “Non la posso riconoscere come mia”, e il conseguente gesto estremo.  in quanto, argomenta Michele, “Da questa realtà non si può pretendere niente.


 Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile”. Infatti (e qui – sia detto con tutto il rispetto dovuto a chi ha preferito la morte a quella che ormai considerava una non-vita – comincia l’argomentazione discutibile di Michele a favore del suicidio) non si può pretendere ciò che non è possibile dare; ammesso che fosse possibile dargli un lavoro, proprio in nome del libero arbitrio a lui tanto caro, non si poteva costringere nessuno a dargli amore, o riconoscimenti, o sicurezza, o un ambiente stabile. Non tutto quello che è desiderabile è possibile, e non è colpa di nessuno se i nostri sogni non corrispondono alla realtà: questa è la condizione umana, se il nostro volere fosse anche potere non saremmo uomini ma divinità. Questo non toglie nulla, sia chiaro, al disincanto di chi vede cadere una dopo l’altra tutte le proprie illusioni, speranze e prospettive (gli “ameni inganni” di cui parlava Leopardi): “Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. E’ un incubo di problemi, privo di identità, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive”. Tra l’io di Michele e il mondo così come è configurato non c’era più nessuna possibilità di riconciliazione: “Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c’entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile”. Ecco il punto: vale la pena dannarsi l’anima per ottenere il minimo sindacale possibile? Per Michele non aveva senso combattere per il minimo, cioè per la mera sopravvivenza: che senso ha una vita ridotta ai minimi termini per chi nutriva ben altre ambizioni? “…volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione”. Come dire: o mi date il massimo che mi spetta di diritto o tenetevi pure il vostro miserabile minimo, se non posso avere tutto (quello che mi spetta) non voglio avere niente, nemmeno la vita, che, nel mio caso, consisterebbe in una meschina sopravvivenza.

 “Di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c’è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un’epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare”. Dunque Michele si è ucciso perché si sentiva come un alieno in un mondo e in un tempo che non voleva saperne di lui e della sua volontà di vivere non come volevano gli altri ma come voleva lui; purtroppo Michele ha fatto suo l’esempio dell’infelice Jacopo Ortis e non del suo autore, che nel sonetto “Che stai?”  ha scritto: “Figlio infelice, e disperato amante, / e senza patria, a tutti aspro e a te stesso, / giovin d’anni e rugoso in sembiante. // Che stai? Breve è la vita e lunga è l’arte; / a chi altamente oprar non è concesso / fama tentino almen libere carte”, e questo perché “Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l’alternativa al soffrire: smettere. Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo, e io l’ho dimostrato”. Qui abbiamo addirittura una profession de foi edonistica: se la vita è solo sofferenza allora non vale la pena di essere vissuta, lo scopo della vita non è il dolore ma il piacere, e se vien meno il gusto di vivere non c’è che un’alternativa, la morte. E tuttavia Michele, rivolgendosi ai suoi genitori scrive: “Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c’è davvero bisogno”. Giustissimo, basta e avanza l’odio che già semina sofferenza e morte nel mondo e nelle nostre case (e che fornisce abbondante materia alla cronaca nera e a seguitissime trasmissioni televisive come Quarto grado e Bianco e nero).  quindi Michele ci ha voluto dire che si è ucciso anche per evitare di compiere un male maggiore, forse uccidendo qualcun altro oltre se stesso?  “Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie.


Non mi faccio ricattare dal fatto che è l’unico possibile, il modello unico non funziona. Siete voi che fate i conti con me, non io con voi. Io sono un anticonformista, da sempre, e ho il diritto di dire ciò che penso, di fare la mia scelta, a qualsiasi costo, non esiste niente che non si possa separare, la morte è solo lo strumento. Il libero arbitrio obbedisce all’individuo, non ai comodi degli altri”. L’obiezione classica a questo argomento è quella di metterne in luce la contraddittorietà: con quel libero gesto oltre a sopprimere me stesso sopprimo anche la mia libertà di agire in futuro: i morti tutto possono essere meno che liberi. “Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. E’solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza sì, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino”. Cioè: mondo, se non posso importi il mio vero essere, ti imporrò la mia separazione da te; se tu non sai che fartene di me, io non so che farmene di te. Addio. E infine il tristissimo congedo dalla famiglia e dagli amici: “Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono a casa. Sto bene. Dentro di me non c’era caos. Dentro di me c’era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità. Chiedo scusa a tutti i miei amici. Non odiatemi. Grazie per i bei momenti insieme, siete tutti migliori di me. Questo non è un insulto alle mie origini, ma un’accusa di alto tradimento”. In questo modo Michele proietta il suo fallimento (e quello della sua generazione) sull’intera società e soprattutto sulla sua classe dirigente inadeguata e cinica. Sintomatico il sarcastico ringraziamento a Giuliano Poletti, indegno ministro del lavoro anche in questo nuovo Governo: “Complimenti al ministro Poletti. Lui sì che ci valorizza a noi stronzi. Ho resistito finché ho potuto”. Così termina questa lettera che è un vero e proprio atto di accusa contro una società senza valori che non siano quelli del danaro e del potere. Giusta l’accusa, ma ingiusta la conclusione: Michele era un uomo indubbiamente sensibile e molto intelligente, lo stile e il lessico  della sua lettera di congedo dalla vita e dal mondo rivela una certa dimestichezza con la terminologia filosofica: limiti soggettivi ed oggettivi, darmi un senso, esistenza indeterminata, libero arbitrio, essenza, nulla assoluto…L’errore di Michele, a parer mio, è stato quello di confondere il minimo con il massimo che la vita, il mondo, la società,  potevano  offrirgli. Voleva il massimo del piacere e della felicità e, non trovandolo nel mondo della vita, si è rivolto a sora nostra morte corporale, che d’ogni dolor risana.

 

 FULVIO SGUERSO

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