LA VIOLENZA COME PROTESTA E COME (AUTO)DISTRUZIONE

LA VIOLENZA COME PROTESTA
E COME (AUTO)DISTRUZIONE

 

LA VIOLENZA COME PROTESTA
E COME (AUTO)DISTRUZIONE

 

Di fronte alla rabbia e alla violenza che ormai sembra incontenibile nei contesti urbani e suburbani e che  covava da tempo sotto la cenere, solo chi vive in un altro mondo può stupirsene, e quel che è grave la classe politica nazionale, salvo eccezioni, sembra colta di sorpresa e non sa, letteralemente, non sa come e cosa fare (altrimenti avrebbe come minimo cercato di prevenire l’eplosione delle periferie con una più razionale distribuzione dei centri di accoglienza e prestando ascolto ai bisogni e alle esigenze degli strati più disagiati della popolazione, a cominciare dall’emergenza abitativa). Non c’è quindi da stupirsi se la maggioranza dei cittadini e delle cittadine di questo Paese è ormai talmente schifata dalla “politica” che non sa più per chi votare e accomuna tutti i partiti in un grande rifiuto e in una condanna generalizzata. Come volevasi dimostrare.


 

Va anche detto che la violenza non è solo quella delle periferie, c’è anche una violenza legalizzata e istituzionalizzata, una violenza di Stato;  è violenza, per esempio, approvare, sulla base di voti in gran parte comprati, leggi che avvantaggiano lobbies e interessi privati penalizzando il bene comune, o che salvaguardano gli odiosi privilegi della “casta” invece di abrogarli una volta per sempre. Certo è che lo Stato, comunque, se vuole sussistere nella pienezza dei suoi poteri, deve esercitare la violenza tramite i suoi apparati repressivi: magistratura, forze dell’ordine, forze armate; questo perché lo Stato sussiste nella pienezza dei suoi poteri soltanto se esercita il monopolio della violenza su un determinato territorio. Non per niente non è possibile abolire quel monopolio se non per mezzo di una violenza maggiore di quella legittima.

L’atto fondativo dello Stato, secondo Thomas Hobbes, è quello in cui gli uomini rinunciano all’esercizio della violenza privata e consegnano tutto il loro potere a uno solo, cioè a un sovrano, sia esso una persona singola o plurale, in modo tale che il monopolio della violenza così conferita a un sovrano sia una garanzia di pace e di sicurezza per tutti. Si tratta di un patto fondato sul mutuo rapporto tra protezione e ubbidienza. Tutto questo, naturalmente, sul piano giuridico; ma sappiamo che non sempre le leggi (come i patti) vengono rispettate, che la giustizia dei tribunali è quella del più forte e che la criminalità organizzata, per esempio, prospera  grazie al principio del “farsi giustizia da sé”.

 La motivazione principale della rivolta dei residenti di Tor Sapienza contro il centro di accoglienza per ragazzi africani immigrati è stata la latitanza delle istituzioni, quindi della politica, che ha spinto quelle persone già disagiate a uno stato pre e anti-politico; in altri termini, gli abitanti di Tor Sapienza, costretti a vivere nel degrado ambientale tra mille difficoltà, si sono sentiti abbandonati a loro stessi, e hanno reagito prendendosela con i più deboli: i minori ospitati nel centro di accoglienza.


 

Tra gli interventi delle “autorità” che si sono letti in questi giorni, uno dei più sensati mi è sembrato quello del presidente del Senato, Pietro Grasso, che ha dichiarato, tra l’altro: “Realtà come Tor Sapienza sono state per troppo tempo vissute come marginali, luoghi nei quali l’attenzione pubblica appare con grande enfasi e scompare con altrettanta rapidità. I problemi di quei quartieri però sono gli stessi problemi del Paese, solo elevati all’ennesima potenza: disoccupazione, precarietà, dispersione scolastica, assenza di servizi. Sono quartieri abitati da persone che hanno conosciuto il benessere negli anni passati, lo hanno sfiorato, ma lo hanno perso nelle pieghe di questa crisi che da economica sta diventando sociale, esistenziale ed etica”. Belle parole, certo; parole che indicano i termini della questione, che, come in altri momenti tragici della nostra storia, è insieme economica, politica, sociale, morale e culturale: è sempre più evidente che ci troviamo anche di fronte a una preoccupante emergenza educativa, come dimostra il comportamento della senatrice Paola Taverna che, accorsa anche lei a Tor Sapienza a portare non si è capito bene se la sua solidarietà agli abitanti o agli immigrati,  ripeteva sdegnata “io non sono una politica” a chi le intimava di andarsene proprio perché era ormai una politica come le altre che siedono in un Parlamento veramente troppo pletorico, costoso e improduttivo.


Purtroppo questa  rabbia viene immediatamente strumentalizzata da “politici” di pochi scrupoli che lucrano sul degrado culturale e sui disagi di larga parte della popolazione esasperata e delusa dalle promesse mancate, dalla disonestà, dall’incompetenza e dall’inconcludenza dei governanti che si sono succeduti negli ultimi decenni (e delle opposizioni tanto rumorose quanto sterili). Se nessuno sembra in grado di dare risposte fattuali precise ai bisogni dei penultimi che contendono quotidianamente il loro spazio vitale con gli ultimi, che senso ha scegliere un partito (o un partitino), un demagogo (o un comico)  piuttosto che un altro? Nessuno, certo. Ma allora, che senso ha parlare ancora di democrazia?

Fulvio Sguerso

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