La vera ricetta del condigione

La vera ricetta del condigione
Mangiare, per l’uomo, non è solo alimentarsi

La vera ricetta del condigione

Mangiare, per l’uomo, non è solo alimentarsi. Questo si potrebbe fare anche con delle sacche predigerite, delle pasticche e degli integratori. Ma noi umani abbiamo bisogno di qualcosa di più, di un qualcosa che arricchisca il cibo di memoria, personalità, storie, emozioni, socialità, conquista, condivisione, amicizia, rito.
Una certa pietanza può essere squisita, ma consumata in solitudine e in un posto inadeguato, nel momento sbagliato, è (a dir poco) roba sprecata.


Ho avuto uno zio partigiano (più d’uno, veramente) che mi ha raccontato di essere rimasto per cinque giorni in un bosco, a seguito di un rastrellamento, tagliato fuori da tutto. Lui e i compagni avevano solo acqua da bere. Dopo quei giorni suo padre lo aveva raggiunto. Portava con sé un panino con una braciola di maiale. Uno per ognuno. La carne era fredda, forse neanche ben cotta. Ma mio zio mi aveva confidato essere quella di gran lunga la cosa più buona che avesse mai mangiato. Stanchi, affamati, scoraggiati, braccati, ritrovare finalmente gli occhi di un affetto famigliare, i quali recavano un altro affetto tangibile, quello ancor più caro della madre sotto forma di un sontuoso panino, di quelli che neppure nei giorni migliori di festa sarebbe stato lecito pensare, ecco, quello era proprio il miglior mangiare che si potesse fare. Seduti sull’erba e le foglie secche del bosco, in silenzio, pochi sguardi di soddisfazione tra i compagni di sventura: scampato pericolo, demolita la fame, incrociato occhi e parole di chi ancora al mondo ti pensa e ti vuol bene, ed in quei momenti non era cosa troppo scontata.

Per questo le ricette di cucina che sentiamo frequentemente (così tanto frequentemente) in televisione sono solamente consigli di cucina. Come dire che vorremmo avere la stessa soddisfazione di un navigatore solitario in Atlantico, attraversando una bacinella con un coccio di noce a mo’ di barca.


 Per cucinare bisogna aver mangiato nell’infanzia. E per aver mangiato bisogna aver ascoltato le storie del cibo, e aver partecipato in qualche modo (anche intralciando) la produzione o la preparazione di quel cibo. Se non si è fatto, pazienza. Non è una questione imprescindibile. Ma fa la differenza. Si dica chiaro questo: i bambini devono aver a che fare con la roba da mangiare non solo quando è nel piatto, ma fin dal momento in cui un seme viene sotterrato, fin da quando si va a prender l’uovo nel pollaio, il fungo nel bosco, si munge la vacca. Se questa società non prevede e non lo consente è la società che è sbagliata, e non questo mio principio.

A titolo esemplificativo vi propongo qui una ricetta, anzi: LA ricetta, quella che potrebbe essere scolpita nel marmo, a imperitura memoria.

Questa è l’unica vera, incontrovertibile, tradizionale, antica ed accettata ricetta del condigione.


Si scelga un appezzamento di terra, ben esposta, salubre, fornita di acqua da uso irriguo. Si vanghi secondo necessità. A stagione opportuna si semini (o si metta a dimora) pomodori, peperoni, patate, cipolle, aglio, prezzemolo, basilico, insalatina da taglio, spinaci, sedano, rapanelli, fagiolini, zucchini, cetrioli, scalogno. Eventualmente si mettano anche (sempre a tempo debito) piselli, fave, bietole, fagiolane, zucche (anche non di Rocchetta), moco (o cicerchia, o ceci). Sulla qualità o provenienza in particolare dei semi sorvoleremo, perché manca lo spazio, e perché si diventerebbe noiosi.

Scerbare frequentemente, dosare acqua in base alla verzura e all’andamento climatico, ove dovuto si ricorra al solfato di rame. Si avrà cura, nei ritagli di tempo, di cercare da amici e fornitori di fiducia, un buon olio (non si dice “di oliva” ed “extravergine”, ché altro non esiste), un quanto di aceto pervenuto dalla buona acetaia di casa.

Arrivati ad avere una certa varietà di ortaggi maturi si può principiare raccolta e preparazione secondo il caso e l’estro: più è la varietà, meglio si mangia.

Il piatto per il condigione non è un piatto, ma un grilletto, una sorta di bacile da bordo alto, poiché non se ne può far poco. Si passi quindi al lavaggio delle verzure e alla vera e propria preparazione.

Per conto mio la base estiva dev’essere formata da pomodoro (maturo!) cuore di bue, insalatina, cipolla, olio e sale. Detesto cordialmente il mais in scatola, che mi sa di americanata. Ma io sono un insopportabile ortodosso, e quindi su certe cose non transigo. L’aglio, ad esempio, a me piace pestato e mantenuto a bordo del piatto, poiché se no sarebbe di laboriosa digestione. Mi piace, talvolta, bollire alcune patate fresche, con la buccia. Fredde, pelate, affettate nell’insieme. Corrompo volentieri il tutto anche con la mozzarella, meglio ancora con formaggetta di pecora fresca, o feta greca, con l’uovo sodo, con il tonno, con la carne in gelatina (una sola o anche tutte queste ad un tempo), con olive. I più ricchi anche una frittatina. Una foglia, e non di più, di basilico, spezzata a mano, sopra il tutto.

Si metta senz’altro per primo il sale, poi l’aceto e poi l’olio. Oppure anche prima l’olio, o prima l’aceto. Come si vuole. L’importante è seguire la ricetta.

Altro ingrediente indispensabile è il pane. È giocoforza la grissa, ben lievitata e ben cotta. Con una crosta croccante, ma una mollica ansiosa di adsorbire tutti i succhi e gli umori di questa sontuosa e indiscutibile ricetta.

Sul bere sono irremovibile: birra fresca, oppure vin bianco, o nero, ma anche una gassosa fresca non è male.

Faccio notare che ognuno si prepara il suo, ed ognuno mette nel proprio grilletto quel che ritiene opportuno metterci. L’importante è non sprecare la roba.

Il vero condigione si mangia solo sotto la toppia di uva frolla, nella sera estiva. Se tutte le prescrizioni sono state seguite pedissequamente si starà assai bene, rimirando il tramonto fra le zanzare, avviando poi la fase filosofica della digestione, soprattutto in assenza di televisione.

ALESSANDRO MARENCO

 

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