La sposa del bandito. Per il 25 aprile

“La sposa del bandito.
Per il 25 aprile

La sposa del bandito.
Per il 25 aprile  

Arrivò prima lui. Disarmato, ripulito, vestito di chiaro. Con certi baffetti ben pareggiati e i capelli lustri aderenti al cranio. La camicia bianca con l’ampio colletto sopra il bavero della giacca, la sigaretta fra le labbra. Era un ragazzino con arie da uomo, ma chi non lo era a quel tempo?

Era presto, lo sapevano. Andarono all’osteria poco lontano, a bere un bicchiere, lui e il testimone: un compagno dello stesso distaccamento, non proprio elegante come lo sposo, ma almeno ripulito e disarmato, come don Eugenio aveva richiesto.

Più a valle avevano disposto due pattuglie ai lati della carrozzabile. A monte un paio di vedette. Si poteva stare quasi tranquilli, per quel giorno.


Era finita l’estate. A guardare la valle ai piedi del paese sembrava di metter l’occhio dentro un mirino di precisione per guardare il mare. Il fianco sinistro della valle era quello esposto bene, quello in cui gli uomini avevano messo olivi, disposto muri, cresciuto verdure. Il fianco destro era coperto di boschi. Gli uomini guardavano il mare e pensavano che sarebbe stato meglio sposarsi con calma, con una bella cerimonia, un buon pranzo, gli amici, la fisa, i balli sotto la pergola. Avrebbero potuto cantare “Bandiera Rossa” e poi “L’internazionale” e poi ridere e fare scherzi allo sposo. Avrebbero bevuto ancora un bicchiere e pizzicato il culo a quella ragazza alta, e magari ci avrebbero fatto l’amore, la sera, prima di andare a dormire.

“Arrivano, sono loro” aveva detto lo sposo ridestando il testimone dal suo sogno. Erano diverse matrone accaldate per la salita. Al centro, diritta come una candela, c’era la sposa. Nessuno vestito di bianco, nessun velo: non bisognava dare nell’occhio.

Lo sposo gettò via la sigaretta, si avvicinò, salutò per prima la prossima suocera, poi le signore parenti convenute, per ultima, sfiorandole la mano, la sposa. Il testimone fece cenni col capo, restò serio, a far capire che non intendeva abbassare la guardia.

Sulla porta della chiesa la sposa mise un velo bianco, le convenute estrassero dalle borse fazzoletti grandi e scuri, tutte si coprirono il capo, poi si segnarono con la croce, baciandosi infine l’indice incurvato a gancio. Gli uomini entrarono rispettosi, ma senza segnarsi, da bravi compagni.

Il prevosto era già vestito e pronto. Accese due candele, pregò sottovoce, sibilando frasi latine rivolto al crocefisso. Le convenute talvolta rispondevano contrite.

Si dissero di si, si scambiarono anelli metallici, firmarono gli sposi, firmarono i testimoni. Uscirono a braccetto i due giovani. Insieme non arrivavano a cinquant’anni ed erano pronti a ricevere il bambino che lei aveva scoperto di portare.


Quando lei gliel’aveva detto lui non aveva parlato. Lei aveva cominciato a preoccuparsi. Lui aveva concluso che in qualche modo si sarebbe fatto, che una soluzione l’avrebbe trovata, di non preoccuparsi. Come sarebbe, pensò lei, non preoccuparmi? Manco lavorasse in ferrovia, pensò lei. Il bandito comunista, fa, altro che l’operaio, l’impiegato, al limite nella milizia, guarda… No, il bandito e per di più comunista. Come dirlo in casa? Aspetto un bambino. Ah! E lui chi è, disgraziata? Ma, niente, una persona per bene, un impiegato del catasto che abita da solo in una casa di proprietà, e ha pure l’automobile. E invece no. È uno che abita in un bosco, in un seccatoio da castagne, ma solo quando va tutto bene, perché se no abita anche in una capanna di frasche. Mangia quando capita, dorme dove può, non ha un soldo bucato in tasca. Ma ha una buona mira, mi hanno detto, e le scarpe buone, che non si stanca di camminare, perché ha un torace grande e i muscoli duri che li puoi contare. Ed ha sempre un buon odore, di bosco, di foglie, di fumo. E mi piace quando i capelli si scompigliano e gli scende una frangia sugli occhi. Ma queste cose in famiglia non le puoi dire. Va bene che sono comunisti anche loro, che non ammetterebbero mai la figlia sposata a uno della milizia, ma di qui a farsi mettere incinte da un bandito, sia pure un patriota… Ma la sposa aveva organizzato tutto: l’aveva detto in famiglia solo quando lui le aveva detto di essere pronto a sposarla, davanti al prete, coi testimoni, tutto regolare.

Il padre della sposa si era messo a piangere. Non protestava, non ce l’aveva con nessuno, singhiozzava come lei non l’aveva mai visto fare. Ma perché piangi? Perché c’è la guerra, e mia figlia si sposa e io non posso neanche vederla sposare, e farà un figlio tra i soldati, e crescerà nella polvere da sparo, col pane razionato, col padre che scavalca le montagne. E io ho aspettato vent’anni per vederti così. Ma perché? Per lo sposo fu tutto più semplice. Il padre e la madre erano lontani cinquecento chilometri e una guerra fa. Chiese una settimana di licenza al comando brigata per motivi matrimoniali. Dovette ripetere più volte la stessa domanda ed ogni volta gli rispondevano con un sorrisino complice: e bravo, l’hai combinata eh? E adesso te ne vai una settimana a spasso con la mogliettina… E bravo.


Il commissario politico volle sapere se la sposa era o meno di comprovata fede politica comunista. Lui gli disse di si, certo, che sicuro non lo era, ma lo sarebbe diventata. E dove vi sposate? In chiesa, da don Eugenio. Ma bravi! E che razza di comunisti siete che per sposarvi andate in chiesa?

Non saprei, disse lui, per un matrimonio uno va in chiesa, dove vuoi che vada? Giusto, rispose il compagno commissario. Qualche volta poi ti spiego anche questa, ma non è il momento. Vai, vai pure dal prevosto e portagli anche i miei saluti. Diglielo che io sono un democratico, che ci sarà posto anche per lui dopo la vittoria, ma che però dovrà mantenersi da solo, mica coi soldi dei lavoratori.

Ad ogni buon conto lui non riferì i saluti. Fu grato a don Eugenio che aveva fatto tutto presto e bene, non l’aveva detto per davvero a nessuno. E poi, quando il testimone aveva fatto il gesto per offrire qualcosa (e sarebbe stato strano veder uscire da quelle tasche più di un soldo) don

Eugenio l’aveva fermato, dicendo che quell’offerta sarebbe servita di più alla sua causa che alla chiesa, in quel momento. Don Eugenio era un compagno, conclusero, o forse poco ci mancava.

Uscirono dalla chiesa e restarono per un attimo abbacinati dal sole che intanto s’era alzato nel cielo terso. Il testimone andò al parapetto del sagrato, guardò verso il fondovalle, poi guardò lo sposo facendo segno di si, che è tutto a posto. I due sposi, fianco a fianco, discesero le scale. Un bicchiere, all’osteria, un dito di vino. Ma tutti mentre bevevano si guardavano intorno, preoccupati. La gente del borgo aveva notato il movimento e sicuramente la voce girava: “Don Eugenio ha sposato un bandito!”. Le convenute e la madre salutarono la sposa lacrimando. La suocera raccomandò la figlia al genero, con sguardo severo. Poi lo baciò e gli fece una carezza sulla testa, proprio come a un ragazzino. Lo sposo si sentì di colpo troppo giovane per tutte quelle novità. La sposa abbracciò la madre e le convenute, si salutarono. La madre diede alla sposa una borsa da viaggio, si asciugò le lacrime. Il testimone e i due sposi s’incamminarono verso le cime dell’Appennino, fra i boschi, oltre i boschi, da dove talvolta si vede addirittura la Corsica.


Camminavano lenti e decisi. Lei s’era cambiata le scarpe e teneva dietro ai due uomini senza lamentarsi, per far vedere di cos’era capace. Incontrarono le vedette. Continuarono a salire. Oltre un bosco di faggi c’era una radura, un declivio al cui margine si trovava un grosso masso. Si fermarono un poco a respirare, mangiarono una fetta di pane e un pezzo di formaggio. Nessuno aveva niente da dire. Lo sposo ogni tanto sorrideva e lei si sentiva sciogliere. L’amava come solo i ragazzi sanno amare: perdutamente.

Prima di sera erano alla cascina dell’amico. Il testimone salutò gli sposi, fece loro gli auguri, e proseguì di buon passo nella penombra. Gli sposi vennero accolti in casa. L’aria fuori era già fredda, in cucina c’era un buon odore di roba da mangiare, calore, vapore, sorrisi e parole gentili. La padrona si prese cura della sposa, le fece togliere la giacca scura, la fece sedere. Avevano apparecchiato la tavola con una tovaglia bianca, due piatti uguali, stoviglie di alpaca, bicchieri, una bottiglia di vino nero, ma buono, un vasetto di vetro con dentro alcuni fiori secchi, ma belli. Gli sposi sorridevano. Mangiarono polenta. Poi si divisero una scatoletta di sardine, lasciando l’olio ai padroni di casa, che gradirono. Poi c’era formaggio, e pane bianco, ma buono. Poi c’era il buio che aveva invaso la stanza e il lume, che serviva a malapena per sapere di esserci ancora. I due sposi stettero ancora un poco a sentire il vecchio che ricordava ricordi lontani, di pesci, di lepri, di bottiglie e di funghi. Poi fu lo sposo a parlare, a dire che loro, con licenza, si sarebbero ritirati. E lei si alzò con lui, docile. E lui sentì di non essere solo, sentì che quella donna lo avrebbe seguito e questo gli dava forza e coraggio. La padrona gli fece chiaro su per le scale, fin nella stanza. Appoggiò il lume, accese una candela, raccomandò di fare attenzione, di consumarla il meno possibile. Diede la buonanotte, gli auguri, e chiuse la porta prima di scendere le scale.

Lui e lei restarono un poco in silenzio a guardare altrove. Lei si tolse le scarpe e si massaggiò i piedi indolenziti. Lui si allentò la camicia. Lei cavò dalla borsa una camicia da notte e si mise nell’angolo più scuro della stanza a cambiarsi. Lui non sapeva se avrebbe dovuto guardare o far finta di niente. Si stese sul letto, vestito, le mani dietro la nuca. Lei si mise sotto le coperte, poi gli disse: vieni, da sola ho freddo. Lui si tolse i vestiti, spense la candela e si distese accanto a lei. Nel buio più buio si sfiorarono, si annusarono, si trovarono. Quella notte durò una settimana: altro non c’era. Non contava il pranzo, la cena, le passeggiate, le volte che lui o che lei diedero una mano in casa. Non contava nulla. Contava solo la notte, le notti. Si stringevano nel buio assoluto, si facevano piccoli uno nell’altro, nient’altro esisteva: non guerra, non rastrellamenti, non la fame, la sete, la paura, i pidocchi, la scabbia, la dissenteria, non i lanci degli inglesi e le mine dei tedeschi, non i repubblichini, non i ricognitori sopra le loro teste.


Fuori dalla cascina, per quella settimana, le pattuglie s’incrociavano. Tutti sapevano che quella casa di contadini era diventata importante, strategica, qualcuno aveva detto con parola inusuale. Cosa ci fosse dentro, poi, proprio per bene non si sapeva. Ma le pattuglie di ragazzi che camminano il giorno e la notte hanno anche bisogno di qualche mistero per funzionare bene, per fare meglio il loro lavoro. Erano tutti uomini fidati e nessuno avrebbe permesso a chiunque di avvicinarsi troppo a quella casa. E tanto bastava.

La settimana finì presto, come finisce una notte di sonno beato. Lei discese a valle, verso la città, verso gli sguardi dei vicini da dietro le stecche delle persiane: “…Ha sposato un bandito, perché era incinta…” e di questo si sentiva fiera, di entrambe le cose: d’aver sposato un bandito e di portare in grembo, come di diceva allora, il frutto della loro passione.

Lui tornò al distaccamento. Il comandante lo spedì subito di pattuglia: niente di peggio per lui che restare a gongolare, vittima della nostalgia e dell’amore lontano. E niente di peggio per gli altri del gruppo: non si devono avere riguardi, sposo fresco o no: via, in mezzo alle eriche e alla nebbia bassa sulle cime, ad aspettare che succeda qualcosa. Qualche mese dopo il testimone e lo sposo camminavano soli verso valle. Ognuno la sua piccola missione da compiere: comprare cibo, parlare con informatori, tenere gli occhi aperti. Subito dopo il ponte c’era un’osteria, sarebbe stato naturale fermarsi e bere un bicchiere. Entrarono e scorsero subito un gruppo di militari della San Marco seduti a un tavolo. Il testimone era uno pratico e risoluto, fu rapidissimo ad estrarre la pistola e minacciare i soldati. Tutti alzarono le mani. Lo sposo li disarmò. Si sentiva nell’aria immobile la paura di questi e di quelli, ragazzi consumati, assonnati, affamati d’affetti e di pastasciutta. Un caporale armeggiò sotto il tavolo, il testimone sparò, altri spararono. Lo sposo si accasciò a terra.

Il testimone sparò all’impazzata, prese di peso lo sposo e lo trascinò fuori. Mentre i due uscivano altri colpi vennero da fuori. Dalla carne di uomini lacerata dai proiettili uscì copioso sangue e insieme a questo la vita. Lo sposo fu portato in una cascina poco lontana. Venne il medico della

brigata a scuotere la testa. Prima di giorno lo sposo morì. Lo sposo si chiamava Vincenzo Pes, aveva 24 anni, militare dell’esercito italiano, del genio, aveva scelto la macchia e l’impegno politico. Morì nel novembre del ’44 per una disattenzione, per una leggerezza, per un atto di spavalderia, come i giovani di tutti i tempi sono costumati. Le memorie dei reduci non ci raccontano come visse la sposa, se crebbe il figlio, se tornò a innamorarsi e sposarsi e a vivere, senza dimenticare quello che era avvenuto, come sarebbe giusto che fosse stato.

Vincenzo Pes è esistito per davvero, era un partigiano, ed è stato ucciso nell’osteria, a Quiliano. Il resto l’ho inventato io.

Alessandro Mrenco

 

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