La madre di tutte le menzogne

La madre di tutte le menzogne

dalla rivista Tempi di Fraternità

La madre di tutte le menzogne

Era la notte tra il 16 e il 17 gennaio 1991, precisamente alle 2:38, quando un pilota militare americano, dal suo cacciabombardiere, schiacciò il primo pulsante per sganciare una serie di bombe che ruppe il silenzio dell’inverno.

Era l’operazione chiamata “Desert Storm” che passerà alla storia come la “Prima Guerra del Golfo”. Si sganciavano micidiali bombe sull’Iraq perché Saddam Hussein non aveva risposto all’ultimatum delle Nazioni Unite: secondo l’ONU e gli Stati Uniti, presieduti all’epoca da George W. Bush, oltre a ritirare le proprie truppe dal Kuwait, avrebbe dovuto rinunciare alle armi di distruzione di massa, mai trovate.

Sono passati ormai 30 anni da quei 40 giorni di bombardamento continuo sulla popolazione irachena. A noi, che stavamo comodi sul divano di casa a guardare la tv, quei micidiali ordigni apparivano come delle linee tracciate su schermi verdi, come se fosse un videogioco.

Fu il primo conflitto trasmesso in diretta televisiva. Vennero invece sganciate ben 90.000 tonnellate di bombe, comprese quelle a grappolo e i proiettili perforanti con l’uranio impoverito, e i missili “da crociera”. Fu la volta anche delle bombe “intelligenti”. La prima intelligenza fu rappresentata dalle PGM (Precision Guided Munition), vale a dire i proiettili guidati, la cui probabilità di fare centro alla massima gittata contro un bersaglio (carro, nave, ponte, aereo) è superiore al 50 %, quando non vi sia opposizione, cioè non ci sia una contraerea. E le vittime stimate furono circa duecentomila: moltissimi furono i civili, le donne, i bambini e le bambine. Quella guerra, possiamo tranquillamente dire ora, fu la madre di tutte le guerre, e nulla fu più come prima.

Purtroppo questo triste anniversario ci obbliga a fare memoria anche del nostro tradimento nei confronti dell’art. 11 della Costituzione italiana: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…”. Evidentemente le infedeltà possono stare ad ogni angolo del concreto agire delle nostre istituzioni repubblicane, così come di qualsiasi cittadino e cittadina del nostro bel paese. Ma era quello il tempo (agosto 1991) del Nuovo Ordine Mondiale degli USA di Bush e del nuovo Modello di Difesa varato dall’Italia che indicava, sempre nel 1991, nella “tutela degli interessi nazionali ovunque sia necessario”, la missione delle forze armate.

Nel tentativo estremo di scongiurare che la parola fosse data alle armi, papa Giovanni Paolo II intervenne in più occasioni. Il 12 gennaio 1991, nel discorso tenuto ai rappresentanti del corpo diplomatico accreditati presso la Santa Sede, nel sostenere che una guerra nel Golfo avrebbe rappresentato una tragica avventura, affermò senza mezzi termini che «i veri amici della pace sanno che l’ora è più che mai quella del dialogo, del negoziato, della preminenza della legge internazionale. Sì, la pace è ancora possibile; la guerra sarebbe il declino dell’umanità intera».

Il 15 gennaio rivolse due distinti e accorati appelli ai due capi di Stato. Evidenziando come nessun problema internazionale potesse essere risolto col ricorso alle armi e nella ferma convinzione che «la guerra, oltre a causare molte vittime, crea situazioni di grave ingiustizia che, a loro volta, costituiscono una forte tentazione di ulteriore ricorso alla violenza», a Saddam Hussein chiese di voler «prendere le decisioni più opportune e compiere gesti coraggiosi che possano essere l’inizio di un vero percorso di pace». A Bush fece rilevare come fosse molto difficile che la guerra potesse portare «un’adeguata soluzione ai problemi internazionali e che, anche se una situazione ingiusta potesse essere momentaneamente risolta, le conseguenze che con ogni probabilità deriverebbero dalla guerra sarebbero devastanti e tragiche». Lo invitò infine a non illudersi «che l’impiego delle armi, e soprattutto degli armamenti altamente sofisticati di oggi, non provochi, oltre alla sofferenza e alla distruzione, nuove e forse peggiori ingiustizie». Gli chiese, infine di «evitare decisioni che sarebbero irreversibili e porterebbero sofferenze a migliaia di famiglie di suoi concittadini e a tante popolazioni del Medio Oriente».

Quest’appello, a differenza di quello analogo formulato a suo tempo da Giovanni XXIII in occasione della crisi di Cuba, venne sottovalutato, fu considerato frutto di un semplicistico confidare in istanze utopiche, restò con superficialità inascoltato. Oggi, alla luce di un trentennio di esperienza storica, possiamo verificarne la grande e realistica lungimiranza profetica di parole dette in nome della pace.

Il periodo trascorso, se si esaminano gli eventi senza precomprensioni, mostra con tutta evidenza come quell’avventura bellica, anziché determinare, come superficialmente propagandato dagli ambienti militari occidentali, una rapida e quasi indolore soluzione di problemi, possa essere considerata se non l’origine, di certo un evento che ha contribuito profondamente a destabilizzare ulteriormente l’area mediorientale, a favorire successivi conflitti e a creare le condizioni per l’affermazione in Iraq del califfato islamico.

Confermando le previsioni di Giovanni Paolo II, si sono moltiplicati nuovi e feroci conflitti armati, contribuendo ad avviare quella che poi papa Francesco ha definito “una guerra mondiale a pezzi”. Non solo! La destabilizzazione dell’area è anche all’origine di una delle correnti migratorie di maggiori dimensioni, che proprio dalle terre di quella che un tempo chiamavamo “la mezza luna fertile” vede migliaia e migliaia di esseri umani fuggire dalla guerra, dalla violenza, dalla miseria e dalla discriminazione.

Una corrente migratoria che ai confini dell’Europa, anziché accoglienza, incontra il rifiuto anche violento operato da parte dei “ricostruttori del muro di Berlino”, giungendo a fenomeni di vero e proprio sequestro di persone e di riedizione di campi di concentramento.

In questo quadro si inserisce il dibattito, aperto in questi ultimi mesi nel nostro paese, dalla riproposizione di un’iniziativa che punta a introdurre nella nostra legislazione una normativa ispirata ai principi dello ius soli, per prevedere modalità che consentano il conseguimento della cittadinanza a persone nate in Italia da genitori immigrati.

La sola proposta del tema ha determinato un’immediata alzata di scudi da parte degli ambienti della destra xenofoba e razzista, che ha letto in essa un presunto attentato all’identità nazionale e alle prospettive di sviluppo del Paese. Sembra di essere – per certi versi – tornati all’epoca della tarda antichità, quella dei regni romano-barbarici, allorché ebbero a confrontarsi due visioni alternative del diritto, quella della “territorialità”, propria del diritto romano, e quella della “personalità”, che caratterizzava le popolazioni germaniche. La storia allora mostrò che, alla fine, a dispetto della superiorità militare germanica, il principio della “territorialità del diritto” mostrò in tutta la sua pienezza la propria superiorità.

Lo ius soli, se ben esaminato, appare piena espressione di un principio di territorialità del diritto, che affonda le proprie radici nell’antichità, sino al diritto romano classico.

Anzi desta meraviglia che un principio, di incontestabile origine latina, sia fatto proprio dalla legislazione di molti paesi e sia, invece, oggetto di contestazione proprio nel paese diretto erede della cultura classica latina.

Contestazione fatta per giunta in nome di una presunta, quanto infondata, difesa dell’identità nazionale.

Ma il riconoscimento della cittadinanza a chi è nato in Italia, oltre che a fondarsi su centrali e alti elementi di diritto, e nonché sia richiesto da elementari istanze di accoglienza e di lotta all’ingiustizia, rappresenta anche un’enorme opportunità indiscutibile di crescita economica e culturale. Lo sforzo che sarà necessario compiere per garantire nel Mediterraneo la libera e sicura circolazione degli uomini e delle idee, per costruire percorsi scolastici ed educativi capaci di mettere in comunicazione culture diverse, per garantire a chiunque giunga sulle nostre coste e dentro i nostri confini condizioni di vita degne di esseri umani, richiede l’impegno a costruire un grande progetto di accoglienza e di sviluppo, che avrà inevitabilmente anche grandi ricadute sul piano della crescita economica del paese. Chi giunge in Italia e vive accanto a noi, coltiva i nostri campi, ci fa da badante, non è un nostro nemico e può percorrere, assieme a noi, la stessa strada per rendere il nostro paese un paese migliore.

Chi grida lo slogan insultante “prima gli italiani”, non si rende conto di lavorare in realtà affinché gli italiani arrivino ancora una volta ultimi. Le tentazioni autarchiche, come ha abbondantemente dimostrato la storia, sono alla fin fine autodistruttive.

 Da Tempi di Fraternità

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