La democrazia al cloroformio…

La democrazia al cloroformio,
nuova edizione del porgi l’altra guancia

La democrazia al cloroformio,
nuova edizione del porgi l’altra guancia

Le democrazie occidentali sono il risultato di un lungo processo segnato darivoluzioni, guerre di religione, riforme ispirate dai philosophes e realizzate dai prìncipi, insurrezioni violente e silenziosi movimenti di opinione. Alla fine di questo processo si sono ottenuti l’abolizione dei privilegi di nascita, il parlamentarismo, il suffragio universale, che avrebbero dovuto garantire l’autogoverno dei popoli e assicurate ad ogni individuo la partecipazione alle scelte relative al bene comune, mentre, grazie ad una continua funzione di controllo, ogni attività di governo sarebbe stata finalizzata a soddisfare gli interessi, i bisogni e il volere popolari.


Bene: nella storia millenaria dell’Europa, prima che cominciassero a cadere le teste coronate, prima che si proclamassero solennemente i diritti dell’uomo e del cittadino, quando ancora nessuno aveva rivendicato la libertà religiosa e non si erano ancora accesi i lumi della ragione, con regimi quanto più lontani si possa immaginare dalle masse contadine e dalla gente comune, con tutto il potere nelle mani capricciose del monarca assoluto e in presenza dei più spudorati privilegi per le aristocrazie, il principio che lo Stato, quale che ne sia la forma, ha senso ed è legittimo se garantisce la sicurezza del popolo e ne interpreta il comune sentire – del popolo intero e in primis proprio di quelle masse contadine apparentemente più lontane dal potere – non era mai stato violato. Se le campagne erano infestate dai briganti, questi venivano braccati e una volta catturati venivano esposti al pubblico ludibrio, torturati, mutilati e impiccati per soddisfare la voglia di vendetta delle loro vittime. E se lo slavo o il saraceno minacciavano le coste o le vallate, signori e cavalieri non si voltavano dall’altra parte né si mettevano a disquisire all’interno dei loro castelli sulle cause che spingevano gli invasori a lasciare le loro terre per venire a saccheggiare le nostre ma provvedevano a sterminarli. E questo non vale solo per tempi lontani di cui si stenta a mantenere il ricordo: quando nei decenni successivi alla nostra unificazione nazionale i viticultori italiani rischiavano di essere soffocati dalla concorrenza sleale d’oltralpe, quel governo che secondo gli storici sarebbe stato impegnato ad affamare il popolo non esitò a minacciare la guerra contro la Francia. Piaccia o no, è così che si difendono gli interessi nazionali e difendere gli interessi nazionali significa onorare il patto su cui si regge lo Stato.


Quel patto le democrazie occidentali l’hanno spudoratamente violato. Il caso dell’Italia è surreale: il governo del Paese è in mano a una cricca palesemente e dichiaratamente ostile alla nazione e in particolare ai ceti popolari, alla grande massa di lavoratori dipendenti, di artigiani, di professionisti, medici, insegnanti e di quanti col loro lavoro, la loro intelligenza, la loro creatività del Paese reggono l’impianto e lo mantengono in vita. E così, di fronte all’evidenza, e sottolineo evidenza, incontrovertibile evidenza, che l’invasione, chiamiamola pure immigrazione – tanto non cambia nulla – è una minaccia per la sicurezza, un disastro per lo Stato sociale, una bomba demografica oltre che culturale e politica, un peso intollerabile per le finanze, per la sanità, per la previdenza, all’interno di quella cricca minimizzano, parlano d’altro, raccomandano ai direttori di giornali di nascondere l’identità di autori di crimini quando si tratta di extracomunitari, arrivano al punto di far passare centinaia di migliaia di mantenuti a spese del contribuente italiano come una risorsa. Certo, l’Italia in mano alla sinistra è un caso a sé, è l’unico Stato europeo ansioso di sciogliere quel che resta della sua sovranità nel calderone dell’Europa ed è anche l’unica sinistra che nella sua sinistra non pende verso le piazze ma verso i salotti, tant’è che ci ha regalato la presidente della Camera, notoriamente sensibile ai problemi dei rinnovi contrattuali per i metalmeccanici.

Ma come si comportano gli altri governanti europei di fronte al nemico interno che attenta alla vita di chi passeggia per le strade, va a fare la spesa, passa le serate in discoteca? Solo negli ultimi due anni sono stati ammazzati 337 cittadini europei, senza contare quelli trucidati in Tunisia e in Bangladesh, e altre 500 persone portano sulla loro pelle i segni degli attacchi ai quali sono scampate. Anche i russi hanno pagato il loro tributo di sangue ma nessuno ha chiesto loro di non aver paura, di non generalizzare, di non lasciarsi andare all’odio, di continuare come se niente fosse successo. Lo Stato lì si è fatto carico della vendetta e si può star certi che non dimentica le stragi perpetrate dai ceceni, quei ceceni ospitati e coccolati dalla Francia, e dai loro mandanti né dimentica esecutori e mandanti dell’attentato terribile all’aereo colmo di turisti sul cielo del Sinai. I governanti europei invece tremano all’annuncio di un incidente ma non per le vittime: tremano perché un attentato mette a repentaglio le loro politiche sull’integrazione, i buoni rapporti con l’islam, con le minoranze islamiche e i Paesi fornitori di petrolio; un attentato alimenta il risentimento popolare e allora si spera che la matrice sia di destra e se poi c’è una rivendicazione e qualcuno ha sentito urlare Allah u Akbar! si fa un po’ raffreddare la notizia, si fa trapelare che l’autore sia uno squilibrato o tutt’al più un lupo solitario.


 E poi le veglie di preghiera, senza ira, per carità, come se a uccidere fosse stato un fulmine caduto dal cielo, le interviste edulcorate centrate sulla vittima, senza una parola sui motivi che hanno guidato gli assassini, le analisi stucchevoli degli “esperti”, le sciocchezze di commentatori e psicologi, il cui succo è “dobbiamo imparare a convivere col terrorismo (islamico evitano di dirlo)”. Sradicarlo no? Ma sradicarlo costerebbe molto, sul piano interno e internazionale, vorrebbe dire infliggere punizioni esemplari, estese a familiari e fiancheggiatori, esercitare controlli preventivi, limitare la libertà non delle potenziali vittime, come si pretende di fare ora, ma dei potenziali aggressori, riconoscendo una buona volta che il martire non agisce in proprio ma in nome della sua comunità, è l’espressione conclamata di un sentimento diffuso di ostilità, di quel misto di disprezzo, di risentimento e di invidia che cresce di generazione in generazione nelle enclave musulmane, che ha la sua origine vera non tanto nella lettera del Corano quanto nella eterocronia dello sviluppo culturale, etico e politico, che produce i suoi primi effetti proprio all’interno del mondo arabo, teatro di stragi continue tese a impedirne deviazioni e cedimenti. La vocazione pedagogica dell’attentatore prevale sull’obiettivo militare o terroristico: la sua è prima di tutto una professione di fede, una testimonianza rivolta ai suoi correligionari. L’attentatore colpisce il crociato ma si rivolge al fratello per rincuorarlo, inorgoglirlo, rinsaldarne la fede.


 All’indomani della strage dell’11 settembre una folla di americani inferociti linciò un incolpevole indiano perché aveva in testa il turbante. Uno degli effetti della scuola di massa americana è per l’appunto l’ignoranza anch’essa di massa: non sorprende che l’americano medio confonda induisti e musulmani e non solo non sappia niente della mattanza che c’è stata fra di loro ma non ne distingua i copricapo. L’obiettivo era sbagliato, l’intento deplorevole ma la furia popolare era ampiamente giustificata. Sta allo Stato, alle forze dell’ordine, contenerla e impedire che al crimine si aggiungano altri crimini ma quella furia ci deve essere, bisogna che ci sia altrimenti c’è la rassegnazione l‘indifferenza, l’alternativa fra la paura e il far finta di nulla: “dopo avere acceso qualche candelina, dimentichiamo alla svelta”. In America la furia popolare ebbe il suo riflesso nello sgomento e nella rabbia di Bush e a farne le spese, anche in questo caso, fu un obiettivo sbagliato, il regime laico di Saddam Hussein. Tuttavia, sbagliato o no, in buona o in cattiva fede, una reazione ci fu e fu una reazione estremamente dura, tanto da far capire prima ancora che ai terroristi al popolo americano che non si può impunemente colpirlo, che il suo governo, pur sbagliando, agiva con la stessa rabbia di ogni cittadino, di ogni parente delle vittime degli attentatori musulmani. In Europa no, nelle democrazie europee questo non accade. Non dico dell’Italia, che del terrorismo islamico è la base e dove è proibito accostare terrorismo e islam come se i terroristi fossero psicolabili, prodotti di periferie degradate, invasati che si emulano a vicenda o, questa è l’ultima trovata, figli che si ribellano contro i genitori, ma mi riferisco alle più mature democrazie occidentali e a governi che, in generale, perseguono, a differenza del nostro, l’interesse della loro nazione.


 Quando però si tratta di terrorismo no, l’interesse nazionale sembra sia quello di menare il can per l’aia, di distrarre, di evitare il cuore del problema.Veramente sconcio il titolo con cui Avvenire dava notizia della strage del 18 agosto: Ragazzi contro ragazzi, come se si trattasse di una guerra fra bande di adolescenti e non dell’ultimo episodio dell’attacco sistematico che il mondo islamico per mantenere la propria identità conduce contro la secolarizzazione. E mi dà un senso di nausea il pudore ipocrita con cui i media italiani evitano di esibire la foto del bambino schiacciato dal terrorista marocchino quando per mesi gli stessi media hanno cercato di colpevolizzarci esibendo l’immagine del piccolo Ayan annegato sulle coste turche di Bodrum per esclusiva responsabilità del padre scafista. Ma un bambino annegato serve per zittire i cattivi e fare pubblicità alle Ong, il suo coetaneo maciullato sotto le ruote non ha nome, va dimenticato alla svelta, va scotomizzato, non fosse mai che svegliasse le coscienze, innescasse un moto di rivolta contro l’invasione, contro la società multietnica, contro la retorica e l’ipocrisia dell’integrazione, contro chi ci vuole convincere che non è successo nulla, non c’è nessuna guerra, non c’è nessuno scontro di civiltà, sono episodi insensati, sono cellule dell’Isis ormai allo stremo, sono elementi radicalizzati per i quali si farà maggiore attenzione per identificarli; e poi, in fondo, – questo non lo dicono ma lo pensano – solo in Italia muoiono più di 3500 persone ogni anno per incidenti stradali, quindi lasciamo perdere e tiriamo a campare. E soprattutto proseguiamo nel disegno di ottundimento collettivo per spianare la strada ad una società globalizzata, appiattita, senza patria, senza confini e senza l’ultimo ingombrante simulacro di democrazia.

Pier Franco Lisorini

 Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

 

 

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