La casta

L’IMPOPOLARITA’ DELLA “CASTA”

L’IMPOPOLARITA’ DELLA “CASTA”

L’Italia, nonostante la “vulgata” corrente, è ancora una Repubblica Parlamentare, così come è stata disegnata dalla Costituzione del 1948: una Repubblica parlamentare che non può che basarsi su una forma di “democrazia rappresentativa”.

Ebbene, che in un quadro di “democrazia rappresentativa”, l’opinione pubblica di un grande Paese come il nostro accetti, per quel che riguarda la sua classe politica ed istituzionale, la definizione giornalistica di “casta” è, già di per sé, indice di una profonda crisi di sfiducia, tale da minare l’intero impianto del sistema politico.

Un fenomeno che compare per la seconda volta nel giro di meno di vent’anni: capitò con Tangentopoli e allora implosero i grandi partiti di massa (le cause furono diverse, ma abbiamo ridotto la descrizione all’osso).

Si pensò di risolvere tutto attraverso la modifica del sistema elettorale, la riduzione dei partiti a “soggetti liquidi”, esaltando la personalizzazione della politica.

Oggi, gli esiti di quell’operazione si rivelano del tutto disastrosi e la ribellione alla “casta” minaccia di lasciare un segno ancora più profondo sul terreno della semina di sfiducia, di qualunquismo, di ripiegamento individualistico e corporativo: l’Italia ha vissuto in questi anni, al di là dell’indignazione di settori limitati di opinione pubblica, in una sorta di baraonda di promesse elargite da un regime di stampo prettamente populistico, i cui livelli di mediazione intermedia sono stati rappresentati da partiti “personali” (esistenti a destra, come a sinistra), oppure da soggetti ibridi, all’interno dei quali si è realizzata una semplice corsa verso le ricche prebende degli incarichi istituzionali o d’altra natura, incapaci di darsi un’identità e di attingere a livelli adeguati di memoria e di radicamento sociale.

Adesso al centro di una manovra economica “lacrime e sangue” imposta soprattutto per via del vincolo esterno, il massimo della recriminazione sociale appare essere rivolto ai mancati tagli dei cosiddetti “costi della politica” che, appunto, i commentatori più arrabbiati definiscono come “difesa dei privilegi della casta”.

Affrontiamo allora il tema, cercando di approfondire almeno due aspetti.

Il primo riguarda il ruolo dei partiti: si tratta della ver anomalia del sistema politico italiano.

Una duplice anomalia.

Da un lato abbiamo un’estensione esponenziale di quella che Giuseppe Maranini aveva definito, fin dal 1949, come “partitocrazia”, come giustamente segnalava sulle colonne del Corriera della Sera del 17 Luglio Michele Ainis ponendo all’attenzione il fatto che, in questo momento, i partiti occupano la sfera istituzionale, quella rappresentativa, quella partecipazionale (esempio clamoroso quello relativo alle proposte di referendum sulla legge elettorale, da tutti giudicata unanimemente da buttare, laddove si fronteggiano due opzioni legate al confronto interno al PD che finirà con l’immobilizzare il tutto e lasciare le cose come stanno).

 
A questo elemento, che corrisponde al massimo dell’estensione del potere (ci riferiamo, di nuovo, alla legge elettorale che consente di “nominare” a tavolino almeno l’80% dei membri del Parlamento: ma non si tratta soltanto di questo, beninteso, pensiamo agli enti locali, al sottogoverno, ecc., ecc.) si contrappone il minimo di popolarità (abbiamo già segnalato come il termine “casta” sia ormai comune nell’accezione popolare) e, soprattutto, il minimo di collegamento con la società e le sue istanze: non si tratta soltanto di un abbassamento verticale nei cosiddetti “indici di fiducia”, ma di una trasformazione venuta avanti con il tempo sul terreno del radicamento sociale, della militanza, della formazione della struttura dirigente, dell’utilizzo del finanziamento pubblico e delle tante forme di benefits che lo accompagnano.

 

L’apertura di una riflessione di fondo su questo punto è urgente e va sviluppata in forma collettiva, organizzata, non cedendo alla tentazione del “movimentismo” e del “personalismo” di qualche leader, come sta invece accadendo.

Così come, per tornare al tema dei “costi della politica” occorre aprire uno squarcio sulla questione istituzionale.

Tutto ciò che è stato fatto, finora, per fronteggiare il problema “costi della politica” è stato fatto in termini di riduzione non dei costi ma della possibilità di partecipazione popolare e di accesso alle istituzioni da parte di soggetti non facenti parte del “cartello”.

Si tratta, invece, di rivedere funzioni, compiti, ruoli e soprattutto costi impropri.

La mancata abolizione delle province, ad esempio, ha fatto scalpore: ovviamente occorre un piano ben preciso anche sotto questo aspetto, un progetto, una prospettiva.

Le Province possono svolgere una funzione importante nel senso di funzionare da coordinamento per i Comuni (là dove non può agire l’Area Metropolitana), fungendo da capofila, fornendo servizi alle Unioni di Comuni e quant’altro.

Tutto questo a costi fortemente ridimensionati, snellendo gli apparati e facendo in modo che gli eletti in un Ente di questo tipo non possano rientrare nel novero (esagerato) dei “professionisti della politica”.

Così come ci sono questioni che riguardano le Regioni che andrebbero esaminate con altrettanta attenzione, a partire dall’elefantiasi che ha colpito gli apparati di supporto agli eletti dal momento in cui è entrata in vigore l’elezione diretta del Presidente della Giunta (quanto costano, al momento e nel prosieguo, queste elezioni dirette dovrebbe essere analizzato con serietà, e questo vale anche per i Sindaci e i Presidenti di Provincia, autorizzati a dotarsi di staff, di uffici di consulenza, di propaggini varie che conservino ed accrescano il meccanismo della personalizzazione).

Per quel che riguarda le Regioni, però, il punto vero riguarda il bilancio della regionalizzazione di due settori come la sanità e i trasporti: bilancio da eseguire non soltanto sotto l’aspetto contabile, ma anche dei risultati, dell’efficienza dei servizi, della risposta reale ai bisogni dei cittadini.

Infine , sullo sfondo, le grandi questioni riguardanti le istituzioni centrali: prima fra tutte quella relativa al “bicameralismo paritario” (che qualcuno ha definito ridondante) tra Camera e Senato e la mancata attuazione, sotto questo aspetto, della riforma del titolo V della Costituzione (avvenuta, è bene ricordarlo, nell’ormai lontano 2001).

Ruolo dei partiti e geografia istituzionale questi i temi di fondo, a nostro giudizio, da affrontare sul terreno della “casta” e della sua ormai acclarata “incredibilità sociale”.

Chi pensa all’alternativa dispone di risorse politiche e culturali per muoversi in questa direzione, oppure intende limitarsi a scimmiottare il modello attuale, perdente e pericoloso, che sta declinando?

Savona, 18 luglio 2011      Franco Astengo

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