La cartina di tornasole. Amerika über alles

La guerra in Ucraina non ha portato indietro le lancette della storia, ha semplicemente mostrato che quelle lancette non si sono mai mosse. Del resto, si sa, il tempo della storia non è quello dell’orologio, uniforme, lineare e scandito per intervalli tutti uguali. Il tempo della storia è come quello dell’esistenza umana: si appiattisce, si dilata, da acqua stagnante diventa improvvisamente un torrente impazzito; ora fermo nel ripetersi degli stessi gesti nella fissità delle abitudini ora un precipizio che stravolge la nostra stessa identità e ci rende irriconoscibili a noi stessi. Lo sa bene chi la storia la insegna: una sola lezione per riassumere tre secoli e un intero trimestre per seguire giorno per giorno la rivoluzione francese o, se non ci vogliamo spostare dai nostri lidi, dopo il frettoloso scorrere di governi nell’Italia postunitaria il rallentamento negli anni e nei mesi convulsi che segnarono il tramonto dello Stato liberale.

Bene: con tutto il parlare di trasformazioni epocali nel costume, nello stile di vita, nei gadget che la tecnologia e l’industria ha messo a disposizione delle masse, dalla fine della guerra mondiale ad oggi non è cambiato nulla: l’Europa ha perso la sua centralità, gli imperi coloniali sono crollati, l’Inghilterra è diventata una potenza regionale e si è affermato l’imperialismo economico, politico e militare degli Stati Uniti, insieme gendarmi e sfruttatori dell’intero pianeta. Un ruolo che è costato la subalternità culturale oltre che politica ed economica prima al continente americano poi all’Europa e al cosiddetto terzo mondo. Ne hanno fatto le spese la Corea, il Vietnam e tutto il sud est asiatico, la Libia, l’Iraq, l’Afghanistan, l’Africa mantenuta in una condizione di minorità e indirettamente tutto il mondo islamico, bloccato nel suo processo di laicizzazione e ridotto in una condizione di endemica fibrillazione.  La chiamano globalizzazione ma è la cappa del conformismo, del consumismo, del falso progresso stesa dai potentati industriali e finanziari americani, una cappa che copre il pianeta e che non tollera spazi vuoti. E se li incontra l’Impero del Bene, l’esportatore di democrazia e garante di libertà, mostra la sua vera faccia: uno schiacciasassi stupido e implacabile.

Profughi o sfollati?

Io so non per sentito dire che cos’è la guerra, cosa sono i bombardamenti, cosa si prova quando suonano le sirene e come si sta nei rifugi. Ma so anche meglio che cosa significa abbandonare casa e beni portando con sé qualche indumento e qualche ricordo e lasciare tutto fra le macerie della zona nera nelle mani di sciacalli e “liberatori”. E so soprattutto che lo sfollato vero non aspira ad andare all’estero per “rifarsi una vita” ma aspetta che la tempesta passi per ritornare nella sua terra e, se c’è ancora, nella sua casa. È la stessa aspirazione degli ucraini sfollati, quelli veri, che abbandonano le città industriali e portuali, i centri vicini alle basi militari e le località strategiche esposte ad attacchi aerei e di terra per rifugiarsi nelle campagne o, per essere più al sicuro, nei Paesi confinanti come la Romania e la Polonia; ma da lì non intendono muoversi perché  non sono attratti, come tanti loro connazionali  e i tanti migranti con la pelle scura o gli occhi a mandorla approdati in Ucraina e ora in marcia verso occidente (che i polacchi respingono col calcio dei fucili), dal miraggio di un benessere a buon mercato in Germania o in Italia. Ma ora alzano la testa, se mai l’avessero abbassata, tutti i fautori dell’accoglienza. Il patetico – e esiziale – ministro dell’istruzione smania perché ai bambini ucraini venga insegna la lingua italiana; poi ha dovuto correggere il tiro e riparare sulla Dad dall’Ucraina: ma secondo lui gli ucraini costretti a lasciare le proprie case sono profughi o sfollati? E perché mai a guerra finita, e prima o poi finirà, dovrebbero rimanere in Italia?

Che ne è della società ucraina?

Poi mi si dica: ma che fine hanno fatto gli oppositori di Zelensky, i milioni di ucraini che dell’Europa e della Nato non ne voglioso sapere, i russofoni (sono il 22%  della popolazione) che si rifiutano di rinunciare alla loro lingua e alla loro cultura? Non è che hanno più paura dell’esercito e dei miliziani di quanta ne abbiano per l’invasore russo? E chi se la sente di escludere che per molti quello non è un invasore ma un liberatore? Sulla complessità e il travaglio interno alla società ucraina non ho sentito una parola. Siamo al punto che per arrivare a poter dire che la Crimea è russa, è sempre stata russa, e che in Ucraina nell’indifferenza dell’Ue è in atto da decenni una feroce guerra civile senza esclusione di colpi il povero Cacciari prima di aprire bocca deve recitare  la filastrocca che Putin è comunque un invasore, un criminale da condannare moralmente e politicamente, forse un pazzo. Perché quello è il lasciapassare altrimenti sei un putiniano e zitto in un angolo (meglio sarebbe in galera). Ma anche così non basta e per i compilatori delle liste di proscrizione il filosofo veneziano rimane in compagnia dei reprobi che negano l’evidenza del pensiero unico. Infatti per i nuovi inquisitori le tardive professioni di fede, come quelle di Bruno o di Galilei estorte con la tortura,  sono sospette e i reprobi rimangono tali anche se si sottomettono. Come si è docilmente sottomesso Biloslavo, come con un po’più di resistenza ha finito per sottomettersi Capuozzo. D’altronde la pagnotta è più efficace di un tiro di corda. Non ne hanno bisogno Del Debbio o Capezzone, che finge di arrabbiarsi se qualcuno osa mettere in dubbio la strage e le torture russe di Bucha, la nuova Srebrenica, anzi – lo sostiene Zebrensky – il nuovo Olocausto. Che questa volta la butta di fuori, tant’è che il mite Mieli, unico fra i nostri uomini di penna, riesce ad indignarsi così come si sono indignati in Israele.  E, di nuovo, la domanda: che fine ha fatto quella parte della società ucraina e dell’elettorato ucraino – un buon 35%, senza considerare l’astensione – che non ha votato per il “servo del popolo”. Com’è che non se ne sente nemmeno una fievole voce? Non sarà che quella voce viene soffocata (e magari nel sangue)?

L’alternativa liberale

Ma se dubitare dei nostri media diventati passacarte dell’informazione ufficiale del governo ucraino, vale a dire dell’attore, produttore televisivo e sceneggiatore Zelensky, è peccato c’è anche chi vola più alto e dalla cronaca passa alla Storia, quella con la S maiuscola, la vichiana “ideal eterna”.  Lo fanno, volando con le “ali della libertà”, dall’empireo del pensiero europeo e liberale (sulla scia di Berlusconi?) quelli che non si accontentano di sognare processi sommari e una nuova Norimberga per il macellaio russo ma guardano oltre, al destino del pianeta.  Prendo ad esempio la Ragione; surreale quello che vi scrive quel Giacalone riparato dai rischi, anche giudiziari, della politica ai più sicuri lidi del giornalismo, che dopo lunga militanza nei quotidiani di destra – pardon, centrodestra – lo ha fondato e diretto: è in atto uno scontro di civiltà (e uno pensa all’integralismo islamico), dal cui esito dipende il futuro dell’umanità; per Giacalone però lo scontro di civiltà non è fra il mondo laico e l’integralismo religioso ma fra l’occidente e la Russia, fra la libertà e la tirannide, fra il nostro stile di vita e quello russo, come se la Russia fosse non dico la Corea del nord ma la Cambogia di Pol Pot. E il suo collega e cofondatore del quotidiano “d’area” di cui nessuno avvertiva la necessità rincara la dose: “Vladimir Putin ha alzato ancora una volta la posta. Dal 24 febbraio, in realtà da ben prima con la progressiva e studiata escalation contro l’Ucraina,  il dittatore di Mosca continua a spostare sistematicamente un po’ più in là l’orizzonte della sua sfida all’Occidente. Se appare ormai acclarato il fallimento di qualsiasi strategia militare sul terreno, in una guerra tramutatasi in azione bestiale oltre che illegale, lo spirito ultimo delle mosse dello zar resta sempre lo stesso. È una guerra al nostro mondo, ai nostri valori, ma anche alla globalizzazione e a un sistema di interscambio economico basato su un principio cardine: ci sono sistemi politici in cui non ci riconosciamo e con cui facciamo affari con puro spirito di realismo, ma sempre nell’alveo del diritto internazionale”. Un delirio, nel quale però per un brutto scherzo delle sinapsi fanno capolino la globalizzazione e i “sistemi di interscambio economico”, come se una vocina dispettosa avesse suggerito all’ex giornalista sportivo qual è il vero protagonista della vicenda ucraina.  Detto questo era meglio se continuava a commentare le partite di rugby per i tifosi da divano

Il feticcio dell’Europa

Giacalone , Giuliani, i Merlo, Tito, Quirico dei giornaloni di regime e tutto lo stuolo degli  anonimi esperti che hanno sostituito i virostar nel piccolo schermo non sanno che l’Ue è partita col piede sbagliato quando ha tenuto fuori della porta l’erede di Bisanzio e della romanità, vale a dire metà dell’anima europea e occidentale. Un’esclusione che agli occhi di De Gasperi o di Adenauer  era giustificata  dalla guerra fredda e dal pericolo comunista ma che dopo la caduta del muro di Berlino si spiega solo con la volontà americana di avere un partner debole e malleabile (e reso ancor più debole da un Regno unito con un piede dentro e uno fuori e  pronto a uscire sbattendo la porta). Un’Europa che non è Europa, che si scalda per l’integrità di un’ Ucraina artificiale, spinge verso l’Asia il centro del cristianesimo ortodosso e lacera il nostro tessuto storico e culturale, un’ Europa che ha scambiato gli interessi politici ed economici americani per i propri interessi, in fregola, come l’inqualificabile Draghi, per sostituire il gas russo con quello americano pagandolo il doppio e riempiendo le nostre coste di rigassificatori, in barba a tutte le politiche ambientali. Lo stesso Draghi ormai fuori controllo, e forse fuori di sé, che dice candidamente: noi andiamo dove vuole l’Europa. Ma noi allora non siamo l’Europa, se l’Europa è altro da noi, è la nostra guida? E noi che cosa siamo? Siamo, nella mente di Draghi, la dipendenza di un organismo economico finanziario, nemmeno un socio di minoranza, nemmeno un’appendice: solo una colonia con un governatore gradito a Wall street, approvato a Washington e nominato da Bruxelles.

Post scriptum

La maggioranza parlamentare è ormai una finzione e l’avvocato del popolo si è rassegnato a prenderne atto: al suo posto una dittatura retta dall’asse atlantista e guerrafondaio Letta-Meloni. Così gli elettori, quelli di sinistra e quelli di destra, sono serviti.


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