La bellezza dei vigneti

La bellezza dei vigneti

Ho trascorso una giornata fra i vigneti del Piemonte, delle nostre vicine Langhe. Ogni tanto ci torno, e da un po’ di tempo non avevo più fatto una scampagnata. 

La bellezza dei vigneti

 Ho trascorso una giornata fra i vigneti del Piemonte, delle nostre vicine Langhe. Ogni tanto ci torno, e da un po’ di tempo non avevo più fatto una scampagnata.

Mi sono fermato a Serralunga d’Alba. Si tratta di un piccolo borgo posto in cima a una collina. Al sommo del colle c’è il castello, tutto il paesaggio è talmente curato da sembrare finto. Però fa piacere passare un paio d’ore fra pietre, mattoni, legno e coppi. Il sole splendente di settembre, l’aria tersa, le vigne gravide, ormai pronte per la vendemmia, sono tutti contributi positivi da saper cogliere e mettere in magazzino, da godersi lungo l’inverno.


Dopo una passeggiata ci si può fermare in uno dei tanti locali. Hanno ancora i tavolini fuori. C’è gente che mangia, gente che beve. Molti di questi piccoli ristoranti hanno inalberato l’insegna: “Enoteca”, per cui vi si notano stroppi di turisti intenditori che bevono pochi centimetri cubici di un vino nero in bicchieri enormi e sottilissimi. Stanno in piedi, con una mano in tasca, roteano abilmente il bicchiere, traguardano fugacemente un riflesso, un archetto, poi annuiscono ad un loro corrispondente. Annusano, degustano, roteano ancora. Fa parte del rituale, mi dicono. Loro fanno parte del paesaggio, mi dico. Male non fanno: contenti loro.


I tavolini per sedersi al bar sono sul piccolo dehor esterno, oppure nel cortile interno. Si passa attraverso un varco carraio di mattoni a vista, oltre il cancello di ferro battuto aperto, e ci si accomoda. Si gode il sole, l’aria temperata, la quiete. E si ha tempo per guardare intorno con un poco di curiosità: dove siamo? Ecco, qui era un cortile di una casa del vecchio borgo. Al piano terra ci sarà stata una cucina enorme, poi le stalle, poi la cantina, più grande ancora della cucina. Di sopra le stanze da letto, anche per la servitù. Tutto intorno stanze affacciate sul ballatoio, dove ci sarà stato del granturco a seccare. O dei sacchi di nocciole. Attraverso quel cancello passavano i carri. Di legna, di carbone, di granone o di grano, di fieno o di paglia, di ortaggi, di patate e poi, preziosa fra tutti i frutti, l’uva. Vociare e tramestio di gente affannata nei giorni della vendemmia, come nei giorni della battitura. La casa era nata e cresciuta per queste funzioni: ricoverare rapidamente il frutto dei campi, poterlo amministrare, dividere, trasformare se occorre. Per fare tutto questo era stato costruito questo edificio con i materiali a disposizione sul posto: tronchi di legno, pietra di langa, terracotta per i coppi, sassi piatti per le soglie e parti dei cortili. E anche la tecnologia era quella locale: si mandava a chiamare il vicino o l’amico, pratico di murature, di case e di archi di pietra. E si faceva. Probabilmente si ripeteva un modulo costruttivo che altrove aveva avuto successo, tanto nella disposizione delle stanze e dei servizi, quanto nel metodo di edificazione. Chi lavorava, dall’artigiano, al committente fino all’ultimo garzone, non si poneva tanto il problema della bellezza, quanto il dovere di fare quello che esattamente ci si aspettava da loro.


Il risultato di questo antico lavoro, tante volte rimaneggiato, ampliato, modificato, diroccato e ricostruito nel corso dei secoli, è lì davanti a noi: pittoresco. Tolte le stalle, le concimaie, le latrine, tolto il disordine, i pollai o i depositi di legna da segare, ci resta un cortile lindo, accogliente, con un rampicante, la tinteggiatura da poco rinfrescata in colori adatti, il ferro battuto riverniciato delle vecchie finestre. È tutto davvero bellissimo, ed è un luogo tranquillo e  accogliente dove rilassarsi e gustare un bicchiere di buon vino.

Si prosegue e si scende verso valle. Qui si trovano alcuni piccoli capannoni in cemento armato o anche alcune tensostrutture adatte a ospitare i mezzi e i macchinari. Le vecchie cascine sono troppo piccole per accogliere tutti i mezzi necessari. Il paesaggio stesso (ci si rende conto prestando un poco in più di attenzione) è stato fagocitato dalla vite. Gli impianti di dolcetto, barbera o barolo, coprono ogni centimetro quadrato disponibile. Grazie a mezzi meccanici sempre più potenti si possono mettere a dimora viti in terreni scoscesi o durissimi, come fino a pochi anni fa non sarebbe stato possibile. Macchine automatiche sistemano profilati di sostegno in perfetto ordine e a distanza costante. Perfetto anche il cavetto di acciaio che unisce i profilati. Dappertutto.


 

Se ci ragiono senza lasciarmi influenzare dallo spettacolo davanti a me (il paesaggio resta comunque bellissimo, inquietante, emozionante) trovo che questa non sia più agricoltura. O perlomeno non sia più quell’agricoltura che esisteva fino ad alcuni anni fa. Ammettendo pure che si trattava di un mondo duro e ingiusto (leggasi “La Malora” di Fenoglio, ad esempio), oggi ci sono segnali inquietanti di una degenerazione progressiva.

Le antiche strutture, perfino i castelli, nati per causa di una agricoltura ricca, grazie a una terra fertile e produttiva, che consentiva mercati e scambi, sono diventate a loro volta attrattiva turistica. Bello il borgo e la vecchia cascina, l’archetto di mattoni a vista, il muro in pietra di langa, il coppo, il legno, il ferro battuto. Però questi erano edifici funzionali: servivano alla vita e al lavoro. Oggi sono solo (quasi) estetici. E gli edifici moderni, i depositi e le cantine attuali, i capannoni, potranno mai essere usati per farci un’enoteca? Per ospitare turisti? Nel vecchio borgo c’era ancora, poco leggibile, un’insegna con scritto: “Generi alimentari”. Il negozio non c’era più, fagocitato da un’enoteca. Bene, anche qui il paese è un fantasma, che si nutre solo di turismo. Non più servizi, non più negozi, non più residenti. Proprio come i finti paesi degli outlet.


Le viti impiantate per ogni dove hanno tolto terra a qualsiasi altra coltura (salvo qualche boschetto di profumatissime nocciole Piemonte). In assoluto, avere in coltura solo due tipi di piante, vuol dire essere più poveri, anche se nella realtà il coltivatore e il produttore sono più ricchi che non un tempo.

La cascina piemontese funzionava perché si produceva tutto, e l’eccesso poteva essere scambiato o venduto. Un azienda che fa solo viti, solo uva, non si porta dietro mai e poi mai il bagaglio culturale di un contadino di langa, allevatore di maiali, galline, conigli, vacche e vitelli. Coltivatore di viti, nocciole, grano, patate, mais, fagioli. Tagliatore di legna, raccoglitore di funghi o di castagne. Vivente nella sua cascina, vero strumento per vivere e per lavorare.

Ce ne stiamo rendendo conto, non solo sulle Langhe, ancor più a Venezia, patrimonio mondiale. Una città (specie nel suo nucleo storico) in cui i residenti danno solo più fastidio. Dove non c’è più un negozio che non sia di souvenir, dove quasi tutto ha perso la sua funzione a vantaggio del turista di passaggio. Non so se è giusto. Perlomeno chiediamocelo.

 

    ALESSANDRO MARENCO

 

 

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