La battaglia per la conoscenza

La battaglia per la conoscenza
La ricchezza delle nazioni non è nel sottosuolo
ma nella mente umana

 La battaglia per la conoscenza

La ricchezza delle nazioni non è nel sottosuolo
ma nella mente umana

Il ventesimo secolo ha portato a compimento il Kulturkampf, la battaglia per la civiltà, inaugurata da Bismarck nel 1871, iniziata con l’estromissione della Chiesa dall’educazione nazionale e proseguita con la liberalizzazione del costume, con la ridefinizione dei ruoli legati al genere, col riconoscimento della libertà di coscienza. Il ventunesimo secolo sarà quello dell’Erkenntniskampf, la battaglia per la conoscenza che realizza l’utopia baconiana del regno del sapere. 


L’approccio meccanicistico al lavoro proprio degli economisti settecenteschi e codificato da Marx riduceva il lavoro manuale a pura forza motrice e concepiva il lavoro intellettuale sul modello di quello manuale. Tutto ridotto a forza-lavoro quantificabile, a dispendio energetico e a unità temporali rigide che si riflettono sul concetto di paga oraria. Con l’Erkenntniskampf si impone il rovesciamento del rapporto fra lavoro manuale e lavoro intellettuale: invece di ridurre questo a quello si fa esattamente il contrario, riconoscendo al lavoro manuale, al movimento, la sua natura intelligente e riconducendo gli schemi d’azione alla loro base mentale. Anche nelle attività considerate umili, automatiche e ripetitive si esprime un lavoro mentale che sul piano psicofisiologico corrisponde alla attivazione di nuove sinapsi e di nuovi circuiti neurali e sul piano empirico alla acquisizione di competenze. Competenze che tendono a disporsi gerarchicamente e che, se non vengono compresse, tendono spontaneamente a evolvere secondo un proprio dinamismo interno che agisce secondo i principi dell’efficienza e dell’efficacia. Un po’ come accade ad un giocatore di scacchi che partita dopo partita elimina le mosse inutili e acquisisce progressivamente schemi tattici più efficaci e una più chiara visione strategica. 


Come tutte le rivoluzioni è in realtà una restaurazione o, se vogliamo, una riconquista, la riconquista dell’essenza originaria dell’homo faber. Due fra i maggiori scienziati sociali del secolo scorso avevano indicato la strada. Uno, lo svizzero Jean Piaget, aveva brillantemente dimostrato la continuità fra gli schemi senso-motori, quelli rappresentativi e il pensiero ipotetico-deduttivo; l’altro, l’americano John Dewey, aveva sostenuto se non l’inutilità quanto meno i limiti dello studio e, in generale, dell’apprendimento per imitazione, riprendendo, forse inconsapevolmente, la lezione platonica: la conoscenza si acquisisce dall’interno, grazie ad una scoperta personale condotta con le stesse procedure della ricerca scientifica. La scuola ha il compito di fornire un ambiente stimolante, di proporre situazioni problematiche, di sollecitare la curiosità, l’inventiva, il problem solving. Mi preme chiarire che non si tratta di privilegiare la cultura scientifica a danno di quella umanistica. Tutt’altro: la stessa distinzione, non dico contrapposizione, fra le due culture è frutto di un equivoco destinato a chiarirsi nel momento in cui si coglie il nesso fra conoscenza e intelligenza, fra sapere e capire. Imparare da un libro la procedura da seguire nella soluzione di una funzione complessa o ripetere facendole proprie le considerazioni di un critico letterario su un testo poetico non hanno nulla a che vedere con la conoscenza, sono solo esercizi di memoria e acquisizioni passive di materiale inerte.  Ma avvertire come propria una questione filosofica, cogliere l’intento di uno scrittore o scoprire l’evidenza di un’equazione mette in gioco l’intelligenza, cha da virtuale diventa attuale nell’atto conoscitivo.


La ricchezza delle nazioni non è nel sottosuolo, ieri il carbone, oggi il petrolio, domani il silicio. La ricchezza delle nazioni, ieri come oggi è l’intelligenza da cui scaturisce il sapere. È il sapere che ha reso importante prima il carbone, poi il petrolio, ora il silicio ma ciò che è veramente importante è il sapere stesso, il sapere in sé. È questa la vera risorsa delle nazioni. Quando si parla di Paesi industrializzati, di Paesi tecnologicamente avanzati, di Paesi informatizzati ci si riferisce propriamente alla loro creatività, che è sottesa allo sviluppo industriale, tecnologico, informatico e viene coltivata e attivata dal sistema formativo. I Paesi più avanzati sono quelli capaci di utilizzare l’intelligenza dei loro cittadini, sono quelli che hanno avuto l’accortezza di mettere al centro l’istruzione e la formazione. Considero un brutto scivolone quello del governo gialloverde che non spende una parola per la scuola e la affida a un Bussetti qualunque quando avrebbe dovuto assicurarsi  il meglio che la cultura accademica è in grado di esprimere senza badare ai  colori e ai patroni partitici. Se, infatti, è vero che la pars destruensdi una seria politica di rilancio nazionale consiste nel liberare il Paese dai clandestini e nel restituire agli italiani lo stato sociale, la pars construensprima che nelle chiacchiere su investimenti e stimoli all’imprenditoria sta nel potenziamento del sistema scolastico, negli interventi sulla qualità dell’insegnamento, nel riordino e nel disboscamento delle università.

Il progresso non è orientato verso il superamento dell’uomo, verso il macchinismo, verso l’alienazione ma verso la liberazione delle risorse intellettive. E, in ogni ambito e in qualunque scala, a mano a mano che si afferma la centralità dell’intelligenza si eliminano i movimenti parassitari, i dati superflui, le zavorre e i lacci che impediscono al suo potenziale di esprimersi. Al raffinarsi delle competenze corrispondono percorsi più lineari e una progressiva smaterializzazione,  che non significa maggiore specializzazione più iniziativa  più spazio all’iniziativa ma non meno lavoro. 


E, per ciò che riguarda gli assetti geopolitici, fa un po’ sorridere sentire Cacciari che parla di colossi, di superpotenze, della Germania staterello come tutti i paesi europei, della nazione come retaggio del passato, del sovranismo come roba da arteriosclerotici. Cacciari, al quale qualche salotto radical chicha fatto credere di essere un filosofo, non fa che riecheggiare luoghi comuni da bar sport infettati dal qualunquismo anarcoide e disfattista. In politica e nei rapporti fra Stati non conta la quantità ma la qualità: la Cina è una grande potenza commerciale, industriale e, forse, militare, non grazie al suo corpaccione ma nonostante il suo corpaccione, lo stesso corpaccione che impedisce a Paesi come l’India o il Pakistan, l’Argentina o il Brasile di decollare. Lo stesso Cacciari dovrebbe sapere una cosa che è familiare a qualunque studente di liceo: la totalità è qualcosa di più della somma delle parti ma un aggregato è molto meno della somma dei singoli componenti e l’Europa non è una totalità ma un semplice aggregato.


La cultura europea, o occidentale, è una totalità, la letteratura europea è una totalità, come lo è la filosofia; ma l’Europa politica è solo un insieme appiccicaticcio di Stati europei dal quale, fra gli altri, è esclusa proprio la Russia, che di quella cultura è parte essenziale al pari del Regno Unito che ha pensato bene di venirne fuori. L’Europa della Mogherini è una nullità in ambito diplomatico, non ha alcuna forza contrattuale, mentre la Germania continua a esercitare un peso sulla politica mondiale indipendentemente dalla sua appartenenza all’UE, come accade per la Francia e, vivaddio, anche per l’Italia. Che poi ci siano dei vantaggi economici, finanziari, commerciali per i Paesi che hanno rinunciato a parte della loro sovranità delegandola a Bruxelles è probabile ma non certo: di sicuro, se vantaggi ce ne sono e ce ne sono stati, non sono stati uguali per tutti. Insomma se è vero che ci sono due superpotenze politiche, Stati Uniti e Russia, è in parte un’eredità della seconda guerra mondiale e in parte conseguenza di sistemi politici con una guida fortemente personalizzata di cui beneficia soprattutto la Russia, che grazie a Putin è in grado di bilanciare una potenza di gran lunga superiore sotto il profilo economico e commerciale. Al “filosofo” e tuttologo che giudica trascurabile il peso della Germania perché il suo pil non raggiunge il 3%,di quello mondiale (non è vero: è abbondantemente il 5%, ma non sottilizziamo), ha una superficie di poco più di 350.00 km²e un numero di abitanti che scompare di fronte ai 7 miliardi e mezzo della popolazione del globo andrebbe chiesto se per lui, con questo metro, Israele è una piuma al vento e la Nigeria una minaccia incombente sul mondo intero (in effetti lo è ma solo perché esporta le sue bocche da sfamare e la sua delinquenza). 


Con la stessa forza argomentativa con cui si sostiene che il mondo è diviso in blocchi, che si è andati verso una semplificazione, si può sostenere che i blocchi si sono sgretolati e che si va verso una progressiva complicazione. Il numero dei protagonisti sullo scacchiere mondiale è aumentato, non è diminuito.

La Nazione è stata troppo frettolosamente liquidata per compiacere interessi legittimi, come le nuove versioni di liberismo economico, e propositi incoffessabili, come il dominio della finanza globale. In Italia i nemici della nazione hanno trovato una sponda negli eredi della tradizione anarco-socialista e cattolica, quegli stessi che hanno impedito che si celebrasse il 20 settembre come festa nazionale, hanno gettato fango sul Risorgimento, sepolto nell’oblio la vittoria nella Grande Guerra e esultato per la disfatta del 1943. Gente che irride all’idea di patria ma ieri alzava alti lai per la Cecenia (!) oppressa e oggi fomenta il nazionalismo stupido e arrogante del guerrafondaio ucraino. Il patriottismo, e l’egoismo nazionale, va bene per tutti, francesi, inglesi, perfino lèttoni, ma non per l’Italia; l’Italia per costoro è un’espressione geografica e una finzione politica; non sanno, non vogliono sapere, che è invece il Paese al mondo con la più forte identità culturale, cementata in età romana e arricchitasi attraverso il medioevo comunale, il rinascimento, la temperie illuministica e l’epopea risorgimentale. L’Italia aperta al mondo ma orgogliosa di sé, ben rappresentata, come osservava Sergio Romano (non Andrea, per carità) da Vittorio Alfieri, tanto partecipe della cultura europea quanto idealmente, istintivamente, intellettualmente attaccato alla patria italiana, non al Piemonte o al mondo sabaudo.


Vittorio Alfieri

La stessa apertura all’Europa e lo stesso attaccamento alla Patria speriamo che guidino l’operato del governo gialloverde, contiamo di vederle nelle scelte e nella determinazione dei due vicepremier e dell’ottimo Conte, perché al di là dei colori politici e dei programmi ciò che conta sono le persone, la loro serietà, il loro entusiasmo, la loro intelligenza, tutte doti di cui non s’è visto traccia negli ultimi tempi. La Russia postcomunista ha evitato il crollo morale prima ancora che politico e militare non grazie all’uomo forte, come si sente dire, ma all’intelligenza e alla convinzione – diciamo pure alla fede e all’amor di Patria – del suo presidente. Sono gli uomini che fanno la Storia e nella Storia non c’è posto per mezze calzette.

  Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione

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