Il vuoto di idee della sinistra (e non solo)…

Il vuoto di idee della sinistra (e non solo)

La retorica dell’ambiente, del lavoro e della povertà

Il vuoto di idee della sinistra (e non solo)

La retorica dell’ambiente, del lavoro e della povertà

 I compagni non sono mai molto espliciti sul loro programma di governo. Dopo cinque anni che (mal)governano si può anche capirli. Capita però che alcuni di loro si lascino prendere la mano e si degnino di comunicare ai loro potenziali elettori verso quali lidi vogliono guidare il Paese. Ovviamente non promettono di fermare l’invasione, che, anzi, intendono pianificare e razionalizzare; è altrettanto ovvio che non intendono rispedire a casa quelli che hanno fatto entrare né rispondere alla domanda su cosa potrebbe succedere quando risulterà materialmente impossibile alloggiarli e mantenerli. Si impegnano sull’ambiente, il lavoro, la povertà, divenuti la ragion d’essere del Pd e della sinistra tutta, unita o divisa che sia. Ma che significano, in concreto, l’ambiente e il lavoro o la stessa povertà? Mi viene da parafrasare David Hume: questo programma contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto e di esistenza? No, e allora gettiamolo nel fuoco perché sono soltanto sofisticherie e inganni.


Ambiente e lavoro: due cardini del programma elettorale della sinistra, due specchietti per le allodole buoni per coprire il vuoto di idee e di ideali, per mascherare un pragmatismo parossistico teso a difendere privilegi consolidati e a perpetuare la politica come strumento di conservazione e paravento per comitati di affari locali, nazionali, planetari.

Intanto, c’è qualcuno che si proclami nemico dell’ambiente o dell’occupazione? Basta questa domanda per mostrare la natura retorica e truffaldina degli slogan sbandierati dai compagni.

Quello della difesa dell’ambiente è un tema delicato e complesso. La presenza dell’uomo, animale culturale per eccellenza, è di per sé un fattore di turbamento ecologico, a meno che non si intenda ridurre l’umanità agli uomini della foresta, perfettamente integrati nella natura. In genere si fa coincidere inquinamento e disastri ambientali con l’avvento della società industriale. In realtà le ferite inferte all’ambiente naturale sono un retaggio di qualsiasi civiltà evoluta. I romani, tanto per rimanere dalle nostre parti, sono responsabili della desertificazione del nordafrica, del disboscamento dell’Appennino (al quale pose rimedio il Duce), dell’avvelenamento da piombo causato dagli acquedotti. Non per questo smetteremo di ammirare la civiltà romana, della quale sono parte integrante il sistema di approvvigionamento idrico, l’importazione di grano dall’odierna Tunisia, le terme pubbliche e il riscaldamento privato.

Si fa presto a ergersi difensori dell’ambiente imputando agli altri, ai grandi inquinatori, colpe e responsabilità diffuse. Il catastrofismo è una moda, un diversivo e un mezzuccio per estorcere denaro. Buco nell’ozono, riscaldamento globale, cambiamenti climatici distolgono l’attenzione dall’incuria che ha trasformato le nostre spiagge in discariche, ha insozzato i nostri mari con o senza la bandiera blu, dalla motorizzazione selvaggia, dallo stato di abbandono in cui versano fiumi e laghi, dalla deturpazione del paesaggio, imbruttito più che dai grandi interventi edilizi, quantomeno sottoposti a controlli e sensibili in genere al gusto estetico, dal dilagare di villette e palazzine a schiera che mangiano i polmoni verdi delle nostre città.


Che il clima nel tempo cambi è un’ovvietà. Dalle mie parti, sulle colline a 40 Km dalla costa si possono trovare quantità impressionanti di conchiglie fossili che non sono avanzi di picnic. Senza bisogno di sofisticate conoscenze nel campo della paleontologia o della geologia risulta evidente che su piccola o grande scala si sono succeduti periodi di maggiore riscaldamento e di maggiore raffreddamento, con i ghiacciai che si espandono, si ritirano, tornano ad espandersi, gli arenili che scompaiono da una parte e si formano da un’altra, il deserto dov’erano campi coltivati e praterie che coprono la sabbia. Quanto ai fenomeni estremi e alle stagioni impazzite, le esagerazioni e le bufale dei giornalisti, tese ad alimentare un allarmismo che distolga la pubblica opinione dai veri disastri, che non sono quelli ambientali, rendono un pessimo servizio all’ecologismo serio. Il ritornello che non ci sono più le mezze stagioni lo derideva già Leopardi nello Zibaldone; se poi gli americani hanno edificato città in aree frequentate da uragani non è colpa degli uragani. Non prendiamocela con i corsi d’acqua se non percorrono disciplinatamente il letto assegnato loro dai palazzinari come fossero i ruscelli di un presepe e convinciamoci che costruire alberghi sulle pendici di una collina franosa e disboscata non è cosa saggia. È vero che in certi anni anche nelle zone temperate le piogge di un anno si concentrano in pochi giorni ma è qualcosa che da quando si ha memoria storica è sempre accaduta. Forse che le inondazioni rovinose del Tevere e dell’Aniene del 69 o del 106 d.C. vanno imputata all’effetto serra? Se sono questi i cambiamenti climatici la mano dell’uomo c’entra ben poco. Detto questo è evidente che alla stessa ora e nelle stesse condizioni di insolazione la temperatura è più alta in città che in campagna, più in un campo che nel bosco, che il rimboschimento abbassa la temperatura in modo significativo e che condizionatori, autoveicoli, attività manifatturiere non solo fanno alzare il termometro ma incidono in modo drammatico sulla qualità dell’aria. Pertanto, in prima istanza bisogna tener distinti due piani: i processi naturali e gli effetti dell’antropizzazione. In seconda istanza vanno separati i fattori di alterazione dell’ambiente connessi con il sistema produttivo e, di conseguenza, con l’occupazione, il benessere collettivo, l’interesse nazionale, sui quali si deve intervenire con intelligenza e cautela, da quelli rimuovibili senza danni significativi: sono sacrosanti, per esempio, la limitazione del traffico all’interno dei centri urbani e, in generale, gli interventi sulla mobilità, il controllo locale sulle emissioni di Co2, sulla qualità dell’aria e delle acque, sullo smaltimento dei rifiuti. Faccio presente che su questo terreno le chiacchiere, gli slogan, i luoghi comuni devono cedere il posto alle analisi documentate, alla tecnologia, ad azioni concrete conseguenti a programmi precisi e ad altrettanto precise responsabilità e scadenze. Ma prendersi veramente cura dell’ambiente significa impegnarsi in attività poco appariscenti, continue, costose e con scarso ritorno d’immagine, col rischio di pestare i piedi ad amici e amici degli amici e, soprattutto, comporta che il politico si faccia da parte e lasci lavorare chi se ne intende e si impone per le sue competenze, non perché ce l’ha messo lui. Molto più comodo per il politico – di sinistra –  sposare il grande ambientalismo, farsi carico del riscaldamento globale, dei cambiamenti climatici, del buco nell’ozono. Già, il fantomatico buco dell’ozono e il sole “che non è più quello di una volta”. Fermo restando che le radiazioni solari come tutti i fenomeni cosmici non obbediscono alle attese e ai bisogni né del genere umano né della vita ma seguono il loro corso e le ragioni delle loro interne vicende, se il buco nell’ozono è un’ipotesi il fallout radioattivo è una certezza che da sola avrebbe dovuto mobilitare non per finta, com’è accaduto, le anime belle dell’universo mondo per imporre alle potenze atomiche la totale distruzione dei loro arsenali. E i primi a opporsi sarebbero i cugini d’oltralpe, che per essere stati ammessi in quell’orribile club si illudono di far parte dei gendarmi del mondo. Ora i media nostrani fanno da cassa di risonanza allo sgomento delle Nazioni unite per la chiusura del rubinetto di dollari americani in difesa del clima. Piangono le agenzie e soprattutto i percettori dei lauti emolumenti che esse elargiscono, piange Bruxelles che si vede privata di uno dei suoi puntelli, piangono cinesi e indiani che avrebbero voluto continuare a combattere contro un avversario con un braccio legato, mentre i signori dell’economia virtuale temono un’impennata dell’economia reale che li ridimensioni. Quale danno provochi a noi la mossa, ampiamente annunciata, di Trump non è dato sapere.


Il lavoro. Da come ne parlano dalle parti della sinistra, e non solo, sembra che il lavoro sia una variabile indipendente. Poi magari gli stessi che predicano la creazione dei posti di lavoro senza sapere per fare cosa o per venderla a chi si scandalizzano se in qualche ufficio pubblico i dipendenti sono un numero esorbitante e non hanno nulla da fare se non timbrare il cartellino. E se sgarrano caccia ai “furbetti del cartellino” come se aver disertato stanze e scrivanie dove si celebra il nulla provocasse il collasso della nostra economia.

Bisogna ricordare ai compagni che il lavoro non si inventa. E bisogna anche ricordare loro che non tutte le attività lavorative sono in quanto tali produttive. Tanto per chiarire: medici, poliziotti, insegnanti o giardinieri svolgono tutti a livelli diversi di professionalità attività lavorative essenziali per la sopravvivenza della società ma costituiscono un costo per la stessa società non una risorsa economica. E una società si può permettere quel costo perché la sua economia poggia su attività produttive che creano ricchezza e conseguentemente rendono possibile l’erogazione di servizi. È un circolo virtuoso che in una economia avanzata crea un equilibrio fra produzione di beni, offerta di servizi, consumi. Se nessuno compra nessuno produce, l’economia ristagna e lo Stato privo di risorse non può accollarsi il costo della sanità, della scuola, della sicurezza o del decoro urbano.

Bisogna ricordare ai compagni che la mancanza di lavoro non è la causa ma l’effetto del ristagno economico ed è su quello che si può intervenire. Il lavoro è una variabile dipendente, non è la variabile indipendente. Se si creano posti di lavoro artificiale, pagando gente che scava buche e altra gente che le riempie, non si fa altro che aggravare gli effetti di quel ristagno sottraendo risorse al ciclo produttivo e accelerando la velocità di una spirale negativa. L’importazione di disoccupati è criminale com’è criminale la dissipazione di denaro pubblico per sanare un sistema bancario dissestato. In generale sottrarre al libero mercato attività che da produttive diventano parassitarie – penso per esempio alle municipalizzate – è criminale, com’è criminale la spesa per la politica, che, oltre che improduttiva, è scopertamente dannosa. Quando si legge che l’Europa deve intervenire per imporre, senza per altro riuscirci, a un istituto di credito che nel momento in cui ricorre all’aiuto dello Stato non è più privato, che gli emolumenti del dipendente apicale – l’a.d. o ceo come lo chiamano gli americani – non superino più di dieci volte quello medio dei dipendenti (per intenderci, nel caso specifico, 50.000 euro contro 500.000 al posto degli attuali un milione e trecentomila) si ha l’impressione di vivere in un Paese di briganti. Questo non è capitalismo, questo è l’assalto alla diligenza. Se un’azienda va tanto male da rischiare il crollo senza il salvagente pubblico i responsabili dovrebbero finire dietro le sbarre, altro che star lì a opporsi ai diktat europei per portarsi via il bottino. E non mi dilungo sullo sconcio della Rai e le pretese dei cosiddetti artisti. È lapalissiano che se succhiano risorse la politica, i finti dirigenti, la nomenklatura, le banche, tutti i parassiti annidati al centro e in periferia, gli immigrati (che qualche mascalzone continua a definire una risorsa), il governo non è più l’amministratore del denaro pubblico ma il suo dilapidatore e lo Stato diventa un corpo estraneo, una sanguisuga, un peso per la società e non più un suo strumento. Tempo fa un ex parlamentare, uno di quelli che beneficiano di vitalizi più o meno consistenti che la gente ritiene ingiustificati, se n’è uscito con questa battuta: “perché tanto clamore sui privilegi, spesso modesti, dei politici, che pure sono necessari, e nessuno fiata su quelli dei generali che non servono a nulla o dei magistrati che meno fanno più sono pagati?”. Se lo confessa uno che è stato sul ponte di comando, ci si può credere che in Italia sono superpagati generali che non servono a nulla e magistrati che a mano a mano che fanno carriera meno lavorano e più costano. E tutte queste rendite parassitarie, tutto il fiume di denaro che con la responsabilità e la complicità di tutti i governi che si sono succeduti nella storia della repubblica, soprattutto da quando il Paese è caduto nelle mani avide dei compagni, sono un freno per la nostra economia, vanificano qualunque dichiarazione d’intenti sulla riduzione della pressione fiscale, giustificano gli evasori, incoraggiano la dislocazione all’estero delle attività manifatturiere, deprimono i consumi, drenano i posti di lavoro. Il lavoro non si può inventare ma sulle cause che bloccano l’economia e riducono i posti di lavoro intervenire si può.

Berlusconi, che è corresponsabile del disastro perché ha alimentato e vellicato i parassiti di Stato, ha sostituito il suo primitivo cavallo di battaglia, le grandi opere pubbliche come il ponte sullo stretto, con il mantra della flat tax al 15%, sposato, pare, anche dalla Lega. Non si farà, perché allo stato è impraticabile; ma chissà perché tutti zitti, nessuno nei giornaloni, nei partitoni, ai piani alti solleva obiezioni. Se si applicasse davvero chi evade continuerebbe ad evadere, il sommerso, che in gran parte è rappresentato da attività illegali, rimarrebbe sommerso, ma se ora l’imposizione fiscale progressiva riesce a temperare e a rendere socialmente sopportabile la distanza fra retribuzioni minime e massime all’interno della stessa azienda, con la flat tax avremmo stipendi netti con un rapporto di 1 a 5 e, a fronte di un risparmio di una ventina di euro per un dipendente a 1200 euro al mese ci sarebbe un cadeau di due o tremila euro per il generale o il magistrato a cui si riferiva il politico assediato dai giornalisti per il suo vitalizio. Un cadeau che, ovviamente, il parlamentare italiano farebbe anche a se stesso. Bisogna detassare le aziende che producono, non gli stipendi gonfiati. La flat tax per tutti va bene in un Paese serio, com’è stato il nostro fino agli anni Cinquanta, quando un questore aveva più prestigio di ora ma non guadagnava nemmeno il doppio di un semplice poliziotto. Un governo che si rispetti per rilanciare i consumi dovrebbe piuttosto cercare, anche con una revisione delle aliquote, di riportare in vita quei ceti medi che la politica sciagurata degli ultimi decenni, e in particolare dell’ultimo lustro, ha ridotto in stato preagonico.


Un ultimo accenno alla povertà, tema che unisce tutti i partiti, annegati nello stesso bagno di retorica. Grottesca la posizione di Berlusconi, che vuol portare a 1000 euro le pensioni minime, vale a dire quelle di chi non ha mai versato un centesimo di contributi, a spese di lavoratori che lavorando se ne mettono in tasca, quando va bene, duecento di più, per non dire dei tanti che si debbono accontentare di 400 o 500 euro al mese: chiedetelo alla cassiera del vostro supermercato. Non insisto sulla sparata del cavaliere che sfida il ridicolo e gareggia col barone di Münchhausen. La questione è più seria e investe il senso e lo scopo del patto sociale. I cittadini non vogliono elemosina o assistenza: non sono profughi o richiedenti asilo che pretendono di essere mantenuti come minus habentes. Le sacche di povertà sono ineliminabili: si riducono o si allargano in rapporto alle condizioni generali della società ed è su quelle che si deve intervenire. Il dramma sociale dell’Italia è l’impoverimento dei ceti medi e il rischio per i figli della borghesia piccola e media di essere proletarizzati o di finire nella povertà assoluta. Il modo migliore di combattere la povertà è quello di impedire che si formi e che si aggravi. Nessuno deve essere lasciato solo ma la strada da seguire non è certo quella che allarga la platea dei percettori di sussidi di Stato.

Pier Franco Lisorini

 Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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