Insegnamento della storia e coscienza nazionale

Insegnamento della storia
e coscienza nazionale

Insegnamento della storia e coscienza nazionale

Qualche sera fa in casa mia si conversava del più e del meno e discorrendo di viaggi ci si trova a parlare dei rapporti a volte non facili e viziati da pregiudizi fra italiani e francesi. Mi viene spontaneo dire: “non è certo una novità: pensate alla disfida di Barletta!”. Mio genero abbassa lo sguardo, mia figlia mi guarda stupita e fa: “ma che è?”.


Ora devo precisare che sono tutti e due laureati, mia figlia è medico, un liceo tutto con una media altissima, maturità a pieni voti. Suo marito sta ultimando il dottorato. Si può quindi legittimamente inferire che siano persone di cultura superiore e se ne deve concludere che in Italia una persona di ottima cultura non sa che cosa è stata la disfida di Barletta. Non lo sa perché nessuno gliene ha mai parlato, perché nei programmi di storia del suo percorso di studi, dalle elementari al liceo passando per le scuole medie, di questo avvenimento non c’è menzione. In quel monumentale e soporifero manuale che è il Villari potreste  scorrere inutilmente l’indice analitico: non c’è.  Nelle 1200 (milleduecento) pagine dedicate all’età moderna del manuale per i licei De Bernardi-Guarracino ci sono sofisticati excursus sulle trasformazioni dell’agricoltura inglese nel Seicento o sulla scarsità di concime nelle campagne europee nel sedicesimo secolo ma di Ettore Fieramosca non c’è traccia. A parte il fatto che di tutto ciò, coltivazioni di cavoli o di carciofi, non resterà nulla nella memoria degli studenti, a parte il fatto della totale mancanza di interesse e di motivazione per questo genere di argomenti, a parte il fatto che se si entra nel merito si scoprono montagne di banalità e inesattezze, resta la domanda: ma lo sanno i signori estensori di manuali scolastici a che serve insegnare la storia? Quando anche nei loro lavori fosse  riversato il fior fiore della ricerca storiografica quale sarebbero la loro fruibilità didattica e la funzione educativa? Perché di questo si tratta e il mio sospetto è che lo sappiano benissimo anche loro e che il loro scopo sia esattamente questo: rovesciare l’appello del poeta “Italiani vi esorto alle storie!”, impedire che si sveglino le coscienze, che si ricostituisca un’identità nazionale, far sì che la scuola diventi il dormitorio della ragione.

Ma, tanto per essere chiari, io non vorrei ridurre la storia all’aneddotica o all’agiografia:  lascio volentieri l’una e l’altra alla tradizione confessionale e al defunto, almeno in Europa, socialismo reale. La storia però, proprio perché assolve al compito di conservazione della memoria collettiva, deve essere umanizzata e il suo soggetto non può essere l’economia, la struttura sociale o qualche altra astrazione ma la nazione. Il compito dello storico è proprio quello di non dissolvere quel soggetto nelle vicende dinastiche o in ciò che i francesi chiamano histoire-bataille ma di coglierne lo spirito e l’idealità.  Tutto ciò era implicito, perché ovvio, nella tradizione classica, nella quale storia e letteratura erano intimamente fuse, ed è reso esplicito nei maggiori filosofi moderni, da Fichte a Nietzsche. Lo storico deve cogliere lo spirito di un popolo, il farsi della sua identità, deve fornire ad ogni individuo gli strumenti per conoscere le proprie radici. Lo stesso riconoscimento della comune umanità avviene appieno nella valorizzazione della propria specificità perché l’incontro con l’altro è significativo quando non si realizza nella palude del relativismo culturale ma sul terreno solido dell’identità di ciascuno. Invece si fa di tutto perché gli italiani questa identità la perdano, perché diventino un popolo incolore, senza storia, senza orgoglio, senza simboli che non siano quelli effimeri delle competizioni sportive, aperti a qualunque moda,  a bocca aperta di fronte ai grattacieli di Dubai, indifferenti davanti alle testimonianze del loro passato e sottratti alla responsabilità che esse trasmettono. Così come gli altri si tengono stretti i loro Davy Crockett, Guglielmo Tell o Robin Hood  e così come i nostri padri custodivano gelosamente i nomi di Bruto o di Camillo e di quanti rappresentassero degli “exempla” per alimentare l’orgoglio e la consapevolezza della romanità, i nostri giovani dovrebbero ricavare non da una vuota retorica ma dalle vicende reali degli Oberdan, Enrico Toti, Balilla, dei tanti trucidati gridando “viva l’Italia!”, dalle cariche di cavalleria contro i cannoni russi nella seconda guerra mondiale, dalle tante prove di valore che i nostri soldati hanno dato in tutte le guerre il senso e la fierezza della loro patria. Che cosa viene loro inculcato? Che il risorgimento tutto sommato è stata una faccenda di pochi esaltati, che Garibaldi era un avventuriero, le imprese coloniali italiane una farsa in ritardo rispetto al colonialismo, quello sì degno di rispetto, inglese o francese, che la Grande guerra è stata solo una strage di contadini arruolati a forza, per non dire della seconda guerra mondiale con il ruolo dell’Italia  descritto dalla parte dei nostri avversari e un risolino divertito sulla nostra presunta impreparazione, con gli italiani “brava gente” ma non adatti a combattere, mandolino e spaghetti e finalmente tutti a casa. 

Ho preso spunto dalla disfida di Barletta e voglio smascherare la stupidità dell’estensore della voce su Wikipedia, tutto impegnato a dimostrare che l’italianità non c’entra, che l’episodio è stato gonfiato e strumentalizzato, forse addirittura inventato da Mussolini. Bisognerebbe ricordare a costui, prodotto o artefice dell’ignoranza in cui siamo sprofondati, che il senso dell’italianità non si è mai spento, che è sicuramente anteriore alla coscienza nazionale francese inglese o spagnola, che nell’alto medio evo era viva la rivalità italo-tedesca, e all’alba dell’età moderna, quando ancora gli stati nazionali europei erano in embrione, Francesco Petrarca  inorgogliva i suoi lettori rievocando la strage di tedeschi fatta da Caio Mario, che “aperse loro il fianco” tanto “che memoria de l’opra anco non langue, quando assetato e stanco non piú bevve del fiume acqua che sangue”. Non languiva nel Trecento per i lettori del grande poeta ma sicuramente langue per noi, che se ne abbiamo qualche vago ricordo lo dobbiamo rintracciare nel mare piatto di nozioni senza anima delle pagine anodine dei nostri squallidi manuali.

C’è un’ intrinseca contraddizione nell’essere storico marxista o – se ce ne sono ancora –  cattolico o idealista. Questo significa già in partenza voler falsificare i fatti, adattarli al letto di procuste dei propri pregiudizi. Ma c’è di peggio. Chi si assume la responsabilità e il compito delicatissimo di raccontare il passato ai giovani deve avere prima di tutto il coraggio di riconoscere che quello che si insegna nelle nostre scuole è il nostro passato, non il passato dell’umanità e che l’italocentrismo  non esclude ma dà senso alla conoscenza di altri popoli e di altre culture e delle loro vicende, soprattutto quando esse si intrecciano con le nostre.


Nei testi di storia per le scuole non ce n’è traccia ma la battaglia di Isbuscenski basterebbe da sola a smentire la leggenda, cara ai nostri amici europei, di un popolo imbelle e codardo. L’ultima grande carica di cavalleria del regio esercito fu una vittoria sul campo significativa anche dal punto di vista strettamente militare, esaltata e ingigantita, e non poteva essere diversamente, dalla stampa e dai cinegiornali italiani durante la guerra, coperta da un silenzio totale nella revisione sinistra – in tutti i sensi – del dopoguerra. I nostri ragazzi non devono sapere. Non c’è paese europeo che non abbia subito sconfitte brucianti ma quelle italiane devono essere impresse in modo indelebile nella nostra memoria. Le vittorie, le prove di eroismo, non contano niente, le testimonianze di efficienza e preparazione sono state rimosse, si deve solo sapere che i nostri soldati erano male equipaggiati poco motivati e peggio guidati. Se Franco uscì vittorioso dalla guerra civile si deve agli italiani ma a scuola si parla solo di Guadalajara. La conquista dell’Etiopia va ricordata come l’impari lotta fra una potenza militare che non si fa scrupolo di usare i gas e pacifiche tribù armate con lance e frecce. In compenso il terrorismo aereo degli angloamericani è fatto passare come normale strategia militare, quando per secoli la memoria di Wallenstein è stata dannata per le sofferenze inflitte alle popolazioni: infatti nemmeno nei periodi bui della storia europea era successo che per vincere una guerra si preferisse sterminare la popolazione inerme piuttosto che affrontare l’esercito nemico. Ed è proprio questo che hanno fatto gli americani col suggello orribile della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki. Dei crimini di guerra tedeschi – tedeschi bisogna dire non nazisti – è giusto e sacrosanto che non si disperda la memoria ma perché sul comportamento ignobile di francesi, americani e inglesi nei confronti dei nostri prigionieri e delle nostre popolazioni si sorvola? La storia, si sa, la scrivono i vincitori ma, tanto per continuare con frasi fatte, il tempo è galantuomo e dopo settanta anni si potrebbe anche squarciare qualche velo e, se si deve parlare della guerra, sarebbe doveroso farlo in modo onesto e spregiudicato: è stata una tragedia  collettiva non lo scontro fra il bene e il male, la civiltà e la barbarie, la democrazia e la tirannide; è stata una tragedia in cui i popoli, tutti, furono vittime innocenti e i governi, tutti, carnefici interessati stupidi e colpevoli. Riconosciuto questo, bisognerebbe che i nostri storici non si prestassero a gettare fango sulle centinaia di migliaia di giovani uomini morti per la patria italiana in una guerra assurda, col senno di poi, come tutte le guerre, una guerra assurda che però non era fascista ma italiana. Il discorso, come si vede si allarga e rischia di farci perdere di vista il nostro tema. Lo chiudo con un’osservazione maliziosa: non mi risulta che nelle scuole francesi si faccia dell’ironia sull’Armée e la sua force de frappe, dissolte in una trentina di giorni con la bandiera del Reich issata sul comune di Parigi né che ci si chieda con quale marchingegno diplomatico un paese che la guerra l’aveva persa due volte, prima contro i tedeschi poi come loro alleato, abbia potuto trovare un posto nel club dei vincitori. A gettare fango, a mostrare il re nudo son buoni tutti e si può fare in ogni latitudine ma è uno sport che si pratica solo in Italia.  Ma a chi giova?

Ma gli italiani non devono avere memoria, orgoglio nazionale, vanno ridotti a stranieri nel loro Paese, come gli slavi che percorrono le strade e occupano i palazzi dell’Istria e della Dalmazia veneziane e italiane. Se questo scopo viene raggiunto, se gli italiani perdono a loro dignità di popolo e di nazione, se vengono ridotti ad abitanti dell’Italia si smorza la loro reattività,  finiscono  per considerare normale che i parlamentari e i politici in genere rappresentino se stessi o al più il loro partito e vedano nella legislatura l’occasione per sistemare la loro vita, fare buoni affari, assicurare il futuro dei propri cari. Un popolo immemore e disincantato considera normale che la distanza fra le retribuzioni medie e quelle massime sia diventata abissale da quando la sinistra, per dirla con Nenni, è entrata nella stanza dei bottoni; considera normale  essere governato da una minoranza e avere un capo del governo che nessuno ha mai votato se non per fare il sindaco di Firenze; considera normale essere intossicato da una stampa asservita e da una televisione impegnata a rincretinirlo e, infine, assisterà indifferente all’invasione del proprio paese.

Per chi ha smarrito il senso della propria nazione l’invasione può suscitare fastidio se la presenza di clandestini deprezza il proprio condominio, se i loro bivacchi  turbano la propria visuale o le proprie abitudini ma va bene se i clandestini vengono messi da un’altra parte, non nel mio giardino, e per il resto non siamo razzisti, ci mancherebbe altro e forse, chissà, in tutta questa faccenda ci può anche scappare qualche vantaggio… Da un popolo senza anima l’invasione non viene avvertita come un attentato e una minaccia per la compagine nazionale e per la propria stessa identità semplicemente perché un’identità non c’è più e la nazione è ridotta alla nazionale di calcio.


Immaginiamo per un momento che i nostri giovani non siano stati sottoposti a quella sorta di lavaggio del cervello esercitato dalla scuola di oggi; immaginiamo che la scuola, come dovrebbe fare, ne abbia risvegliato il senso critico, stimolato l’intelligenza, li abbia forniti per davvero di strumenti per orientarsi nel mondo, ne abbia fatto per davvero dei cittadini attivi e consapevoli. Se la scuola avesse fatto tutto questo invece di impegnarsi  a ridurli in una condizione di eterna minorità, di sudditanza psicologica, di apatia e di crassa ignoranza sarebbero guai seri per le istituzioni, per i politici, per chi ci governa. Altro che la mancia  ai diciottenni per averne il voto! Ricordo ai miei quattro lettori che nei momenti decisivi della storia sono i giovani, e qualche volta i giovanissimi, a decidere le sorti di un paese. Nel lacerante biennio seguito all’ignominia dell’8 settembre i migliori, i più entusiasti, i disinteressati, gli idealisti di una parte e dell’altra erano ragazzi e se questa nostra patria fosse rappresentata da persone decenti nella politica, nel giornalismo, nell’accademia, invece di continuare a celebrare la resistenza o perpetuare il veleno della contrapposizione dovrebbe ricordare il loro sacrificio, il loro martirio, il loro comune amore per la libertà seppure sotto bandiere diverse, ed è sulla loro testimonianza che si sarebbe dovuto fondare il riscatto dell’Italia. A questo serve la storia. Se noi avessimo giovani di quella tempra la vergognosa svendita del paese non sarebbe stata possibile, non sarebbe stato possibile il gigantesco imbroglio che sta riversando in Italia centinaia di migliaia di africani ma non sarebbe neppure stato possibile creare un sistema che  alimenta una nomenklatura ottusa incapace  e egoista che succhia come un vampiro le risorse del paese, paralizza l’economia, affama pensionati e lavoratori, toglie ai giovani la possibilità di progettare il proprio futuro. È per questo che sostengo che la dequalificazione della scuola, lo sfacelo delle discipline umanistiche e la sistematica disinformatia praticata con l’insegnamento della storia non sono casuali ma rientrano nel piano scellerato dell’ottundimento della pubblica opinione, senza il quale l’affossamento dell’Italia non sarebbe realizzabile.

Pier Franco Lisorini

Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

 

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