Industria bellica e sensibilità irenica

Industria bellica e sensibilità irenica
Ma le vere industrie di morte sono quelle che distruggono l’ambiente

Industria bellica e sensibilità irenica
Ma le vere industrie di morte sono quelle che distruggono l’ambiente

 Tra l’indignazione delle anime belle e l’imbarazzo dei sindacati si è consumata la protesta dei lavoratori sardi che vorrebbero poter lavorare, sfamando così se stessi e le loro famiglie, e pretendono di continuare a fabbricare bombe. La loro azienda minaccia di traslocare e i compagni invece di cercare di fermarla le offrono ponti d’oro perché se ne vadano lei e tutta l’industria non “etica”. Ci sarebbe da obbiettare perché bombe no e cannoni sì, perché bombe no e pistole sì, perché bombe no e navi da guerra (travestite, è successo anche questo, da navi ospedale) sì. Ma non è questo il punto.

Qualche anno fa i portuali livornesi impedirono l’attracco ai convogli americani sospettando che trasportassero armi per la guerra in medio oriente. Finì che il traffico se lo accollarono i compagni marsigliesi. Non c’è da stupirsi: quei portuali erano gli stessi che periodicamente organizzavano sotto l’egida del partito spedizioni di protesta contro la presenza di Camp Darby, salvo poi frignare quando il comando venne spostato a nord e la base fu drasticamente ridimensionata (con conseguenti licenziamenti).


L’industria bellica ha un ruolo rilevante in tutti i Paesi avanzati. Questo è un fatto. Nei confronti delle attività manifatturiere è legittimo chiedersi: la loro attività è un bene o un male per la collettività? In linea di principio un’azienda va bocciata se non produce reddito, se è un corpo morto che grava sulle casse dello Stato, una zavorra: quello che si chiede è che produca lavoro e ricchezza, che metta sul mercato lavatrici o fazzoletti di carta è irrilevante. Semmai quello che va chiesto all’azienda riguarda il suo impatto ambientale: se dà lavoro ma avvelena la comunità deve essere smantellata. In questo consiste l’eticità della produzione agricola e industriale. Entrare nel merito dell’uso del prodotto è in generale una sciocchezza: si finirebbe per chiedere la chiusura dei produttori di bibite gassate perché nuocciono alla salute. Nel caso di Domusnovas la posizione dei buonisti ha un fondamento solo apparente: riconvertiamo la produzione, bombole d’ossigeno al posto delle bombe, chiedono i sindacati allineati. Ma è una posizione ipocrita perché non può essere generalizzata, e se non può essere generalizzata vuol dire che è sbagliata. Se fosse generalizzata bisognerebbe smettere di costruire elicotteri, carri armati, corvette e portaerei e vorrei vedere come se ne uscirebbe. Ma le bombe, si dice, vanno all’Arabia saudita che le usa contro popolazioni indifese.


Il buonista dice: se non si producono armi non ci sono guerre, come se le armi fossero la causa e non la conseguenza delle guerre o come se la corsa agli armamenti fosse causa e non effetto dei contrasti fra nazioni e della corsa alla guerra. Sono quelle supreme sciocchezze che a furia di essere ripetute finiscono per diventare sentenze inconfutabili. Quando cala il silenzio sul campo di battaglia lo spettacolo è orribile oggi come ieri; ieri come oggi vi aleggia il fetore della morte, che siano corpi fatti a pezzi e teste mozze sulla piana di Canne o le carni dilaniate sulla spiaggia della Normandia; morire macellati da una spada, sbudellati dalla lancia o infilzati da un nugolo di frecce non è cosa migliore dell’essere dilaniato da un colpo di artiglieria o bruciato dal napalm. Dove c’è guerra c’è morte, sangue, strazio delle carni, quale che sia lo strumento che la procura.


Gli uomini aspirano naturalmente alla pace e aborrono la guerra. Ma la storia dimostra che la loro sopravvivenza dipende dalla guerra, dalla loro capacità di affrontarla. Dietro la retorica dell’aggressione, delle invasioni, dell’espansionismo imperialista c’è la necessità di sopravvivere, c’è semplice, duro, crudele darwinismo. I romani massacravano i barbari che tentavano di violare le frontiere dell’impero, i barbari con i loro carriaggi, i loro vecchi, le donne e i figli cercavano di sopravvivere alla fame impadronendosi di terre fertili. Semplice ecologia.

La guerra è probabilmente un male, anzi sicuramente lo è, ma è un male che non può essere estirpato. Non può essere estirpato perché non è un’anomalia, un difetto, un errore della natura o una malattia della società o della natura umana ma è intrinseco a quella natura, è la proiezione antropica del conflitto che agita dall’interno l’anima del mondo, è parte essenziale e ineliminabile di una dialettica che era ben nota ai filosofi antichi.


Grazie al deterrente atomico, alle interrelazioni fra grandi potenze e alla internalizzazione della finanza e della produzione industriale, le guerre sono state spostate, per ora, verso la periferia del mondo, che funge da valvola di scarico, ma c’è sempre da temere che la pressione possa diventare troppo forte e la deflagrazione raggiunga anche il centro. 

Insomma un mondo senza guerre è solo una stucchevole poesiola di Rodari o l’obiettivo ideale – nel senso di irraggiungibile – di uomini di buona volontà, che non sono i nostri buonisti ma quelli che si adoperano per dirimere conflitti e si preparano contemporaneamente ad affrontarli.


Lo sapevano bene gli antichi. In ogni grande città dell’Impero ci si poteva soffermare a pregare nel tempio della Pace per sostare dopo pochi metri sulla soglia del tempio di Marte. Potrei aggiungere che poco più in là si trovava il sacrario della Vittoria, anche quello pieno di offerte votive; ed è difficile stabilire a quale di questi luoghi simbolici gli antichi attribuissero maggiore valore. Pace e guerra sono plasticamente uniti nel motto latino: si vis pacem para bellum e si trovano come un’endiadi indissolubile in tutta letteratura occidentale, da Petrarca a Tolstoi.

Le guerre presuppongono le armi, di offesa e di difesa e le armi sono il prodotto dell’ingegnosità umana. L’uomo è un fabbricante di utensili ma i primi utensili che ha saputo, e dovuto, costruire sono armi. Se non l’avesse fatto non ci saremmo. Si può correttamente riconoscere che la scimmia nuda è sopravvissuta in una natura ostile e agguerrita perché fornita di conoscenze e manualità che le hanno consentito di difendersi e di offendere. C’est à dire: di costruire armi. E tutto il nostro decantato progresso è figlio delle guerre: la tecnologia militare precede e spinge quella civile.


 

 

 Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione

 

 

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