William s’inchinò platealmente di fronte ai torinesi fingendo di scappellarsi e disse:
“Buon giorno egregi signori. Io sono il pirata Olonese e questo galeone è requisito in nome dei fratelli della costa.”
L’uomo guardò a occhi sbarrati prima l’uno, dal fare a un tempo arrogante e sornione, e poi l’altro, che pur sorridendo gli puntava addosso il fucile. Sua moglie appariva chiaramente terrorizzata, lui però si sentiva più che altro incredulo. Che assurdità era mai quella? Erano armati, eppure doveva per forza trattarsi di uno scherzo, come poteva essere diversamente? Di fronte a sé aveva senza ombra di dubbio dei semplici adolescenti. In particolare quello armato di cinepresa pareva quasi un bambino. Cosa significava dunque tutta quella sceneggiata?
“Dico, ma siete ammattiti? Cosa diavolo avete in mente di fare?” Chiese infine, facendosi coraggio.
“Faccia silenzio. Non mi costringa a darla in pasto ai pescecani.” Rispose William, freddo e deciso.
L’uomo, convinto di aver a che fare con dei pazzi più dall’incongrua risposta che dalla situazione in sé stessa, ritenne opportuno obbedire e non aprire più bocca. Quel ragazzo, uscito di sicuro da un ospedale psichiatrico, poteva essere pericoloso per davvero.
Ottenuta la sua attenzione, William Stella si divertì un mondo a spiegargli per filo e per segno con aria truce i propri presunti propositi. Con crescente inquietudine l’uomo lo ascoltò farneticare.
“…E voi cani spagnoli scoprirete presto la nostra forza. Noi corsari metteremo a ferro e fuoco il mar dei Caraibi e poi assalteremo la nuova Maracaibo.” Concluse infine il neo Olonese, soddisfatto.
Genzian Kuci nel frattempo si era incaricato di legare le mani dietro la schiena ai torinesi, senza peraltro stringere troppo, mentre gli amici ficcavano il naso un po’ ovunque. In tutto si trattennero a bordo una ventina di minuti, nel corso dei quali misero a soqquadro l’imbarcazione e fecero un bel po’ di danni, mettendo anche fuori uso cellulari e ricetrasmittente. Rubacchiarono a mo’ di trofeo qualche oggettino e finalmente se ne andarono.
“Forza ragazzi, rotta verso la Tortuga.” Esclamò ad alta voce William l’Olonese, ben compreso nella parte, mentre risaliva sulla Folgore.
“Come scusa?” Chiese il Quartiermastro Genzian, assai dubbioso.
“La Tortuga era il covo dei pirati nei Caraibi, è famosa.” Gli spiegò il più colto Mattia.
“Ah, ok, ho capito. E dov’è che andiamo, allora?”
“Alla Gallinara, Genzian. Sarà quella la nostra Tortuga.” Concluse William, mentre gli occhi già s’illuminavano all’idea, riferendosi all’isoletta ligure al largo di Albenga, guarda caso dalla forma che ricorda la silouette di una tartaruga, in spagnolo, per l’appunto, tortuga.
“Io veramente stasera dovrei tornare a casa.” Obbiettò Gabriele.
“Sciocchezze Lele. Chiama i tuoi genitori e digli che stanotte resti a dormire in porto sulla barca di Mattia.”
“Ma non so se me lo permetteranno.”
“Nel caso passameli. Ci penso io a convincerli, sta tranquillo.”
“Alla Tortuga dunque, miei prodi.” Confermò quindi Mattia il Basco, in qualità di proprietario.
I torinesi guardarono impotenti lo yacht di quegli squinternati allontanarsi verso ponente, con ancora nelle orecchie l’ultima frase udita e cioè il “forza ragazzi, rotta verso la Tortuga”. Poco dopo si liberarono e tornarono in fretta e furia in porto a denunciare l’aggressione, giungendo dai carabinieri a metà pomeriggio.
L’ossuto brigadiere di Finale che li ascoltò, faticò non poco a prestar fede al racconto. Di primo acchito aveva addirittura pensato che i tipi dessero i numeri, talmente assurda gli pareva la storia. Tanto più poiché, come provvide a verificare, non risultavano registrate imbarcazioni col nome di Folgore. Siccome però i due apparivano sconvolti, si lasciò convincere ad accompagnarli in porto, dove in effetti costatò danni all’imbarcazione. Qualcosa era dunque accaduto, sempre che i gianduia non avessero fatto tutto da sé in preda a un raptus. A ogni modo il brigadiere avrebbe dovuto effettuare qualche indagine. Intendeva tuttavia meditarci sopra bene e occuparsene sul serio soltanto a partire dall’indomani, con calma e soprattutto con prudenza. Nel frattempo zitto e mosca, onde evitare di trasformarsi nello zimbello della caserma.
A fugare ogni dubbio, in serata giunse però una nuova denuncia. Erano appena passate le 22 quando a Finale ricevettero la telefonata preoccupata dei colleghi di Savona, i quali chiedevano se si erano verificate recenti aggressioni a imbarcazioni. Costoro avevano ricevuto la visita di marito, moglie e cognato ultraquarantenni con figlia quindicenne e non sapevano cosa pensarne.
I quattro riferivano di essere stati sorpresi sulla loro barca a vela da un branco di scalmanati, sedicenti pirati dei Caraibi. A loro detta, costoro erano saliti a bordo urlando stramberie, li avevano legati, senza tuttavia stringere troppo le corde, avevano compiuto vandalismi ai danni dell’imbarcazione e si erano portati via alcune attrezzature, due orologi e una collanina d’oro.
Uno dei ragazzi, presentatosi come François Olonese, a quanto pareva aveva anche fatto colpo sulla adolescente, colta in apparenza dalla sindrome di Stoccolma, forse soprattutto a causa della sua attraenza.
“Si atteggiava a duro ma si vedeva che in realtà era buono”, aveva, infatti, spiegato costei con un sorriso larghissimo, aggiungendo poi che si era dimostrato assai gentile ed era stato contrario a rubare i soldi e la catenina da lei portata al collo.
“Non facciamo mica sul serio, dopotutto.” Gli aveva sentito affermare.
Uno degli altri, pallido e robusto, era stato però di diverso avviso.
“Io non ci torno a mani vuote, non voglio passar per scemo.” Aveva, infatti, esclamato questi.
“Ma se gli svuotiamo i portafogli siamo dei ladri, Genzian.”
“E chi li tocca i portafogli. Però almeno quella catenina è bella e me la prendo, questione d’onore!”
“E guarda che figata ‘sto orologio.” Aveva aggiunto un altro.
Infine un biondo, chiamato a volte Mattia e a volte Michele, aveva preso la decisione definitiva.
“I ragazzi hanno ragione, Willy, ne va del nostro prestigio, sono trofei necessari,” – ricordava che costui aveva detto, – “altrimenti che pirati saremmo?”
Poco convinti, i funzionari incaricati di raccogliere le testimonianze non avevano tuttavia ritenuto di darle eccessivo credito.
Nella tarda mattinata successiva, dal porto di Savona partiva il traghetto per visitare il santuario dei cetacei. Il mar Ligure, forse perché più profondo rispetto alla media del Mediterraneo, attira da sempre molti di questi grandi e fascinosi mammiferi, tanto che in quelle acque si possono, pare, incontrare perfino i capodogli.
Un gruppo di circa trenta quaranta turisti era già assiepato in attesa quando, puntuale all’appuntamento con l’imbarco, giunse Dennis Lavagna con la sorellina e i genitori. Al contrario della quasi totalità dei partecipanti alla gita, la famiglia Lavagna viveva in città. Era stato lui, da sempre affascinato dai cetacei, a convincere i familiari alla gita.
Dennis aveva sorprendenti occhi verde smeraldo e teneva i capelli, castano chiari, piuttosto lunghi, trattenuti sulla nuca da un ampio fermacapelli. Era il padre a farglieli portare così, sulla base dei propri gusti. Il ragazzo tuttavia non era per nulla dispiaciuto di tale look, di cui si era anzi appropriato con piacere. Aveva quattordici anni, ma essendo assai minuto per la sua età e avendo per giunta un bel faccino ancora fanciullesco, ne dimostrava un buon paio di meno. Del resto neppure la sua riccioluta e graziosissima sorellina Lucia pareva già di nove anni.
Appena aprirono i portelli, Dennis s’intrufolò con agilità ed entusiasmo in mezzo alla folla e fu tra i primi a salire a bordo. Si trovò così un posto di osservazione privilegiato in prima fila. I familiari si accomodarono invece più centralmente, in terza fila. Appena partiti l’adolescente si concentrò sul mare circostante, ben deciso a non perdersi alcuna apparizione. Assai meno paziente, la bambina prese invece a gironzolare annoiata.
Dopo un’ora circa di navigazione, non furono però balene o delfini a incrociare il loro percorso, ma un altro genere di mammifero, bipede e assai meno adattato all’ambiente marino. La piccola mangiucchiava distratta una merendina in piedi sul ponte e il fratello osservava col binocolo davanti a sé, quando alcuni botti secchi fecero sobbalzare entrambi. Sorpreso, Dennis si guardò intorno e alla sua destra vide uno yacht puntare dritto verso di loro.
I novelli pirati stavolta avevano scelto un bersaglio più ambizioso. Le imprese del giorno precedente a quanto pareva non avevano suscitato l’interesse dei mass media, a giudicare dal silenzio dei giornali radio locali sull’argomento. Non convinto, mentre gli amici giocavano agli esploratori sulla Gallinara, di prima mattina William si era recato con Gabriele Rosetta in gommone ad Albenga e aveva acquistato speranzoso il Secolo XIX, ma con sua somma delusione non se ne faceva cenno neppure lì. Ormai che c’erano parve però loro inutile affrettarsi alla “Tortuga”.
Era successo mentre passeggiavano meditabondi per il turrito e fascinoso borgo medioevale, che William aveva avuto la pensata di assaltare un traghetto carico di turisti. Perché così, si era subito reso conto, avrebbe di sicuro fatto parlare molto di tutti loro, lui sarebbe stato famoso e avrebbe reso di nuovo celebre anche il nome del grande Naud l’Olonese.
“Andiamo Lele, si torna a bordo. Vedrai che bello scherzo combiniamo stavolta.” Aveva annunciato con allegria. Ciò detto si era incamminato di buon passo, senza neppure prendersi il disturbo di verificare se il compagno lo stesse seguendo.
A Gabriele non era restato quindi che trotterellargli dietro, vagamente preoccupato. Conosceva l’amico a sufficienza per sapere che quando si comportava così non prometteva nulla di buono.
…Poiché le cose umane…non sono eterne…
venne il momento del suo termine quando egli meno se l’aspettava…
Per convincere il comandante del traghetto a fermarsi, i giovani filibustieri spararono alcuni colpi di fucile sulla fiancata, quindi accostarono l’imbarcazione. Dennis si sporse dal suo posto e fissò gli assalitori con tanto d’occhi. Conosceva di vista alcuni di quei ragazzi. Due di loro li aveva incrociati sovente nei corridoi della sua scuola e ne sapeva il nome, inoltre gli pareva di ricordarne pure un terzo, anche se di quest’ultimo era meno certo. Avevano appena terminato il terzo anno e lui, primino, non aveva mai rivolto loro la parola. Erano però considerati tra i più tosti dell’istituto e gli sarebbe piaciuto farci amicizia. In compenso ne conosceva un quarto relativamente bene: Genzian frequentava come lui la palestra di karatè. Malgrado fosse più grande, muscoloso e forte di lui, talvolta l’istruttore li aveva uniti per svolgere qualche esercizio. Spesso avevano scambiato qualche parola e lo aveva trovato simpatico, nonostante fosse poco loquace e tendesse un po’ troppo a tirarsela e a provocare il prossimo. Dennis d’altronde era estroverso, arguto e sfrontato e si rapportava bene quasi con chiunque. In effetti i due erano in rapporti abbastanza amichevoli.
Incuriosito dal comportamento di quei ragazzi, d’impulso prese la cinepresa che si era portato dietro per filmare i cetacei e anziché i cetacei riprese loro.
Come al solito due della banda restarono di guardia a bordo. Gli altri sette invece balzarono con agilità sul traghetto, esibendo facce truci d’ordinanza e sparando perfino un paio di colpi in aria. Un impulso, quest’ultimo, rivelatasi però subito sbagliato, perché l’atto scatenò un’improvvisa ondata di panico. Grida di paura si alzarono da vari punti del traghetto e alcuni turisti cominciarono a correre a casaccio.
Dennis cercò di farsi largo per raggiungere la sorellina e prenderla per mano, ma la calca glielo impedì e con sgomento, qualche attimo dopo, vide la bambina cadere a terra, travolta e calpestata da alcune persone in fuga. Accorse spaventato, mentre da un’altra direzione arrivavano anche i suoi genitori, e la trovò esamine al suolo, che pareva morta.
“Oh no, no!” esclamò disperato, poi alzò lo sguardo e aggiunse, con le lacrime agli occhi:
“Giuro che questa me la pagate, razza di stronzi, e chi se ne frega se passo per spione.”
Nel frattempo gli assalitori, presi alla sprovvista dalla reazione della gente alla loro bravata, si stavano spaventando quasi più degli assaliti. In mezzo a un tale casino si sarebbe potuto verificare qualsiasi guaio, compresero. Parendogli oramai la situazione ingestibile, dopo qualche attimo d’indecisione William, Mattia e Genzian stabilirono quasi all’unisono di battere in ritirata. Risalirono mogi, mogi a bordo della Folgore insieme ai compagni e si allontanarono in fretta e furia, diretti al loro covo.
I carabinieri, coordinati dall’ossuto brigadiere finalese Benattini, ormai sapevano tutto dei delinquenti, indemoniati aggressori di almeno tre imbarcazioni lungo la costa ligure. Grazie alla preziosa testimonianza del giovane Dennis Lavagna, avevano nome, cognome e indirizzo di quasi tutti i partecipanti alle azioni criminose. Possedevano inoltre dati, foto e immagini dell’imbarcazione stessa. E messe a confronto le foto del Dalia con le riprese fatte al Folgore, non ebbero alcun dubbio di trovarsi di fronte al medesimo cabinato. E anche grazie a ciò, quando alcune ore dopo giunse alla guardia costiera la segnalazione di uno yacht indebitamente attraccato presso l’isola Gallinara, proprietà privata a cui era vietato l’accesso, lo identificarono con facilità.
In breve due motovedette della guardia costiera e un motoscafo dei carabinieri fecero rotta verso la Gallinara. Lì giunte, le forze dell’ordine sequestrarono lo yacht, recuperarono il maltolto e trassero in arresto gli abbattutissimi pirati. Una pila alta così di capi d’accusa pendeva sulle loro teste.
Il giorno successivo i signori Stella, i signori Kuci, i Rosetta e gli altri familiari presenti in città poterono incontrare i loro figli e dirgli cosa pensavano della loro genialata. E il giorno ancora successivo anche i Vigna rientrarono, come si può ben immaginare assai arrabbiati, dagli Stati Uniti. Brutti momenti attendevano i prodi fratelli della costa.
Per fortuna si verificò però almeno un fatto positivo. Col sollievo dei familiari e di tutti i media, quello stesso pomeriggio la piccola Lucia Lavagna riprese finalmente conoscenza, dopo essere stata a lungo in bilico tra la vita e la morte e qualche ora dopo poté essere dichiarata fuori pericolo, così il rischio di essere accusati di omicidio venne meno.
Quarantotto ore dopo William Stella, in qualità di ideatore e dunque principale responsabile degli eventi, inviò a nome di tutti le sue più sincere scuse alla famiglia Lavagna. In proposito aveva ancora bene in mente le parole pronunciate dal brigadiere Benattini. Questi alla fine aveva compreso di non trovarsi dinanzi a dei criminali ma soltanto a nove immaturi stupidoni, benché non privi d’intelligenza. E così, quando William si era difeso, sostenendo di essere vittima di un equivoco perché loro stavano solamente scherzando, gli aveva risposto nella seguente maniera:
“Vedi, noi non siamo unici al mondo, ragazzo mio. Non possiamo pretendere di fare tutto quello che ci passa per la mente. Qualunque azione intraprendiamo avrà sempre conseguenze su qualcuno, su di me, su di te, su di lui, su un altro ancora. E alcune di queste conseguenze potrebbero rivelarsi negative e dolorose. Occorre responsabilità. Se quella bambina fosse morta, sarebbe stata interamente colpa tua e l’avresti portata sulla coscienza per tutta la vita, ricordatelo.”
Quel carabiniere aveva ragione, ora lo capiva. Non aveva avuto cattive intenzioni, tuttavia si era divertito a spese d’altri come se il suo prossimo non contasse. Sì, è vero, era stato davvero stupido e incosciente a far avventurare tutti in quella folle impresa, spiegò contrito, per lettera, ai signori Lavagna, ma non sarebbe accaduto mai più.
E per il resto se la sarebbero vista giudici e avvocati in tribunale.
Massimo Bianco 18/12/10. Fine.
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