In ricordo dell’artista Giorgio Moiso

IN RICORDO DELL’ARTISTA
GIORGIO MOISO

IN RICORDO DELL’ARTISTA GIORGIO MOISO

Era nato a Cairo Montenotte settantasette anni fa ed è deceduto all’ospedale San Paolo di Savona il 23 dicembre dell’anno appena trascorso. Alla personalità dal multiforme ingegno di Giorgio Moiso più che quella di pittore meglio  si addice quella di artista, anche se la pratica e la passione della pittura sono state una costante che lo ha accompagnato  dalla sua adolescenza, quando ha appreso i rudimenti dell’arte alla scuola del pittore cairese Carlo Leone Gallo (come il suo conterraneo Roberto Gaiezza) fino ai suoi ultimi anni di vita quando ormai la sua fama oltre ad essere divenuta europea aveva raggiunto anche  l’estremo Oriente, dove l’Asian Museum of Art di Daejeon, nella Corea del sud, gli ha allestito una grande mostra intitolata Cosmography


 La sua è stata una vita d’artista nel senso pieno del termine. L’altra passione  che non lo ha mai abbandonato è stata quella per la musica jazz tanto da diventare, sotto la guida del batterista  savonese Gino Bocchino, anch’egli un batterista provetto. Nel 1968 si diploma presso il Liceo Artistico  di Savona “Arturo Martini”. Al giovane artista cairese gli anni Sessanta del secolo scorso hanno offerto un’occasione d’oro per conoscere e frequentare i maestri all’avanguardia delle arti  della pittura, della scultura e della ceramica contemporanea, che trascorrevano le loro estati di vacanza ma anche di lavoro ad Albissola Marina come Agenore Fabbri, Lucio Fontana, Ansger Jorn, Wifredo Lam, Sergio Dangelo, Mario Rossello, Roberto Crippa, Aurelio Caminati, Ansgar Elde  e altri di passaggio come Gianni Dova, Valerio Adami e lo spagnolo José Ortega, solo per citare alcuni dei maggiori artisti che si incontrarono in quel crocevia dell’arte d’avanguardia internazionale che era diventata l’Albissola degli anni Cinquanta e Sessanta. Nel 1972 partecipa alla mostra Il tema dell’uomo invitato dal critico e storico dell’arte Mario De Micheli, nume tutelare, con il ceramista Tullio d’Albisola, delle giovani promesse dell’arte d’avanguardia e impegnata gravitanti nelle terre albisolesi,  presso il locale prestigioso Museo della Ceramica. 


 In quello stesso anno inaugura il suo atelier a Pozzo Garitta. Il 1975 è l’anno della sua partecipazione alla X Quadriennale di Roma, dove espone due tele di grandi dimensioni sul tema dell’albero, tema caro anche  al savonese Mario Rossello, ammiratissimo da Moiso  dal quale trae in quegli anni motivo di ispirazione e l’impulso ad una maggiore astrazione fino al superamento della visione realistica delle sue prime prove d’artista. Nel 1976 si trasferisce a Milano dove il suo stile si volge decisamente verso l’espressionismo  astratto e la cosiddetta “pittura nucleare” di Sergio Dangelo, Enrico Baj, Gianni Dova e altri che, rifacendosi all’automatismo dei surrealisti adottarono le tecniche del tachisme, del frottage, del collage, dell’action painting dello statunitense Jackson Pollock, che addirittura eliminò il quadro e il cavalletto preferendo stendere la tela sul pavimento per sentirsi parte integrante dell’opera che andava costruendo. Importante per la sua cultura di artista in continuo divenire e per la sua inesauribile ricerca stilistica (ovviamente non in senso accademico) fu l’incontro avvenuto a Venezia nel 1988 con la Pop Art italiana interpretata dal pittore  Mimmo Rotella,  con il critico d’arte Pierre Restany, fondatore del Nouveau réalisme e con lo scultore e orafo Arnaldo Pomodoro. L’eclettismo sperimentale di Giorgio Moiso raggiunge la sua acme nel momento in cui decide, nel 1998, di riunire musica e pittura, gesto e segno, colori e   suoni in una sorta di conversazione a più voci  tra i gesti dell’artista, le note degli strumenti musical che accompagnano il farsi dell’opera sotto gli occhi del pubblico, la voce dell’artista che dialoga con gli astanti mentre stende sulla superficie intatta della tela macchia su macchia, segno su segno, linea su linea improvvisando come improvvisano i jazzisti nelle loro variazioni musicali.

E’ la tecnica della “Live Performance Painting” già sperimentata dal gruppo giapponese Gutai, da Georges Mathieu, da Fluxus, la rete di artisti Neo Dada  ideata dal lituano George Maciunas, che si ispirava alle idee di Marcel Duchamp, per il quale, come è noto, tutti potevano essere artisti  se lo volevano, una volta venuta meno la distinzione tra oggetti o manufatti comuni e opere d’arte esposte nelle gallerie dei mercanti o conservate nei musei (o nelle case dei ricchi collezionisti): la Fontana di Duchanp docet,  così come il barattolo contenete la Merde d’artiste  di Piero Manzoni. Scandalizzarsi per questo significa non aver  compreso che oggi il concetto di che cosa è un’opera d’arte non è più quello classico, o quello romantico e nemmeno più quello teorizzato e realizzato dalle avanguardie iconoclastiche del primo Novecento; l’arte dei nostri giorni più che produrre oggetti da contemplare, da comprare o da vendere sul mercato o nelle aste e destinati a durare sono “eventi” , “azioni”, “rappresentazioni”, “happening” e, appunto, “performance” che durano  l’espace d’un matin. Si pensi ai famosi package di Christo, o alla Body art in cui è l’artista stesso a mettersi a nudo, o alle autopunizioni  masochistiche di Marina Abramovich, o alle opere effimere del misterioso e geniale Bansky. Non per niente viviamo in una società liquida, secondo la fortunata definizione di Zygmunt Bauman. Ad ogni modo va riconosciuto a Giorgio Moiso di essere riuscito a fondere, nelle sue performance, il linguaggio della musica jazz con quello della pittura informale e dell’arte concettuale, tutto questo senza la pretesa di comunicare chissà quali messaggi universali: la sua arte non andava oltre il gesto che la faceva vivere come la melodia di un flauto o le percussioni di un cembalo, ma proprio questi limiti spaziotemporali ne costituivano l’unicità e l’irripetibilità, proprio come i limiti spaziotemporali di una vita tutta dedicata all’arte. 

 FULVIO SGUERSO

 

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