IL VOLO DI UNA FARFALLA

Commento a “Volevo essere una farfalla” di Michela Marzano.
IL VOLO DI UNA FARFALLA
TRA DOVER ESSERE ED ESSERE
Sabato 15 ottobre 2011, alle ore 18
 presentazione del mio libro: Appunti e contrappunti 

Commento a “Volevo essere una farfalla” di Michela Marzano.
IL VOLO DI UNA FARFALLA
TRA DOVER ESSERE ED ESSERE
Sabato 15 ottobre 2011, alle ore 18
 presentazione del mio libro: Appunti e contrappunti 
Diversi temi  – e relative variazioni – si intrecciano e si inseguono attraverso questo testo (o “acquarello”) autobiografico di Michela Marzano (Volevo essere una farfalla. Come l’anoressia mi ha insegnato a vivere, Mondatori, 2011) intessuto appunto di ricordi, aforismi, confessioni, glosse, interpretazioni, referti medici, frammenti di dialogo, monologhi, “tracce”, “indizi”, SMS, “Pennellate veloci in assenza di un disegno preciso” (ma  su quest’assenza ci sarebbe da discutere)…

 

Prendiamo, ad esempio, il contrasto tra leggerezza e pesantezza, tema ricorrente in questa narrazione autodiegetica e rapsodica il cui tempo misto rispecchia  il ritmo dei pensieri e della “musica interna” della scrittrice (tema, tra l’altro, caro a Italo Calvino, che gli ha dedicato la prima delle sue Lezioni americane):  “Per anni, ho fatto di tutto per diventare leggera come una farfalla. E ci sono quasi riuscita. In termini di chili, s’intende. Perché per il resto, la vita è stata spesso ‘troppo pesante’.” Abbiamo qui il motivo  della corporeità intesa come impedimento, opacità, peso della carne, bisogni, istinti, materialità e, insomma, come scandalo da esorcizzare per librarsi,  disincarnata, senza più peso, nel cielo della perfezione ideale dove non avrebbe “mai più avuto bisogno di nessuno”: “Sarei perfetta! – Lo dico a Beatrice che non riesce proprio a capire perché, anche dopo aver vinto il dottorato, continuo a non voler mangiare. – E perché non semplicemente normale? – Mi risponde lei sempre più perplessa. – Ma che cosa si intende con normale? – Reale. L’unica vera normalità è la realtà. – Ma quale realtà? Le realtà sono infinite. – Sì, certo. Ma nonostante tutto, ogni realtà ha un corpo. Solo l’ideale è senza corpo, senza carne, senza fame. – E’ per questo che l’ideale è superiore. La perfezione non lascia tracce. Non sporca. E’ ineffabile…” Ho riportato per intero questo breve dialoghetto filosofico (scritto, per inciso, prima  dell’avvio del  dibattito in corso su neo-realismo e postmodernità) perché vi compare il “sintomo” dell’anoressia, disturbo psicosomatico quant’altri mai,  che richiama per analogia  le esperienze di grandi mistiche anoressiche come Chiara d’Assisi, Caterina da Siena,  Angela da Foligno, e, ricordata pour cause dalla stessa Marzano, Simon Weil, la quale, ammalata di tubercolosi, si lasciò morire d’inedia per non sottrarre ad altri il cibo in tempo di guerra; e che non per niente scrisse, pensando al pane sovrannaturale del Pater: “Tutti coloro che credono che vi è o vi sarà un nutrimento prodotto quaggiù, mentono. Il nutrimento celeste non fa solo crescere in noi il bene: esso distrugge il male, cosa che i nostri sforzi personali non potrebbero mai fare.” La leggerezza a cui aspira la “rossa” (nell’anima) e appassionata protagonista di questa sorta di “itinerario” dal rifiuto all’accettazione di sé, o, se si preferisce, dall’io ideale all’io reale, ha però il carattere di un’ascesi laica, non religiosa o mistica, tende all’indipendenza assoluta, all’autonomia, alla libertà. La pesantezza da cui vuole liberarsi non riguarda solo la corporeità con le sue miserie, c’è una pesantezza per così dire “eteronoma”, dovuta a certe situazioni date e a ferite profonde che non si rimarginano mai del tutto (“Pensavo di esserne uscita per sempre. E invece no. Di nuovo quei maledetti antidepressivi che poi non servono mica tanto. Perché la ferita non la si ripara mai. E ancora oggi basta poco per precipitare nell’abisso.”)

E’ il tema della depressione grave, della malinconia profonda che deriva dalla perdita di senso, o dal senso della vanità di tutto, dalla perfetta insignificanza e uguaglianza di qualunque gesto o parola o invocazione o preghiera, è l’angoscia che stringe alla gola quando la vita “sembra una prigione senza porta. Anche se la porta esiste…per gli altri…basterebbe aprirla… un semplice gesto…impossibile… perché è meglio morire che decidere di non essere più esattamente quella persona che si è fatto di tutto per essere…quella che merita di vivere…quella che ha il diritto di farlo.” Ma come può accadere che una giovane donna, di condizione agiata, laureata a pieni voti in filosofia alla Normale di Pisa, con un dottorato di ricerca all’attivo,  che “ha avuto tutto (o quasi) dalla vita”, arrivi al punto di pensare alla morte come alla liberazione da quell’incubo che per lei era diventata l’esistenza? L’incubo dell’inadeguatezza come colpa imperdonabile, colpa che fa perdere l’amore, il primo amore del padre, e poi quello degli altri amati come sostituti o controfigure del padre?

 

E’ proprio quello che cerca di spiegare  – e di spiegarsi –  l’Autrice, pur nella consapevolezza che non tutto è spiegabile e nemmeno raccontabile (“Perché ciò che conta lo si protegge. E anche quando tutto quello che si dice è vero, esiste una verità segreta e intima che non si condivide con nessuno.”), con questo suo “libro aperto”, assumendosi i rischi dell’impresa e delle possibili incomprensioni e pruderie parentali: “Sei proprio sicura di volerlo scrivere? Non pensi a quello che dirà la gente?”; “Non pensi a coloro che ti vogliono bene? Non pensi al loro dolore?”; “Non pensi al tuo ruolo, ai tuoi studenti? Pensi che poi ti prenderanno ancora sul serio?” ecc. Ma è proprio perché pensa a tutte queste cose che ha sentito il bisogno (stavo per scrivere il dovere) di “decostruire i tanti luoghi comuni che circondano l’anoressia. Per spiegare che è anche grazie a tutto quello che ho vissuto che oggi faccio la filosofa.” Quindi grazie anche ai pesi interiori di cui si è caricata nella sua giovinezza? Beh, se le parole hanno un senso, certamente sì. Ed è significativa la rievocazione di questi pesi, enumerati e  posti in una teca come vecchi e preziosi documenti o memorie di famiglia a cui si può guardare ormai come da un’altra vita:

 

 “E’ stato pesante dover essere la più brava. E’ stato pesante cercare sempre di adattarmi alle aspettative altrui. E’ stato pesante dimenticare Alessandro, abbandonare il mio paese, fare del francese la mia lingua…Ma è stato soprattutto pesante ricominciare a vivere dopo essere precipitata ‘troppo in basso’.” Perché troppo in basso? Qual è l’unità di misura? In che cosa consiste quel “troppo”? Tutto questo è stato, al passato, anche se prossimo. Dunque l’io ideale, il “dover essere”, il “tu devi” kantiano non sono ormai altro per l’Autrice che ricordi di un tempo che fu o solo concetti da spiegare ai suoi studenti? Mi permetto di dubitarne (e lei stessa dice che il passato non passa mai del tutto). Certo, si è emancipata dalla paura di deludere o, peggio, disobbedire alla “legge del padre”;  ha risolto, anche con l’aiuto della terapia analitica, il suo complesso di Elettra; ha imparato ad accettarsi per quello che è e a non sentirsi più in colpa per quello che non è; certo ha preso congedo dal mito di Sisifo e ha imparato a perdonarsi…ma perdonarsi di che cosa? Di che cosa si deve ancora perdonare? Di essere diventata quello che è? Di aver trasformato il modello paterno del “volli, e volli sempre, e fortissimamente volli“ nel “Devo, devo e devo ancora” della professoressa di etica Michela Marzano? Di “lasciare un po’ di spazio all’altra voce. Quella che prima era talmente fioca che non riusciva a emergere.

Michela Marzano

Quella che taceva subito, perché l’altra l’azzittiva. Quella che mi diceva che potevo restare seduta a valle. Fermarmi. E non fare altro che ascoltare il passo delle nuvole sul prato.”? Ci si perdona e si chiede perdono per colpe o mancanze o peccati commessi, per non aver corrisposto alle attese di qualcuno che ci può condannare o assolvere, per aver infranto una qualche legge scritta o non scritta (che sono le più inviolabili. Si pensi ad Antigone e alla legge morale di Kant).

Di quale colpa deve ancora perdonarsi l’io reale di Michela? Se “nella vita non si può fare altro che accettarsi”, l’autoindulgenza non è una colpa ma una conseguenza logica. O no? Quanto al tema della gravità senza più peso, vorrei concludere (provvisoriamente, è ovvio) con le parole di Jacques in As You Like It, di Shakespeare, citate da Calvino: “…è la mia peculiare malinconia composta da elementi diversi, quintessenza di varie sostanze, e più precisamente di tante differenti esperienze di viaggi durante i quali quel perpetuo ruminare mi ha sprofondato in una capricciosissima tristezza.” Me è questo il tema dominante di Volevo essere una farfalla? E’ vero che il libro reca il sottotitolo Come l’anoressia mi ha insegnato a vivere, ma forse, senza nulla togliere alla sua valenza “terapeutica” e di testimonianza, il tema dominante è un altro. Quale? A me pare che il motivo conduttore profondo di questo “diario intimo e filosofico” sia quello della relazione tra l’io e il tu; tanto che un altro sottotitolo (o, addirittura, titolo) potrebbe essere: “Io sono qui, tu dove sei?”. Tema, del resto, sempre attuale e inesauribile…

Fulvio Sguerso

 

 

 Galleria d’arte Immaginecolore 

 Genova, vico del Fieno 21r

 Sabato 15 ottobre 2011, alle ore 18   

presentazione del libro: 

Appunti e contrappunti 

 di Fulvio Sguerso 

a cura del prof. Roberto Guerrini 

edizione per i Quaderni di Cantarena

   di Mario Fancello  

moderazione del prof. Marco Fabio Gasperini 

Introduzione 

Leggendo con attenzione i presenti articoli di Fulvio Sguerso, più che la volontà di propormi in eventuali critiche o elogi circa i loro contenuti (peraltro largamente condivisibili soprattutto per ciò che riguarda l’approccio critico con cui pianifica le argomentazioni nei suoi pezzi), è sorta in me l’esigenza di provare a rilanciare una antica, ma a mio avviso ancora (e, nonostante tutto) capitale domanda: quale è il ruolo dell’intellettuale?

Già, poiché se si presuppone e si accetta che il “libero pensiero”, precipuamente l’attività dell’intellettuale indipendente, ma altresì anche di tutti coloro che esercitano (o provano ad esercitare) l’arte del dubbio e della critica, ha ed abbia avuto un qualche ruolo positivo nella storia dell’umanità, allora il problema del suo compito nelle sociètà non cessa di essere un argomento ancora degno di attenzione, soprattutto oggi, epoca in cui, più che mai, si è costretti a contemperare all’indifferenziata azione di un globale ed indistinto pensiero esclusivamente animato dalla ferrea volontà di compiacere ciò che risulta essere pragmaticamente vincente, immediatamente spendibile, rinunciando (assurdamente) ad una qualsiasi forma di critica che favorisca una progressione ed uno sviluppo non assecondati alla mera ovvietà o a forme più o meno sofisticate di “mericismo” culturale.

L’intellettuale non è dunque solamente un individuo che pensa, produce e ricicla pensiero, ma è soprattutto un individuo che si schiera, che prende costantemente una posizione, anche a costo di sbagliare. Da qui l’impossibilità di continuare a pensare all’intellettuale come al promotore di un’attività esclusivamente teoretica e che si caratterizza perciò come separabile dall’ambito del politico, della sensibilità e dell’esperienza.

Là dove si ha la forza di provare a sostenere che la realtà non è che una delle possibilità del reale, allora l’azione della critica, l’esercizio del dubbio, divengono i presupposti fondamentali per ogni azione sociale che presupponga un futuro.

 

Al lettore l’onere di leggere queste pagine provando quindi a partecipare attivamente all’argomento proposto.

        Roberto Guerrini

 

   Da tempo ci troviamo in una crisi permanente che riguarda tutti gli ambiti e i contesti della vita sociale, quindi della vita di tutti e di ciascuno. Naturalmente non la si vive e non la si patisce allo stesso modo o con la stessa percezione della gravità del momento storico che stiamo attraversando – ho usato a ragion veduta il verbo “attraversare” quasi a sottintendere la speranza di trovare, prima o poi, una via di salvezza che non sia solo una via di fuga -, basti pensare alla sperequazione macroscopica nella distribuzione delle ricchezze e delle risorse tra gli abitanti di questo nostro pianeta che sembra diventare di giorno in giorno sempre più stretto e in difficoltà nell’ospitarci e nel sostentarci. In un certo senso, o meglio, dal punto di vista del mondo (ipotizzando per assurdo che il mondo possa avere un punto di vista), la comparsa dell’ Homo Sapiens sulla faccia della terra è stata più di danno che di vantaggio: fin dall’inizio, per difendersi e sopravvivere, la scimmia nuda,  politica, parlante e simbolica chiamata “uomo” ha dovuto in qualche misura alterare, modificare, addomesticare l’ambiente naturale circostante per renderlo, appunto, abitabile. A differenza degli altri animali, infatti, l’uomo ha bisogno di lavorare per sopravvivere: non per niente ha le mani libere e un encefalo altamente specializzato per progettare e costruire e usare  strumenti adatti alla produzione di beni necessari a soddisfare i suoi bisogni….

          Fulvio Sguerso, dall’articolo L’abuso del mondo  

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