Il viaggio

Il viaggio
Un passo appresso all’altro i nostri avi hanno attraversato il mondo. 

Il viaggio

 Un passo appresso all’altro i nostri avi hanno attraversato il mondo. Quando non potevano farlo a piedi, lo hanno fatto su una nave, su una zattera. Quando ne hanno avuto occasione hanno usato camion, carri, auto, treni o anche aerei.

Non era una scelta. Almeno, non c’era altra scelta che far su i bagagli, quei pochi, e partire. Se uno aveva tanta fortuna da avere un pezzetto di terra e la casa, allora lasciava la moglie ed i figli (magari piccoli) a badare alla proprietà. Se uno era invece mezzadro, bracciante o completamente diseredato, ed aveva sulle spalle una famiglia, si provava a partire tutti insieme.


Partire voleva dire semplicemente alzarsi dal giaciglio, un giorno come un altro, prepararsi il fagotto con qualcosa da mettersi, un pezzo di pane, forse qualche poca moneta, se si aveva. Chi si spostava poco, diciamo così dai monti savonesi alla Riviera, per la raccolta delle olive o per cavare le fasce in inverno, partiva con la zappa in spalla. Ma stupisce sapere che chi andava in America, e ci metteva anni e anni per tornare (se tornava) non aveva un bagaglio poi molto diverso.

Sappiamo che i flussi migratori importanti sono iniziati grossomodo dalla metà dell’Ottocento. Che i primi a emigrare sono stati soprattutto piccoli artigiani, avventurieri o banditi (come Garibaldi…).

Prima verso la Francia, poi, sempre più spesso, verso l’America del nord e del sud.

Un amico paraguaiano mi ha raccontato che i nostri contadini venivano talvolta ingannati dai sensali delle compagnie di navigazione. Questi personaggi girovagavano per le campagne e convincevano i poveracci a spendere gli ultimi loro soldi per imbarcarsi, e andare all’America. Dove fosse, poi, quest’America, non era chiaro. Certo, quei contadini erano abituati a viaggiare, a cercare minestra e lavoro dove capitava. Oltre il mare non poteva essere diverso. E allora si partiva, finendo magari in Paraguay anziché negli Stati Uniti. Ma era poi importante la differenza?


Non c’era una cartina, non c’era una mappa, una guida, non c’era un notiziario, un dizionario semplificato per la lingua, non c’era neppure la speranza di tornare indietro se le cose non fossero andate bene. Non c’era il telefono per far sapere a casa che si stava bene, che si era arrivati, che si sarebbe ritornati. Partire era un salto nel vuoto, ma che non scioglieva mai i profondi legami con la propria terra, con la propria famiglia: chi ha potuto è tornato. Magari poi ripartendo altre volte, cercando quella fortuna che solo rarissimamente è arrivata.

E viaggiano si scoprivano nuove persone con nuovi linguaggi, nuove tecniche e tecnologie. Perfino il cielo e le stagioni erano diverse o addirittura capovolte, rispetto alla normale percezione. Solo la chiesa ed i suoi riti offrivano al viandante una sorta di sostegno morale, di incoraggiamento anche solo con la presenza. La chiesa cattolica, quell’edificio centrale rispetto al proprio paese, al proprio borgo, era quasi sempre ritrovato in terra d’emigrazione. Ricordiamo poi che la messa si celebrava in latino, quindi entrare in chiesa in Francia come in Spagna o come a Montevideo o Buenos Aires voleva dire davvero mettersi in comunione con la propria terra, con le proprie origini, con i propri cari. E proprio alle potenze ultraterrene ci si affidava per il viaggio, per la fortuna, per la speranza di ritrovare a casa tutti in buona salute.


Sono passati anni e guerre, è arrivata soprattutto l’industria e si è consolidata un’economia in grado di dare occasioni di guadagno anche ai braccianti, ai senza terra, ai proletari. Cambiando anche, tra l’altro, il concetto di viaggio.

Da una grande città del nord ci si sposta al sud per trovare i parenti. Oppure anche solo dalla stessa città si migra per una giornata al mare, nella luce splendida dell’estate. Prima di partire ci si predispone un elenco (scritto o mentale) di cose indispensabili da portare.

Predisponiamo l’auto con carburante e tutto quel che serve. Verifichiamo meteo, traffico, situazione alberghi. Stiliamo un programma di massima sul dove fermarsi, dove fare rifornimento, dove fare pipì. Abbiamo indumenti per cambiarci, ombrelli, cerotti, aspirine. Infine moneta contante, carte di credito, assegni. Pronti? Via.

Il tragitto è ovvio. Il paesaggio è noto, o comunque sempre ed esattamente lo stesso. Stiamo all’interno di un abitacolo (noi e il nostro clan) e non ci parliamo. Gli autogrill, le autostrade, i centri commerciali che incontriamo e che ci ospitano per brevi momenti di ristoro sono sempre uguali. Non fa differenza essere a Monza o a Macerata. Ci sono gli stessi prodotti, le stesse televisioni accese, le stesse facce dei baristi affranti dietro il banco. Perfino lo stesso odore (finto) di brioches appena sfornata. Naturalmente non chiediamo informazioni: abbiamo il satellitare che ci porta fin davanti al civico dove vogliamo arrivare. Se andiamo all’estero abbiamo traduttori o dizionari o opuscoli informativi per sapere cosa fare o non fare. Giunti alla meta c’è una cosa che più di altre ci fa sentire a casa: la televisione. Essa è sempre semplicemente lei. Anche se fossimo all’estero, non sarebbe difficile trovare gli stessi telefilm, gli stessi film, talvolta gli stessi programmi di intrattenimento, magari in lingua diversa, ma tutto sommato comprensibili. Così la tele ha sostituito il prete…

 

E tutto questo è, per certi versi, molto bello, perché rassicura e rende sereno il viaggiatore. Gli permette di sfruttare al meglio il suo tempo.

Allo stesso tempo mi sovviene il ricordo di una persona cara, che raccontava di essere arrivata ad Albenga a piedi da Osiglia, per salutare suo marito soldato pronto per il fronte. Tanto si attardarono, i due sposi, che lei se ne ripartì verso casa all’imbrunire, a piedi, verso i suoi monti. Sorpresa dal buio perse la strada. Una ragazza sola, di vent’anni, persa tra campagne e poche case. Finalmente, come nelle migliori fiabe, vide una luce, prese coraggio e si avvicinò. Chiese aiuto. Aveva trovato una famiglia pronta a cenare: la ospitarono, le diedero da lavarsi e riassettarsi, cena e un letto. Il mattino dopo poté ripartire alla volta di casa sua. Mi aveva raccontato questo episodio sorridendo, come a uno scampato pericolo, ma niente, tutto sommato, di incredibile: se uno è in difficoltà bussa a una porta, una porta qualsiasi, e sarà aiutato. Giusto? Eh… Forse… Siamo tutti spaventati e preoccupati, ci sentiamo minacciati nelle nostre case tutte uguali (come gli autogrill e le autostrade e i paesaggi che da lì si vedono). Tanto minacciati che non credo proprio sia possibile aiutare direttamente una persona sola, e sconosciuta, di notte, che viene a bussare alla nostra porta.

Il viaggio è cambiato. Le nostre paure sono cambiate, il nostro coraggio è cambiato. Mio bisnonno è partito per l’America con un fazzoletto legato ai quattro angoli, con una giacca, un pezzo di pane e un coltellino a serramanico. Io, se esco sul pianerottolo e non ho in tasca lo smartphone collegato a internet, vado nel panico. Ci sarà una via di mezzo?

 

  Alessandro Marenco

 

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