Il tempo del bastone e della carota

L’illusione della democrazia, quella liberale e quella popolare

Mi perdonerà la Buonanima per il prestito ma altro non mi è venuto in mente quando ho sentito che i nostri governanti riapriranno stadi e discoteche ma intendono mantenere l’obbligo di esibire l’inutile, inutilissima, carta verde e non recedono dall’idea di costringere i cinquantenni a farsi tre dosi di vaccino anche se pensionati, nullafacenti o montanari. E così incassano la gratitudine del popolo bue pronto a tirare senza un lamento il giogo dei rincari e l’umiliazione di imposizioni liberticide e insensate. Sono gli espedienti, antichi come il mondo, ai quali ricorrono i tiranni per mantenere il consenso, con l’aggravante che nel nostro caso il bastone è vero e fa male mentre la carota è solo promessa e se c’è è marcia.
L’inflazione galoppa e le tasse ci strozzano e poiché, come sempre accade, le prime vittime sono i pensionati, il governo annuncia fra squilli di tromba che le pensioni saranno rivalutate e adeguate al costo della vita e in più saranno gonfiate dalla tanto attesa e finalmente realizzata riforma fiscale. Bene: nelle mani dell’Istat l’inflazione reale che  su base annua supera il 10%  si riduce all’1,7% e di questo, siccome per lo Stato sei ricco, te ne tocca la metà. Un euro, forse due, al mese. Però c’è la riforma delle aliquote Irpef: perbacco dal 38% che intascava lo Stato mamma ora si accontenta  del 35. Poi vai a vedere il cedolino e ti accorgi che sei fortunato se non ti hanno succhiato più sangue di prima.

Gli oligarchi romani vellicavano il popolo con le ceste alimentari e l’ingresso gratis agli spettacoli gladiatori: panem et circenses. Demagogia, certo ma quantomeno al popolino si dava e non si toglieva perché le tasse pesavano sui ricchi. Questo nostro governo di non eletti imposto col ricatto della paura si adopera per appiattire i ceti sociali tradizionali sul proletariato e dopo aver fatto stringere la cinghia a tutti a tratti la allenta per poi tornare a stringerla. Fatto si è che il benessere è il peggior nemico delle dittature e che come la Chiesa i comunisti di ieri e di oggi hanno bisogno di poveri.
È un periodo penoso della nostra storia, iniziato da quando i compagni sono entrati nella “stanza dei bottoni” e vi si sono barricati dentro. I regimi autoritari hanno spesso una loro grandezza e anche le più cupe tirannidi sono illuminate da una seppur tragica luce. Del resto la solitudine del potere espone al rischio di  perdere il contatto con la realtà e di smarrirsi nella dimensione onirica  del predestinato.

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Qui, al contrario non c’è alcuna luce né grandezza. Utopia comunista  e sedicente democrazia  nella loro apparente contrapposizione ci hanno portato una nuovo modello di autoritarismo liberticida esercitato da uomini e gruppi di sconfortante mediocrità intellettiva, politica e morale. La storia del ventesimo secolo è segnata da un piccolo criminale che a guerra già vinta volle verificare sulla testa di centinaia di migliaia di civili  la potenza distruttrice dell’arma atomica. Un omuncolo senza traccia della lucida follia del capo ispirato da un’illusione messianica: solo un’ottusa, proterva mancanza di empatia. Dall’altra parte una banda di altrettanto piccoli uomini che la natura aveva destinato a un ruolo di ladruncoli si era spartita le spoglie della terza Roma senza avere il minimo sentore della grandezza ieratica che stavano profanando. In entrambi i casi  l’esercizio del potere privo non dico di idealità ma del sentimento del peso e della responsabilità che derivano da un’investitura, che sia quella del proprio popolo o quella, fantasiosa quanto si vuole, di una oltremondana autorità suprema. Il peso e la responsabilità del potere sono sconosciuti ai regimi liberal-democratici come a quelli comunisti.

Non è un caso che gli uni e gli altri si siano qualificati come “democratici” e abbiano in modo truffaldino vantato una loro legittimazione popolare, quando gli uni e gli altri erano soltanto espressione di una cricca tesa unicamente alla perpetuazione del proprio potere e alla difesa dei propri privilegi, quando gli uni e gli altri erano ugualmente impegnati, in forme solo apparentemente diverse, alla manipolazione del consenso, al controllo dell’informazione e al bavaglio  ad ogni forma di opposizione che non fosse di comodo. E non è un caso che, soprattutto in Italia, ci sia stata una reciproca legittimazione delle due “democrazie”, a cominciare da una storiografia delirante che continua pervicacemente ad assegnare alla rivoluzione d’ottobre (manca solo che venga qualificata come gloriosa) il crisma di una svolta epocale quando si trattò solo di una brutta parentesi incoraggiata e finanziata dall’occidente capitalista e prolungata dal clima di tensione e di instabilità che sfociò nella guerra e che nel dopoguerra trasformò la Russia (l’Urss)  in una fortezza. Prova ne sia che con l’attenuarsi della guerra fredda e l’affermarsi di una relativa normalità quel regime di cartapesta insanguinata crolla senza lasciare traccia né rimpianti. Magistrale, a questo proposito, l’analisi di Putin, che smitizza l’intoccabile, per i nostri compagni, Lenin e lo addita come nemico della Russia, del popolo russo, della storia e della tradizione russe.

La coincidenza semantica fra la Deutsche Demokratische Republik e l’italiana Repubblica democratica fondata sul lavoro non è casuale: c’è un’identità di fondo nella concezione del potere, usato contro il popolo in nome del popolo. Potere per il potere, la politica al riparo dalla nazione, chiusa nel proprio recinto e pronta, se si sente in pericolo, a stringere le maglie delle libertà individuali e collettive. A questo punto qualcuno mi potrebbe obbiettare: “guarda che è sempre stato così, è inevitabile che sia così, è questa l’essenza del potere”. Non è vero. Nei regimi illiberali o autoritari come, cito a caso, quello dell’Italia postunitaria umbertina il potere si esercitava per la Nazione e se pure, colpevolmente, i governanti non rispondevano ai bisogni reali delle persone, avevano comunque un’idea, per quanto astratta, del bene del Paese. Oggi non più. Sento Letta che invoca le misure più dure possibili contro la Russia – chissà cosa gli passa per la testa -, e se per Enrico IV Parigi, cioè la corona, valeva bene una messa in barba al calvinismo ugonotto che l’aveva scelto come capo, per i nostri leader politici l’integrità dell’Ucraina (e capirai!) val bene una guerra, tanto la politica è un gioco di ripicche sulla pelle del popolo bue e se dalle ripicche il Paese esce a pezzi pazienza.. L’Italia, che ha già accettato senza fiatare che le fossero strappate terre italianissime come l’Istria e la Dalmazia (e figuriamoci se ora i suoi politici si scandalizzerebbero se l’Alto Adige finalmente solo Sütirol tornasse ad essere una provincia austriaca: in fondo, direbbero i compagni,  parlano tedesco e sono diventati forzosamente italiani) è pronta a qualunque sacrificio per l’integrità territoriale altrui.

Se riguarda noi il patriottismo è un ritorno di fiamma del fascismo, è anacronistico, è contrario allo spirito europeo ma per l’Ucraina, che storicamente non esiste, tant’è che il principato di Kiev  è stato l’embrione della Russia zarista, per l’integrità territoriale dell’Ucraina, che è stata creata a tavolino, si può anche morire.  Il nazionalismo, se riguarda gli altri,  è sacro e l’Ucraina merita tutto il sostegno della comunità internazionale, anche nel caso in cui ciò che gli viene contestato è il progetto di ospitare sul proprio territorio una concreta minaccia militare contro la casa madre. I politici che ragionano in questo modo, e dico i Letta, i Di Maio, gli Zingaretti ma anche la Meloni e il frastornato Salvini e tutto il codazzo dei giornalisti mantenuti con i nostri soldi, non con quelli dei loro quattro lettori, Sallusti in testa, che idea hanno della natura del potere? In nome di chi si esprimono? Non certo del popolo che dovrebbero rappresentare, al quale fra l’altro hanno fatto credere che i colpi di mortaio sul Donbass che hanno fatto precipitarla crisi venissero dai separatisti russofoni che avrebbero bombardato sé stessi. E al quale dovrebbero render conto che le sanzioni più dure possibili invocate da dritta a manca dello schieramento politico manderebbero a picco decine di imprese italiane e darebbero un’altra mazzata non all’economia in astratto ma ai conti delle nostre famiglie già stremate dai rincari delle bollette e del carburante. Perché se è vero che una guerra europea o mondiale rimarrà solo nel delirio di Biden  (di Johnson non vale la pena parlare) i guasti prodotti dalle parole e dalle minacce rimarranno e sarà difficile porvi rimedio come sarà difficile porre rimedio alle conseguenze dell’asse Russia-Cina creato dal capo della Casa Bianca.
P.s
Sul QI di Salvini mi ero già espresso. Della nullità politica della Meloni e della inaffidabilità dei nostalgici ho avuto conferma.

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3 thoughts on “Il tempo del bastone e della carota”

      1. Appongo anche al tuo articolo la risposta al commento al mio di un lettore:
        Sono rimasto sgomento al leggere, prima le dichiarazioni di Di Maio, che rifiuta di sedersi al tavolo del negoziato con la Russia, suscitando la lezione di diplomazia del ben più navigato Lavrov (vedi oltre); e in seguito le dichiarazioni bellicose della van del Layen che, mentre le città ucraine sono sotto le bombe, acuisce ancor più la tensione dichiarando di volere l’Ucraina nell’UE. Benzina sul fuoco.
        Questa la lezione di Lavrov a Di Maio: “È una strana idea della diplomazia. [La diplomazia] è stata inventata proprio per risolvere situazioni di conflitto e di tensione, non per fare viaggi a vuoto in giro per le nazioni o per assaggiare piatti esotici a ricevimenti di gala. I nostri partner occidentali devono imparare a usare la diplomazia in modo professionale.” Capito, dilettanti allo sbaraglio?

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