Il sapore della polenta

Il sapore della polenta
Ho capito che il gusto delle cose va assaporato
quando c’è perché è difficile farlo tornare

Il sapore della polenta

Da oramai quattordici anni mi manca una persona alla quale ero molto affezionato. Abitava con la moglie in una casa un po’ isolata da cui non si vedevano altro che boschi, boschi a perdita d’occhio. Lo ricordo bene mentre guardava verso quelle colline, silenzioso. Per me quello era (ed è) un paesaggio sicuramente affascinante, pieno del rigoglioso verde della natura. Per lui ogni sommità, valle, dirupo, cascina, chiazza di un colore più scuro era significativo di un posto preciso, di un’esperienza ed un aneddoto da raccontare. Qui aveva cacciato, là era andato a trovare una ragazza, qui a ballare, là a tagliare legna, lassù a nascondersi dai repubblichini o dai nazisti, qui aveva aiutato tizio o caio impantanati col loro carro nel fango. Ogni luogo aveva un suo nome, ogni nome un ricordo. Conservo di questa persona (che era anche mio zio) una immagine nitidamente affettuosa, incorrotta dal tempo passato. Spesso lamentava dolori in tutto il corpo, forse a causa del troppo tempo passato all’addiaccio, sempre al lavoro all’aperto, e rimpiangeva vagamente il non poter più decidere, in quattro e quattr’otto, di partire per andare a cercare un ramo di maggiociondolo per allontanare la talpa dall’orto, o a prendere l’ultima neve dell’anno, come aveva fatto quando suo padre, molti anni prima, era costretto a letto da una inguaribile malattia: per ristorarlo raggiungeva una volta al giorno il bricco più alto, dove c’era ancora un po’ di neve, e gliela portava, di corsa; tutto questo oltre al solito lavoro.

Se per un verso gli acciacchi dell’età lo avevano portato a passare più tempo a riposo, per un altro gli avevano fatto nascere una gran voglia di raccontare, di riordinare tutti i ricordi. È quindi utile e piacevole sopra ogni altra cosa, per le persone con qualche anno, avere per le mani un qualcuno cui raccontare le proprie storie, perché rappresentandole ad alta voce, rimettendole in scena, si rivivono, si rivive un po’ di gioventù, ci si rende conto d’essere vissuti.

L’occasione migliore per parlare, per raccontare è il lieto convivio, la tavola, il pranzo o la cena che dir si voglia. Per questi motivi assai di sovente mio zio m’invitava a pranzo. Certo i pranzi di festa (per il Natale o per qualche ricorrenza famigliare) erano luculliani, variegati nelle pietanze e nei vini, dai tempi lunghi e dalla digestione difficile. Per questo ho sempre preferito di gran lunga gli inviti improvvisati, i pranzi nei quali si condivideva “quel che c’è”, senza pretese e senza servizi buoni ad ingombrare la tavola, dandomi l’impressione (per un momento) di condividere realmente quegli scampoli di vita come condividevo il desco.

A primavera i faggi sono i primi a risvegliarsi e dal cortile di quella casa si potevano vedere macchie di verde tenero e nuovo. Alle nove del mattino mio zio aveva già messo la pentola con l’acqua sulla stufa. “Oggi polenta” diceva serio. Aveva la sua pentola adatta, aveva il suo bastone per girarla (er cannèt) che s’era costruito ricercando una certa ergonomicità, come direbbero oggi certi ingegneri. In altre parole dando alla sommità del bastone una forma arrotondata e disassata, quasi da manovella, facilitava l’impegnativa opera di rimestamento del cucinato. Aveva soprattutto la sua polenta, nel sacchetto di carta, quello da pane, comprata al mulino, o da un amico, di un mais che avrebbe potuto veder crescere.


 La cottura lenta donava il tempo di raccontare, rammemorare persone, occasioni, cose da ridere, cose da piangere. Spesso il rimestatore trovava modo di litigare chiassosamente con la moglie, la quale peraltro non gliele mandava a dire. Le liti fra i due erano assidue e verbalmente violente. Chi non era abituato restava pietrificato, salvo rendersi conto che più di una lite si trattava di un latrato di cani abituati così, dalla solitudine e dagli anni. Dove altri avrebbero detto: “Cara, passami il sale” mio zio diceva: “ – bestemmia innominabile – me lo vuoi dare quel sale –bestemmia altrettanto innominabile – o te lo tieni per te?!”

Era così una polenta impastata di bestemmie e di aneddoti. Eppure non era stufo di mangiarla.

Ricordava vividamente che, da ragazzo, fin dal mattino sua madre la polenta gliela propinava con grande generosità: “Prendetene fin che volete…”, mentre il companatico era assai più raro: poco formaggio o poca frittata. “E non potevo neanche lamentarmi – concludeva mio zio – lo sai che avevo un amico della mia età che aveva solo la polenta, niente altro. E la mangiava con l’acqua: un boccone di polenta e un sorso di acqua appresso per mandarla giù, perché nonostante la fame non c’era verso di inghiottirla, – bestemmia –  altro che balle!”

Mentre mia zia preparava a sua volta intingoli o sughi (spesso di porri, all’occasione cinghiale o lepre) ecco la pietanza acquisire consistenza fino ad esser cotta, ad insindacabile giudizio del cuoco.


Un tempo, ricordava mio zio, si vuotava sul tagliere, che si era in tanti in famiglia. Ora non ne vale più la pena. Ognuno se ne prende nel piatto, se la condisce come gli pare. Gli avanzi sarebbero andati sulla stufa, la sera, ad annerirsi e bruciacchiarsi, e sarebbero stati conditi con formaggio fermentato (brus) o sfregati d’aglio.

Ero convinto che la polenta di mio zio non fosse poi tanto diversa da quella rapida, istantanea che si compra oggi in ogni negozio. Non ne avvertivo le differenze, soprattutto perché il mio piatto era profusamente allagato dagli intingoli saporosissimi di mia zia. Da ragazzotto, anzi, sostenevo la comodità di quel preparato per produrre polenta in tre minuti, e una volta l’avevo pure portata a mio zio, per fargliela provare. Il tempo di far bollire l’acqua, una rimestata, ed è pronta per l’uso: è comodissima! Lui fu molto gentile, mi disse che l’avrebbe provata. A distanza di qualche giorno gliene chiesi conto e lui, che era un galantuomo, fece una lunga perifrasi, per farmi capire che non era il caso di portargli niente, e meno che mai quella polenta. Buona, neh! Per carità. Però lui preferiva la sua, quella che ci vuole tempo e pazienza per farla cuocere. Non capii per bene i suoi motivi: la polenta è polenta, che diamine!

Solo oggi, quando mangio un piatto di quella istantanea, comoda all’uso quanto insipiente, sento quanto è diversa.

Non potrei, oggi, mettere a bollire un pentolone sul gas e far bollire per tutta la mattina, la bagna di porri che faceva mia zia era solo quella, le fette di polenta non saprei dove abbrustolirle e non ho quel buon brus. Ma più di tutto non ho le parole, le storie, il tempo dalla mia, la pazienza di “coltivare” un pasto come aveva mio zio. Ho capito che il gusto delle cose va assaporato quando c’è perché è difficile farlo tornare. È bello ricordarlo ma è pia illusione ritrovare lo stesso identico sapore di una polenta mangiata nella penombra di una cucina antica, scaldata da una stufa a legna, gravida di vapore e altri aromi, mentre fuori il sole acceca e illumina le prime foglie dei faggi.

ALESSANDRO MARENCO

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