IL RUGGITO DEL GRILLO E LA POLITEIA

IL RUGGITO DEL GRILLO
E LA POLITEIA

IL RUGGITO DEL GRILLO E LA POLITEIA

 

E’ una constatazione di fatto che  il termine “politica” ha perso da tempo, presso l’opinione pubblica  e nel giudizio dei più (vedi l’alto tasso di astensionismo nelle ultime tornate elettorali),  il suo   significato originario e nobile di “arte di governare la polis”,  diventando sinonimo di malaffare, di corruzione, di camarilla, di malversazione, di privilegio, di abuso, di casta, di parassitismo, di inefficienza, di clientelismo, di inquinamento materiale e morale, di appropriazione indebita quando non di vera e propria associazione per delinquere di stampo mafioso. In un quadro come questo tutte le derive antipolitiche, qualunquistiche, populistiche, demagogiche  e, al limite, sovversive trovano un terreno quanto mai adatto al loro propagarsi, e i Masanielli di turno ottime chances per accreditarsi quali salvatori della patria, raddrizzatori e vendicatori dei torti subiti dai cittadini più deboli e indifesi, rottamatori del vecchio (o similnuovo e già agonizzante sistema partitico della cosiddetta seconda Repubblica) e instauratori di un nuovo ordine che superi le obsolete categorie ideologiche novecentesche come “destra e sinistra”, “liberismo e collettivismo”, “partito e movimento”, “classe politica e società civile”…Senza la crisi etico-politica,   e conseguenti processi in piazza (televisiva),  che ha portato sul banco degli imputati  quella che si è convenuto di chiamare prima Repubblica, ad eccezione del Pds da un lato e dell’ Msi dall’altro, non si spiegherebbero  fenomeni politici costituzionalmente aberranti come la “Lega Nord per l’indipedenza della Padania”, movimento separatista a fasi alterne di lotta e di governo; o la formazione a tambur battente  di un partito-azienda come “Forza Italia”, dispositivo d’arma mediatico-parlamentare di difesa e d’attacco nei confronti del potere giudiziario,  alle dipendenze di un impresario-padrone di tv, giornali e case editrici (per tacer del resto); o lo sdoganamento, previo lavacro nelle acque di Fiuggi, dei postfascisti di Alleanza Nazionale e la loro ascesa a “responsabilità di governo”.

Oggi assistiamo alla fine ingloriosa anche di questi strani partiti propriatari o personali (a cui va aggiunto, duole dirlo, anche l’Italia dei Valori dell’ex pubblico ministero Antonio Di Pietro, che ha seguito la sorte, quasi un contrappasso, dei partiti che aveva contribuito a distruggere)  le cui fortune o disgrazie dipendevano dal carisma dei loro leader: perso il carisma del leader (Bossi, Fini, Di Pietro…) anche il partito si è perso. Resiste il carisma del Cavaliere, è vero, ma per quanto ancora? Non dava già segni di squilibrio nella fase terminale del suo ultimo governo? C’è voluta tutta la buona volontà e la strategia  suicida di Bersani per resuscitarlo a nuova vita politica! E veniamo al triste capitolo della sinistra italiana, più frammentata e contraddittoria che mai, con un Pd  suddiviso in non si sa più quante correnti, al governo, sì, ma in difficile coabitazione con l’avversario (qualcuno direbbe il complice) storico, il Pdl e con i “centristi” dello spento e scialbo  Mario Monti, che di sinistra non vuol nemmeno sentir parlare; un Pd sempre alle prese con problemi interni di regolamenti e di posizionamenti in vista del congresso  d’autunno, ancora alla ricerca di un’ identità nella diversità  e di un’unità nella puralità delle anime che lo compongono. E ora, senza la crisi evidente di questa mai veramente nata seconda Repubblica, e l’inerzia colpevole del maggior partito del centrosinstra, che non ha voluto (o potuto?) far proprie le istanze innovative del giovane sindaco di Firenze Matteo Renzi, non si spiegherebbe il travolgente successo  del MoVimento 5 Stelle di Beppe Grillo e di Gianroberto Casaleggio, che ha rischiato di vincere le ultime legislative puntando su  slogan di grande efficacia come “Sono morti che camminano (i partiti)!”, “Tutti a casa” e “Arrendetevi, siete circondati!”, urlati nelle piazze d’Italia reali e virtuali dal talentoso comico genovese. E’ chiaro che un MoVimento di questo genere, che rifiuta persino il nome di partito e non fa mistero delle sue ambizioni maggioritarie e rivoluzianarie (se non altro nel costume e nella prassi della comunicazione e della propaganda politica) va preso molto sul serio; e infatti si moltiplicano gli studi, i pamphlet e gli instant book su questo fenomeno indubbiamente inedito, non solo nella storia del nostro Paese, e che, pur qualificabile come  movimento di natura populistica, presenta delle specificità che sfuggono alle consuete categorie politologiche – basti pensare all’uso intensivo della Rete come strumento principale di comunicazione  tra il leader e la base dei militanti – anche per la storia e le  caratteritiche personali dei due personaggi cofondatori.

 

Le vicende professionali e private, le avventure e disavventure mediatiche, le meritorie battaglie ambiantaliste e la fortunata invenzione dei Vaffaday oceanici che hanno trasformato un comico di razza in un leader carismatico di tipo nuovo, sono ormai di dominio pubblico.  Eppure  non è certo fuori luogo chiedersi, come  il critico letterario e scrittore Roberto Caracci ne Il ruggito del Grillo. Cronaca semiseria del comico tribuno, Moretti & Vitali, 2013, uscito durante la campagna elettorale: “Chi è il vero Grillo? Il cabarettista, il comico, l’attore istrionico? O il tribuno, l’oratore politico, il dominatore delle piazze?” E si risponde, a mio modo di vedere un po’ troppo semplicisticamente, così: “La migliore risposta a questi quesiti è l’immagine della matrioska: in Grillo le figure, le anime delle sue tante reincarnazioni non si sono mai sostituite l’una con l’altra, ma sovrapposte, incapsulate, integrate”. Curiosa la disinvoltura, o la bella sicurezza,  con cui Caracci allontana da Grillo ogni sospetto di personalità non del tutto armonizzata! Tanto più che, subito dopo, con qualche controsenso, il cronista semiserio ne deduce che  “la falena è rimasta un po’ grillo, e il drago è rimasto un po’ falena. In senso più generale, l’uomo dei teatri è rimasto televisivo, e quello delle piazze è rimasto teatrale”. Dunque siamo in pieno nella politica-spettacolo. E il blogger, viene spontaneo chiedere, dov’è rimasto? Mi pare ovvio che Grillo ha saputo e sa usare linguaggi e stili diversi (con una predilezione per l’invettiva e per  il sermo trivialis) mescolando sapientemente il comico al serio,  al semiserio e al drammatico, da quel consumato showman che è; ma non è detto che la confusione degli stili si risolva, di per sé, in chiarezza di idee o di ideali, come il suo cronista (o agiografo?)  tende a far credere: “La contraddizione, che tanti gli addebitano, fra teatro e politica, fra spettacolo e comizio, rimane tale solo per chi non accetta una confusione già risolta in Grillo, nel momento in cui dichiara espressamente di aver usato la sua popolarità comica per una propria battaglia di civiltà”. In altri termini dobbiamo fidarci del comico tribuno o del tribuno comico che predica e agisce per il nostro bene, che “non vuole solo far ridere, ma vuole entrare nella testa delle persone e gettare semi di dubbio, di sospetto e di conoscenza”. Ora, finché si tratta di satira politica o di costume, come in Dario Fo, o in Roberto Benigni, o nei fratelli Guzzanti, o in Maurizio Crozza o in Paolo Rossi, o in Daniele Luttazzi, non ci sarebbe niente da eccepire (si può solo notare che, per quanto bravi, la loro satira non ha minimamente intaccato il consenso di cui ha goduto e gode, è il caso di dire,  tuttora ,  un leader amato “a prescindere” come il Cavaliere); un problema sorge quando qualcuno (attore, predicatore,  tribuno o leader carismatico che sia) “vuole entrare nella testa delle persone”; non so se Roberto Caracci si sia  reso conto – dall’intonazione apologetica della sua cronaca semiseria direi di no – della pericolosità di un simile assunto; pericolosità denunciata prima dello “tzunami” elettorale, le cui dimensioni hanno sorpreso lo stesso Grillo,  da Daniele Luttazzi, che ha parlato, appunto, del pericolo di “plagio di massa” che le performance a senso unico del comico-predicatore e affabulatore genovese potevano rappresentare (23 giugno 2012).  Questo non significa, sia chiaro, che molte delle tesi del MoVimento non siano condivisibili, soprattutto quelle sulla necessità di abbattere i costi esorbitanti della politica a tutti i livelli, di fermare lo scempio del territorio causato da una dissennata e criminale speculazione edilizia e dalle cosiddette “grandi opere” tanto costose quanto improduttive e lo spreco delle risorse energetiche, nonché di  potenziare gli investimenti  per la scuola  pubblica e per la ricerca sulle fonti alternative e rinnovabili prima che il collasso ambientale divenga irreversibile. Quello che molti non accettano – e il sottoscritto, nel caso il lettore non se ne fosse accorto,  è tra questi – oltre ai modi istrionici e all’abuso di turpiloquio, tratti stilistici buoni per catturare  l’assenso e la simpatia di quello che un tempo si chiamava “il popolino”, ma certamente non idonei al confronto dialettico in contesti istituzionali –  è la conduzione autoritaria, insindacabile e paternalistica dei rapporti del leader carismatico con i militanti e soprattutto con i parlamentari; conduzione tanto più incongrua in un MoVimento che si vanta di praticare la democrazia diretta, e che difatti ha provocato l’allontanamento volontario o addirittura l’espulsione   di chi ha dimostrato, se mai, indipendenza di giudizio e capacità critiche. Ma, si sa, ai leader carismatici tutto si può chiedere meno la tolleraranza per  il dissenso e i dissenzienti interni o esterni al “loro” MoVimento.

FULVIO SGUERSO

 

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