IL RITO

Alcuni brevi appunti sul rito

Alcuni brevi appunti sul rito

Il rito collettivo del primo maggio

Il rito è cosa della quale difficilmente l’uomo sa fare a meno. Anche se magari da un certo punto di vista  farne a meno sarebbe auspicabile.

Resta che esso è segno e sigillo di passaggio. E’ il sostituto reale e approssimato di quell’utopico e logicamente inarrivabile punto in cui il tempo può essere fermato e poi, reso vergine, sùbito nuovamente lasciato alla sua corsa.

 Spesso il bisogno di scrollarsi di dosso ogni strascico di un’avventura mentale spiacevole o deleteria o frustrante, oppure di una parallela avventura della propria realtà sociale e fisica, richiama il rito con una forza incontrastabile e prepotente. Dal rito deve nascere l’uomo nuovo.

Il rito è fenomeno illogico. Pretende di scindere nettamente il passato dal futuro, ma, agostinianamente, l’indivisibilità del presente glielo impedisce.

In pratica tutti i popoli primitivi utilizzano il rito, così come molti gruppi-struttura sociali e religiosi (le sette massoniche, la mafia, la Chiesa, lo Stato, le associazioni sportive, culturali etc.). Ma il rito ha anche importanza a livello oggettivo, nel senso che tramite esso si può stabilire il nuovo ruolo che una persona svolgerà all’interno di particolari aggregati quali l’ufficio, la fabbrica, il partito… In questo caso il rito si configura in maniera nettamente più formale, per cui più che di rinnovamento interiore si deve parlare di una nuova configurazione dalla quale l’individuo è investito; configurazione che egli è immediatamente e necessariamente tenuto a rappresentare.

Il rito è, sebbene in percentuali diverse a seconda che sia maggiormente diretto alla interiorità o alla esteriorità, oltreché un fenomeno che vorrebbe determinare il passaggio, anche un fenomeno atto al conferimento. Ogni rito comporta un giuramento, o una promessa, o un impegno fatti agli altri e/o a se stessi, per cui uno dei rischi del rito è che non si riesca a far fronte adeguatamente a siffatto giuramento (promessa, impegno). Ma non si tratta dell’unico rischio; ve ne sono altri. Per esempio ci si può rendere conto subito dopo il compimento del rito, che forse esso non è stato eseguito correttamente.  Orbene, se si avesse la certezza della maldestra esecuzione del rito (per esso la procedura è fatto fondamentale), si potrebbe eventualmente ripeterlo; ma se, come si è prospettato, tale certezza non si dà,  si cade in una situazione di stallo: così come non è possibile fare riferimento ad un rito che forse non è valido, altrettanto non è possibile, nell’incertezza, non attenersi ad un giuramento (promessa, impegno) secondo cui il rito doveva essere definitivamente attestato e non essere superato da un altro rito sostitutivo e successivo.

Un ulteriore rischio che si può evidenziare è costituito dalla constatazione fatta a posteriori che il rito non fosse rivolto a tutto ciò cui doveva, o, viceversa, fosse rivolto a più cose di quanto non fosse giusto.

Gli esempi sarebbero innumerevoli, tuttavia per la maggior parte essi si possono ricondurre ad una tipologia fondamentale.

Il rito del Matrimonio religioso

 Essa è riassumibile nel concetto secondo cui l’individuo che giura (promette, si impegna), agisce irrazionalmente, perché il tempo ha una sua continuità inarrestabile, la quale nell’impatto con l’essere umano si configura come continuità di cambiamento. Credere di avere il potere di fermare il flusso del tempo (e quindi di fossilizzare la continuità del cambiamento nella mente dell’uomo) attraverso la formalizzazione rituale, è una contraddizione nei termini.

Chi si serve del rito dovrebbe essere consapevole che la perentorietà e definitività che ad esso si attribuiscono, sono nello stesso tempo necessarie e false. E’ vero che senza prendere seriamente la finzione non si ricaverebbe nulla di positivo dal rito,  ma la stragrande maggioranza delle persone non si accorge della insostenibilità razionale di quest’ultimo, e pertanto lo vive come un fenomeno abilitato a tutti gli effetti a sancire validamente cambiamenti e ruoli. Per lo più non si ha bisogno di “far finta che” il rito abbia una sua sicura saldezza logica: lo si crede effettivamente. Perciò si è facilitati nell’acquisirlo quale parte costitutiva della propria realtà significante, sebbene ciò comporti presumibilmente una maggiore rigidità psicologica e una maggiore formalità sociale.

Elemento indispensabile al rito è l’oggetto, o la parola o il gesto, così carichi di una definitività di  senso da assumere senz’altro una coloritura magica. E’ per questo che l’incantesimo non si dà se il rituale non è condotto secondo quella che si ritiene la sua esatta partitura. Il pensiero che da solo, in autonomia spontanea, determina una decisione, non è rituale; non ha bisogno di esserlo perché è già sufficientemente forte di per sé.  Il pensiero che, invece, per decidere ha bisogno del “via libera” sprigionantesi dalla valenza magica degli oggetti (delle parole, dei gesti) rivela, attraverso questo suo stesso bisogno, la sua debolezza.

Poiché ogni rito, come s’è detto, non può fare a meno della magia della parola, o del gesto o dell’oggetto (come ci mostrano l’etnologia, la psicologia, la psicanalisi, la psichiatria, le dottrine religiose, la sociologia, le varie arti magiche), ne deriva che laddove c’è ritualità, c’è, sotto diverse forme, insicurezza.

Per portare il più macroscopico tra gli esempi possibili, bisognerà dire che un’istituzione come la Chiesa cattolica (si precisa “cattolica” perché tra le due grandi Chiese del nostro mondo occidentale, cattolica, appunto, e protestante, è la prima ad essere più altamente ritualizzata) si relaziona al rito attraverso una dialettica certamente mossa dal fattore della insicurezza, ma in modo assai singolare, per cui si instaura quella che potremmo definire una strategia di “propaganda et confirmatio fidei”, secondo un meccanismo basato su un individuo che, per paura (di malattie, solitudine, povertà etc.), desidera essere ritualmente rassicurato; e su una Chiesa che, rassicurando tramite il rito, si assicura la fedeltà dei vecchi fedeli e conquista alla sua causa fedeli nuovi, trovando in ciò, ovviamente, una autorassicurazione.

In modo più o meno palese, più o meno articolato, è comunque sempre il fattore della insicurezza che sottende l’imporsi della ritualità. Gli stessi riti tribali “di passaggio” (da adolescente a guerriero, da guerriero a capo-villaggio, e molti altri ancora) che sembrerebbero essere estranei alla precedente affermazione, lo sono soltanto in apparenza. Al di là del primo superficiale giudizio, si dovrà convenire che pur non trattandosi di rituali atti a tener lontani gli spiriti maligni o la siccità, hanno tuttavia la funzione di assegnare un ruolo, e pertanto di decretare un’identità sicura all’individuo, e di autorizzare la società  a rapportarsi a lui in maniera altrettanto sicura, cosicché essa possa da lui pretendere comportamenti che non potrebbe richiedere  ad un individuo non formalizzato in nessun ruolo, ad un individuo socialmente indefinito.

Non è facile approntare un rituale che sappia soddisfare tutte, o quantomeno tutte le più importanti ed urgenti, esigenze del soggetto. Perché quest’ultimo deve essere in grado, come un gran maestro di cerimonia, di organizzare e tarare ogni dettaglio secondo una procedura che si svolge scandita da tempi tutt’altro che casuali, pena l’invalidamento del rituale medesimo. Nell’eseguire un rituale, infatti, diluire o abbreviare troppo i tempi significa togliere intensità o ingorgare una tensione psichica la quale invece raggiunge i suoi scopi soltanto se incanalata con decisione e ordine.

Nell’ambito di un rituale, si incontrano spesso parole-chiave e formule magiche, in quanto hanno saputo assumere e riassumere nonché adeguatamente e opportunamente gestire, il senso scatenante la tensione psichica. Il soggetto da quel momento le utilizza perché sa che esse interpretano al meglio le sue esigenze, ed evita così il faticoso cammino di ripercorrere un iter di pensiero che già è stato compiuto e il cui frutto è stato appunto la creazione di tali parole-chiave e di tali formule. Le quali, paradossalmente, acquisiranno sempre più potere sul soggetto a mano a mano che gli permetteranno di raggiungere ciò che desiderava.

 

Prof. Fulvio Baldoino

 

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